Maggio 17th, 2025 Riccardo Fucile
LA RAGIONE PER CUI MELONI VUOL METTERE LE MANI AVANTI FIN D’ORA SUL FATTO CHE I SOLDATI ITALIANI NON ANDRANNO IN UCRAINA È UNA SOLA, E SI CHIAMA SALVINI. MELONI VUOLE EVITARE DI OFFRIRGLI L’OCCASIONE PER UNIRSI IN CORO A CONTE NELLA CAMPAGNA “PACIFISTA” CHE HA LEI E SOLTANTO LEI COME BERSAGLIO. PER FARLO È DISPOSTA A PAGARE QUALSIASI PREZZO
De Gasperi diceva: «Mai soli». Ed era dopo la storica vittoria del 1948, quando la Dc,
avendo i numeri per governare, appunto, da sola, scelse comunque di formare governi di coalizione e di legare la propria sorte a quella degli alleati.
Su un simile principio anche Meloni dovrebbe riflettere: specie dopo l’isolamento che ha accompagnato la sua visita a Tirana, il gelido incontro con i partner europei della coalizione dei “Volenterosi” e l’esclusione dal vertice dedicato alla guerra (e all’inutile, purtroppo, trattativa sulla tregua) in Ucraina.
Sebbene ci sia sempre la scusa dei cattivi rapporti personali con il presidente francese, con il quale fino a tarda sera ci sono state polemiche, almeno la volta scorsa la premier, preferendo solo collegarsi con Macron, Starmer, Merz e gli altri […], aveva trovato il modo di camuffare l’ambiguità della sua posizione verso i “Volenterosi”, che data fin dalla prima riunione della coalizione.
Ma forse è stata proprio quell’assenza a motivare la freddezza esplicita degli altri leader a Tirana nei suoi confronti. Ciò che ha determinato anche l’evidente isolamento.
Va detto: Meloni si era mossa finora in campo internazionale convinta di poter esercitare un ruolo tra l’Europa, in cui stava con un piede dentro e uno fuori, e il “re” assoluto degli euroscettici, lo stesso Trump.
Ma forse era un piano troppo ambizioso. Meloni avrebbe dovuto comprenderlo, proprio perché si vanta di aver capito meglio di altri un personaggio inafferrabile come il presidente americano
La nascita dei “Volenterosi” da una parte, e l’inatteso credito che Trump ha
deciso di dar loro, hanno fatto svanire tutt’insieme l’ipotesi della “mediazione” italiana tra Europa e Usa.
Ha un bel dire, Meloni che l’Italia ha sempre detto chiaramente, fin dal primo vertice dei “Volenterosi”, di non volersi unire all’invio di soldati in Ucraina. Ma allora cosa vuol fare?
È chiaro che in caso di tregua sarà necessario costituire una forza multinazionale per sorvegliare il fronte . Se Trump ha telefonato ai “Volenterosi” a Tirana, vuol dire che il loro piano gli interessa, perché consentirebbe agli Stati Uniti di conciliarlo con il desiderio di sganciarsi dalle proprie responsabilità europee.
L’Italia, in passato, non s’è mai tirata indietro in casi come questi. E neppure si è nascosta nelle retrovie, come dimostra il tributo di sangue pagato in situazioni assai rischiose, vedi Nassiriya, per citare solo un esempio.
Ma Meloni stavolta è decisa a tenere le truppe italiane lontane da territori di guerra o post-guerra, come ha ripetuto anche ieri per spiegare la mancata partecipazione al vertice della coalizione. Anche a costo di scontare l’isolamento e di fare i conti con un futuro sempre meno fondato sulla diplomazia e le mediazioni e in cui l’ambiguità non paga più.
Qui però c’entra poco la politica estera, su cui la premier, dopo una stagione di successi, rischia di giocarsi buona parte della sua credibilità. La ragione per cui Meloni vuol mettere le mani avanti fin d’ora sul fatto che i soldati italiani non andranno in Ucraina è una sola, e si chiama Salvini.
Infatti, arcistufa del suo vice, formalmente alleato, ma avversario su tutti i più importanti dossier del governo, Meloni vuole così evitare di offrirgli l’occasione per unirsi in coro a Conte, cosa che fa ormai quasi tutti i giorni,
nella campagna “pacifista” che ha lei e soltanto lei come bersaglio. Per farlo è disposta a pagare qualsiasi prezzo: anche quello della solitudine con cui è riemersa da Tirana.
(da La Stampa)
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Maggio 17th, 2025 Riccardo Fucile
IL 61% DEGLI ITALIANI PREVEDE CHE L’ESECUTIVO ARRIVERÀ A FINE LEGISLATURA
Ci avviamo a una stagione elettorale intensa, che prevede il voto in numerosi Comuni, in alcune Regioni e, infine, dovunque, in occasione dei referendum sui temi del lavoro e della cittadinanza agli stranieri.
Un periodo che contribuirà a verificare i rapporti fra i partiti sul piano elettorale e delle alleanze. In una fase in cui le relazioni “fra” gli schieramenti e “dentro” agli stessi schieramenti appaiono instabili e problematici.
Se osserviamo gli orientamenti rilevati nei giorni scorsi da Demos per Repubblica questa indicazione appare evidente. A partire dalle stime di voto, che propongono un profilo “stabile” – e quindi “instabile” – rispetto alle elezioni degli ultimi anni.
I Fratelli d’Italia confermano il primato. Anzi, rispetto alle Europee del 2024, lo consolidano. Seppure di poco. Superano, infatti, il 29%. Mentre il Pd scende, fermandosi al 22%. Dietro, il M5s risale di 2 punti e mezzo rispetto alle Europee, ma resta lontano dai risultati ottenuti alle Politiche nel 2022. E a maggior ragione nel decennio precedente.
Le altre forze politiche sono tutte sotto il 10%. Lega e Forza Italia tra l’8 e il 9%. Quindi, Alleanza Verdi-Sinistra, 5,8%. Più indietro, il Terzo Polo: Azione, Italia Viva, +Europa e gli altri.
Si riproduce, dunque, un sistema frammentato. Nel quale il “potere negoziale” di tutti i partiti si consolida a differenza delle coalizioni sempre in discussione. Anche per questo motivo la fiducia nel governo guidato da Giorgia Meloni tocca l’indice più basso: 35%, 20 punti in meno rispetto all’autunno del 2022 quando si è “insediato”.
Tra i motivi del declino che coinvolge il governo e (tutte) le forze politiche, il più significativo è la crescente importanza assunta dalla “personalizzazione”. Per citare Mauro Calise, il “partito del capo” delinea una “democrazia del leader”. Meglio: “dei” leader. Perché ormai i partiti hanno l’immagine del leader.
La figura che rappresenta maggiormente gli italiani è il presidente Sergio Mattarella. Ma gli stessi leader di partito presentano un livello di gradimento generalmente superiore ai partiti che guidano. Davanti a tutti-e si conferma, infatti, la premier Giorgia Meloni (35%).
Seguita, però da Giuseppe Conte (29%), oggi leader del M5s, in precedenza a sua volta capo del governo. E da Antonio Tajani (28%), attuale vicepresidente del Consiglio e segretario nazionale di Forza Italia.
Più in basso, ma non di molto, incontriamo Elly Schlein, segretaria del Pd. L’unica a proporre un grado di consenso coerente rispetto al partito. E quindi limitato. A causa delle divisioni interne, che condizionano il Pd. Inseguono Matteo Salvini, Emma Bonino, Carlo Calenda, Nicola Fratoianni. E gli altri.
La divisione dei partiti condiziona soprattutto l’opposizione. Anche per questa ragione, la maggioranza del campione (61%) prevede che questo governo proseguirà il suo percorso fino alla fine della legislatura, nel 2027. Nel frattempo, però, si voterà. Non solo per rinnovare amministrazioni locali, ma per delineare e confermare nuove leggi. Attraverso i referendum che si svolgeranno il mese prossimo su questioni importanti, che riguardano la cittadinanza e il lavoro.
(da Repubblica)
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Maggio 17th, 2025 Riccardo Fucile
AVVICINARSI AL 40% SAREBBE GIA’ UN SUCCESSO IN UN PAESE DOVE IL 50% NON VOTA NEANCHE ALLE ELEZIONI PERCHE’ NON GLIENE FREGA NIENTE DI NULLA SE NON AGLI INTERESSI PERSONALI
Mancano tre settimane al voto per i referendum su cittadinanza e lavoro. I cinque
quesiti sono al centro della polemica politica da tempo, non tanto per il merito dei quesiti (quello sulla cittadinanza accorcerebbe i tempi per diventare
italiani da dieci a cinque anni, quelli sul lavoro porterebbero diversi interventi su precariato, subappalti e altri temi), ma soprattutto perché il centrodestra ha cercato di oscurare l’iniziativa.
Non è un mistero che la maggioranza di governo e persino il presidente del Senato La Russa si siano schierati per il non voto, al punto da suscitare la reazione delle opposizioni e della Cgil, che manifesteranno lunedì 19 maggio a Roma. In più, c’è la questione della scarsa copertura dei referendum da parte della Rai. Ma cosa dicono i numeri sulla possibile affluenza al referendum?
Quante persone sanno che ci sarà un referendum su cittadinanza e lavoro
Un nuovo sondaggio realizzato da Demos per Repubblica riporta quanti cittadini sanno che esiste un referendum, e quanti si sentono informati a riguardo. È emerso che quasi un italiano su dieci, il 9% di chi ha risposto alla rilevazione, non sapeva che si voterà a giugno.
Questo potrebbe essere un dato positivo: significa che il 91% degli elettori, invece, sa del referendum. Ma c’è un’altra distinzione da fare. Quella tra chi dice di sentirsi informato su cosa si voterà, e chi invece no: magari ha sentito parlare del referendum, ha visto un accenno sui social o in tv per esempio, ma non sa davvero di cosa si tratta.
Solo il 52% dei rispondenti dice di sentirsi informato sul referendum. Un altro 39% invece (quasi quattro su dieci) dice di sapere che esiste e poco più. Non esattamente un dato incoraggiante per i promotori del voto, che per ottenere il quorum dovranno convincere il 50% più uno degli elettori ad andare alle urne. Solo a quel punto partirebbe la conta dei voti, e potrebbe vincere il Sì oppure il No. In caso contrario, l’intera votazione sarà semplicemente dichiarata non valida.
Le previsioni sull’affluenza: quanti andranno a votare
Dunque solo il 52% degli elettori si sente informato sul referendum. Certo, questo significa che se tutti quanti andassero a votare il quorum sarebbe raggiunto. Ma non è così semplice: essere informati sul voto non significa essere disposti ad andare alle urne. O perché si vogliono seguire le indicazioni del centrodestra, che ha chiesto di non votare, o perché non si ritiene importante la questione, o perché per altri motivi non si è interessati a esercitare il diritto di voto.
Finora sull’effettiva intenzione di recarsi ai seggi sono stati fatti due sondaggi nazionali. A distanza di pochi giorni, entrambi hanno dato sostanzialmente lo stesso risultato. Ipsos il 10 maggio ha stimato una percentuale tra il 32% e il 38%, anche se in quella rilevazione la percentuale di italiani che diceva di non sapere che ci fosse un referendum era addirittura al 38%. Il 13 maggio, Swg ha invece calcolato che il 32-36% dei cittadini era disposto al voto.
Mancano tre settimane e l’obiettivo per i promotori del referendum è complesso: guadagnare almeno un 10-15%, ma forse anche un 20%, di affluenza. Sicuramente da qui al momento del voto gli impegni si moltiplicheranno, mentre continuerà la pressione politica per fare sì che anche la televisione pubblica dia il giusto livello di informazione a riguardo.
Su cosa si vota nei referendum, in breve
Come detto, il quesito sulla cittadinanza interviene per rendere un po’ più breve l’iter per diventare italiani. Invece di dieci anni di residenza nel Paese, i cittadini stranieri dovrebbero aspettarne ‘solo’ cinque. Sul lavoro invece il primo quesito cancella una parte del Jobs Act per tornare in parte all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quindi al reintegro dei lavoratori licenziati senza
giustificato motivo (nei casi più gravi).
Il secondo aumenta il risarcimento per i dipendenti licenziati ingiustamente dalle piccole imprese. Il terzo quesito renderebbe obbligatorio motivare sempre i contratti a tempo determinato, fin dall’inizio, senza la possibilità di usarli semplicemente come alternativa più economica ai posti fissi. E infine il quarto quesito aumenterebbe le responsabilità delle aziende committenti nei cantieri, che non potrebbero scaricare tutto sui subappalti, e così darebbe maggiori tutele ai lavoratori.
(da Fanpage)
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Maggio 17th, 2025 Riccardo Fucile
DATI ALLARMANTI SULLA DIPENDENZA DAI DEVICE TECONOLOGICI DEI MINORI
“Fisicamente distanti ma mai soli”, è questo il dipinto delle generazioni di bambini di oggi, iper connessi e vittime delle ansie di quei sistemi tecnologici sempre in aggiornamento di cui neanche i loro genitori conoscono davvero i pericoli. A descriverli è il nuovo rapporto OCSE “How’s Life for Children in the Digital Age?” pubblicato nella giornata di ieri.
Cosa fanno durante il giorno i nativi digitali
I ricercatori dell’OCSE hanno analizzato 45 indicatori comparabili su scala internazionale legati ai bimbi e al loro uso degli schermi scoprendo che, nonostante la tecnologia fornisca ai minori di oggi moltissime opportunità di gioco, apprendimento e connessione, l’uso smodato che spesso ne fanno impatta fortemente sulla loro salute fisica e psicologica. Dai dati raccolti emerge che l’84% dei 15enni utilizza i device tecnologici almeno due ore a settimana con l’obiettivo di imparare qualcosa di nuovo. Il 40% dei ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 15 anni, però trascorre regolarmente il tempo della propria giornata sui social media per connettersi ai coetanei. “Il rischio per la loro salute mentale è che disimparino a connettersi nella vita reale, che incontrino il bullismo in rete e che pur di rimanere online inizino a dormire poco e a condurre stili di vita del tutto sedentari” si legge dallo studio.
La maggior parte dei ragazzi, infatti, fa un uso esagerato in termini di tempo dei propri dispositivi cellulari. Il 27% di loro a 15 anni trascorre 3 ore al giorno giocando ai videogame, l’8% dei ragazzi e il 3% delle ragazze anche 7 ore in una giornata. Il 66% di loro trascorre almeno 3 ore sui social media quotidianamente. Dai dati emerge che ad avere un rapporto problematico con schermi e social sono soprattutto i figli che crescono in famiglie monoparentali, costituite cioè da un unico genitore oltre a loro.
Come stanno le generazioni sempre connesse
A spaventare molto è la risposta del corpo e della mente dei ragazzi a questa evidente dipendenza dai social network e dai dispositivi digitali già a partire dagli 11 anni. Il 16% di loro, pur di stare online, trascura qualsiasi tipo di altro hobby, mentre il 17% di loro afferma di sentirsi ansioso e nervoso quando non è connesso alla rete o non può utilizzare i propri dispositivi digitali. “La verità è che la tecnologia ha del tutto trasformato il modo di comunicare dei bambini, offrendo loro sì dei benefici ma anche un alto prezzo da pagare ossia la dipendenza che causa in loro non pochi problemi mentali e fisici”.
Secondo gli esperti che hanno redatto il report, infatti, la rete permette ai ragazzi di agire spesso senza regole, senza il proprio nome e senza la fisicità del mondo reale portandoli o a cadere vittima degli adescatori o a finire per essere dei bulli. “I social danno l’idea ai ragazzi di avere più amici ed essere connessi in realtà li isolano e fungono solo da placebo per la solitudine”. Per tanto dal report suggeriscono di regolamentare l’uso dei social per i minori e di proteggerli anche illustrando ai loro genitori i rischi della rete.
(da agenzie)
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Maggio 17th, 2025 Riccardo Fucile
IL DECLASSAMENTO E’ IL SEGNALE DI UNA CRISI PROFONDA PER GLI USA
L’agenzia di rating Moody’s ha abbassato, o ‘declassato’, il rating degli Stati Uniti. I
titoli di Stato degli Usa sono passati da Aaa, il punteggio più alto in assoluto, a Aa1. Era dal 1919 che gli Stati Uniti non scendevano al di sotto della tripla A nelle valutazioni dell’agenzia. Moody’s era anche l’ultima delle
grandi agenzie a dare il massimo dei punti agli States: Fitch li aveva declassati nell’agosto 2023, Standard & Poor’s nel 2011 dopo la crisi del debito. Insomma, con l’amministrazione Trump il Paese ha perso l’ultimo punteggio perfetto che aveva.
I motivi della decisione di Moody’s
L’agenzia ha spiegato che i motivi del declassamento non sono legati solo al governo in carica: “Diverse amministrazioni e Congressi non sono riusciti a trovare delle misure per invertire la tendenza che vede deficit annuali sempre più grandi e un costo degli interessi in aumento”. Ovvero, negli ultimi anni il debito pubblico è cresciuto sempre di più, tanto che oggi vale 37mila miliardi di dollari, oltre 120% del Pil (l’Italia, che è tra i Paesi peggiori in Europa da questo punto di vista, è al 135%).
Ma se le ragioni di questo indebitamento vanno cercate negli anni scorsi, la gestione dell’attuale presidente non rende più tranquilli. Sono in programma tagli alle tasse – soprattutto per i più ricchi – che saranno compensati in parte riducendo i fondi per sanità, assistenza sociale e investimenti green, ma in parte con nuovo debito pubblico: 3.300 miliardi di dollari in dieci anni. Il progetto è stato fermato al Congresso per ora, anche con l’opposizione di alcuni Repubblicani, ma resta in lavorazione.
Un portavoce della Casa Bianca, Kush Desai, ha commentato dicendo che l’amministrazione Trump si sta “concentrando per sistemare il pasticcio di Biden tagliando sprechi, truffe e abusi nel governo”, e ha attaccato Moodys’ dicendo che non ha “credibilità”. Steven Cheung, direttore delle comunicazioni della Casa Bianca, sui social ha definito “oppositore di Trump” un economista accusato di lavorare per Moody’s (in realtà l’economista in questione, Mark Zandi, non si occupa dei rating).
Ma al di là degli attacchi politici, il declassamento è un brutto segnale per
Trump e i suoi. L’aumento di debito pubblico è un problema perché più hai debito, più devi pagare i tuoi creditori, e quindi ogni anno hai soldi in meno che puoi usare per riforme e altri interventi. Ma soprattutto, se l’autorevolezza degli Stati Uniti vacilla, allora il rischio è che il tasso d’interesse che bisogna pagare a quei creditori salga.
Cosa rischiano gli gli Stati Uniti
Negli ultimi decenni l’economia statunitense è sempre stata considerata, di fatto, la più solida del pianeta. Perciò molti investitori erano disposti a fare prestiti agli Usa (comprando i loro titoli di Stato) accontentandosi di un tasso d’interesse piuttosto basso, a prescindere da cosa succedeva nel Paese. Il che dava agli Stati Uniti il privilegio di poter fare anche parecchio debito pubblico senza dover pagare un tasso maggiore a chi gli dava soldi. Cosa che non accade per altri Paesi, come ad esempio l’Italia, dove lo spread misura proprio quanto aumenta questo tasso rispetto alla Germania.
Ora però la situazione potrebbe cambiare. Ci sono stati anni e anni di debito pubblico in aumento (anche durante il primo mandato di Trump), e da quando il tycoon è entrato in carica la politica economica è stata sostanzialmente imprevedibile. Basta guardare a come sono stati gestiti finora i dazi. Così, il rating peggiora. E se gli Usa iniziano a non essere più reputati ‘infallibili’, potrebbero essere obbligati a offrire agli investitori dei tassi d’interesse sempre più alti, ed essere obbligati a pagare più debiti ogni anno. Una spirale che, nel tempo, potrebbe mettere in crisi il loro primato nella finanza mondiale.
(da agenzie)
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Maggio 17th, 2025 Riccardo Fucile
QUALCUNO O QUALCUNA POTREBBE AVER PERSO LA TESTA, IMPUGNANDO UN MARTELLO, AL TERMINE DI UNA DISCUSSIONE SU QUALCHE “SEGRETO SCOMODO”? I “NERD” COME STASI, I “TRANQUILLONI” E QUEL VIAGGIO A LONDRA DI ALBERTO
C’era una volta una specie di demi-monde garlaschese. Ragazzi e ragazze di provincia annoiati dal tempo lento della Lomellina, studenti universitari, nerd, smanettoni, ma anche giovani ambiziosi, esuberanti.
Qualcuno è “figlio di papà”, altri vengono da famiglie più popolari. Hanno tra i 19 e i 26 anni, l’età di Chiara. Formano comitive che si incrociano e magari si mischiano. Fanno vacanze in Liguria e in Trentino, a volte coi genitori, a volte con gli amici. Anche a Londra, dove a luglio 2007 — un mese prima dell’omicidio — volano Alberto Stasi e l’amico del cuore Marco Panzarasa. Chiara li raggiunge per qualche giorno, una foto li mostra insieme.
Diciotto anni dopo quel 13 agosto 2007 che cambierà per sempre la storia di Garlasco, quei ragazzi e quelle ragazze sono uomini e donne laureate, con figli e inseriti in contesti professionali anche di prestigio. Ma i fantasmi del passato tornano a bussare.
Si ripresentano con l’abito del prelievo genetico: dopo Andrea Sempio, adesso tocca ad altri consegnare il Dna ai carabinieri di Milano. Alle gemelle Paola e Stefania Cappa — cugine di Chiara — a Panzarasa, ad Alessandro Biasibetti, diacono, a Mattia Capra e Roberto Freddi — questi ultimi tre erano amici di
Sempio e di Marco Poggi, fratello della vittima.
Nella memoria collettiva della meglio gioventù di Garlasco loro erano quelli che giocavano alla Play Station a casa Poggi. I “tranquilloni”. Poi c’erano i “festaioli”, il gruppo delle gemelle “K”. Discoteca, ville, feste.
Un mondo con cui Chiara Poggi — stando ai racconti di chi è cresciuto con lei — non era esattamente in sintonia. Ora. Perché gli investigatori, dopo quello del nuovo indagato Sempio, vogliono i campioni biologici di altre sei persone le cui vite — direttamente o indirettamente — lambivano la vita di Chiara?
“Questa è la fase investigativa che richiede di collocare ogni tassello al suo posto, e vedere se da quel posto — nel giorno dell’omicidio di Chiara e nei giorni che l’hanno preceduto — si era spostato, e per quale motivo”, è il ragionamento che fa un uomo impegnato nelle indagini.
Un mosaico. Tante tessere, ognuna con una storia. Bisogna immaginarsela così la cerchia amicale che, nei primi anni del terzo millennio, in quella che veniva chiamata “Las Vegas della Lomellina”, inglobava Stasi e i suoi amici, Sempio e il suo giro, le allora 26enni gemelle “K” con le loro esuberanze e fragilità, e certo lei, Chiara. La cugina timida, composta, super giudiziosa. Che insomma andava un po’ “trascinata”.
Se è vero come è vero che, anche per via della rete di relazioni dello zio, Ermanno Cappa, avvocato di fama e padre di Stefania e Paola, queste ultime erano più “di mondo”, assidue frequentatrici della discoteca “Le Rotonde” e invitate a ogni festa, è vero anche che Chiara era più casalinga, riservata e pudica. Lo sapeva bene Alberto, nemmeno lui era un viveur.
Con Marco Panzarasa erano compagni di classe nella sezione B del liceo Omodeo di Mortara. Dopo il diploma nel 2002 Stasi si iscrive alla Bocconi e Marco a Giurisprudenza. Nel 2007 si sentivano 10-15 volte al giorno (dai tabulati telefonici), più contatti di quanti Stasi avesse con Chiara (all’epoc
lingue maliziose avevano messo in giro voci — infondate — di possibili dissidi tra Chiara e Alberto proprio per l’amicizia stretta con Marco).
Dopo l’omicidio hanno interrotto i rapporti. L’amico fraterno di Stasi era a Loano: rientra in fretta e furia in treno, dopo avere saputo dell’assassinio. Mai stato indagato. Nemmeno le gemelle Cappa. E neanche i tre amici di Andrea Sempio.
Cosa cercano gli inquirenti? Un sospetto silenzioso, da quasi tre mesi attraversa i loro pensieri. Chiara Poggi potrebbe aver pagato con la vita uno o più rifiuti a partecipare a qualche situazione a lei sgradita? Qualcuno o qualcuna potrebbe aver perso la testa — impugnando un martello — al termine di una discussione durante la quale si sarebbe paventato il rischio di vedere infranto un segreto scomodo? Al momento è poco più di una suggestione, ma tant’è. Le comparazioni dei Dna, forse, parleranno.
(da Repubblica)
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Maggio 17th, 2025 Riccardo Fucile
PERCHÉ ORA GLI INVESTIGATORI VOGLIONO IL DNA DELLE DUE RAGAZZE, E QUELLO DEL MIGLIOR AMICO DI ALBERTO STASI (MARCO PANZARASA) E DI ALTRI TRE COMPAGNI DI SCORRIBANDE DI ANDREA SEMPIO? IL SOSPETTO È CHE CHIARA POTREBBE AVER PAGATO CON LA VITA UNO O PIÙ RIFIUTI A PARTECIPARE A QUALCHE SITUAZIONE A LEI SGRADITA?
Andrea Sempio, per il momento, resta l’unico indagato. Ma non toccherà solo a lui
l’esame del Dna con cui gli investigatori cercano di dare una nuova soluzione al caso Chiara Poggi.
Nel maxi incidente probatorio disposto nella nuova indagine sul delitto di Garlasco, sarà effettuato il test anche su quello delle gemelle Stefania e Paola Cappa, cugine di Chiara Poggi. Su quello del miglior amico dell’epoca di
Alberto Stasi, Marco Panzarasa.
E ancora su quelli dei tre amici di Marco Poggi e Andrea Sempio: Alessandro Biasibetti, oggi frate domenicano, Roberto Freddi e Mattia Capra, perquisiti mercoledì a Garlasco. Sotto esame anche il Dna di tre ufficiali dei carabinieri e del medico legale che il 13 agosto 2007 entrarono nel luogo dell’omicidio senza indossare i guanti.
Il primo dei sei quesiti a cui dovranno rispondere gli esperti nominati dalla gip Daniela Garlaschelli riguarda l’utilizzabilità dei profili genetici isolati sui margini delle unghie di Chiara
Due tracce di Dna misto e maschile che non appartengono né ai Poggi né ad Alberto Stasi. Una delle due invece – secondo i consulenti dei pm – sarebbe attribuibile a Sempio, mentre l’altra a un soggetto maschile non identificato. Se si potranno estrapolare verranno comparate con i Dna dei soli maschi dell’elenco.
La presenza del nome di Panzarasa, oggi 42enne avvocato penalista a Pavia, potrebbe spiegarsi con l’uso comune che lui e Chiara Poggi facevano, quell’estate di 18 anni fa, del computer portatile di Stasi. Quello che la ventiseienne usò per dieci minuti la sera prima di essere uccisa.
Stessa cosa sarebbe avvenuta con il computer fisso di casa Poggi, e riguarderebbe gli amici del fratello minore di Chiara. Con lei – come dichiarato nei verbali dell’epoca – nessuno avrebbe avuto rapporti diretti. Nella villetta ci andavano solo per giocare ai videogame sul computer di Marco.
Qui entrano in gioco anche le gemelle Cappa, gli investigatori dell’Arma dell’epoca e il medico legale.
Ulteriori analisi riguarderanno un frammento di un tappetino insanguinato e pochi resti della spazzatura in cucina in cui vennero ritrovati gli avanzi della colazione che Chiara Poggi fece prima di essere uccisa
Un pasto consumato non da sola, secondo l’ipotesi dei carabinieri del Nucleo investigativo di Milano.
Andrea Sempio e i suoi tre amici. Tutti coetanei (nati nel 1988). Tutti residenti a Garlasco. Tutti amici di Marco, fratello minore di Chiara Poggi. Tutti (tranne uno) a Garlasco il 13 agosto del 2007, giorno dell’omicidio.Vengono tutti ascoltati dai carabinieri di Vigevano il 4 ottobre 2008, dopo Andrea Sempio.
Alessandro Biasibetti risponde per quaranta minuti. Dopo il liceo a Vigevano, l’università a Pavia e dieci anni da educatore per la diocesi e la parrocchia, sarà frate domenicano, professo nel 2020, diacono quattro anni dopo. La sua è l’amicizia più antica con Marco Poggi, fin dall’asilo. Legati anche i genitori .”Escludo categoricamente – dichiara – di avere amici in comune con Chiara Poggi. Non ho mai visto il fidanzato Alberto Stasi presso l’abitazione di Chiara Poggi, anche se lo conosco in quanto è stato il mio animatore all’oratorio”.
“All’alba del 5 agosto 2007 i Poggi, madre, padre e figlio, partono per la vacanza in Trentino insieme a tutta la famiglia Biasibetti”, conferma nel 2017 l’allora procuratore di Pavia Mario Venditti, chiedendo l’archiviazione per Sempio.
Lo fa per spiegare come mai Sempio abbia telefonato a casa Poggi, sul fisso. Una scelta sospetta secondo chi l’accusa. “Un errore” per Venditti, giustificati con la ricerca del fratello di Chiara: “Sempio, non riuscendo a chiamare Marco, ha chiamato Biasibetti, sapendo che si trovava con lui” in vacanza.
Nel 2020, però, un’informativa dei carabinieri di Milano legge l’episodio all’opposto. “Perché Sempio chiama casa Poggi il 7 e 8 agosto se sa che Marco è in Trentino?”, si domandano i militari. Ipotizzando, implicitamente, un qualche legame fra Sempio e la vittima
Nel 2008, lo stesso giorno di Biasibetti, parlano Mattia Capra e Roberto Freddi. Amici di Marco Poggi dalla scuola, hanno con Chiara una conoscenza meno che superficiale. Hanno trascorso in casa l’intera giornata e appreso dell’omicidio da una telefonata ricevuta da Sempio. Dal telefono di Sempio sarebbe emerso un fitto scambio di chiamate e di sms con Capra e Freddi (non indagati) nella mattinata del 13 agosto 2007.
Marco Panzarasa oggi è un noto avvocato di 42 anni, che si occupa di reati contro la pubblica amministrazione e di diritto ambientale. Figlio dell’ex sindaco di Garlasco, è considerato all’epoca il miglior amico di Alberto Stasi .Viene ascoltato lo stesso 13 agosto. “Circa – verbalizza – il suo rapporto con Chiara, Alberto mi diceva che teneva molto a quella ragazza, perché era molto brava e trasparente”.
Fra il 7 luglio e il 4 agosto 2007 Alberto è in vacanza di studio a Londra. Panzarasa lo raggiunge il 15 luglio per lo stesso motivo. Giovedì 19 luglio arriva Chiara, che si trattiene fino alla domenica. “Ho sentito – conclude – Alberto nel tardo pomeriggio di sabato scorso (11 agosto, ndr). Io ero al mare a Borghetto Santo Spirito e Alberto mi chiese se potevo dargli una cartolina che avevo portato dall’Inghilterra. La cartolina era di Alberto ed era rimasta nei miei bagagli. Io facevo presente che mi trovavo al mare, per cui non avrei potuto ridargli la cartolina. Ci accordavamo per incontrarci lunedì, ossia oggi”.
Quel lunedì, l’incontro però non avviene: l’omicidio di Chiara Poggi diventa di dominio pubblico nella tarda mattinata, quando Marco Panzarasa sta rientrando in treno da Borghetto Santo Spirito. E’ in treno quando riceve la telefonata di Stefania Cappa, cugina della vittima e che aiuta in un paio di esami all’università, e apprende dell’omicidio della fidanzata dell’amico. I biglietti del treno sono agli atti dell’indagine
(da agenzie)
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Maggio 17th, 2025 Riccardo Fucile
GLI STRUMENTI UTILIZZATI VANNO DALLA PUBBLICITÀ SPONSORIZZATA SU FACEBOOK ALLA MANIPOLAZIONE ALGORITMICA, FINO ALLA PRODUZIONE DI CONTENUTI TRAMITE AI … DAL 2022, MOSCA HA INVESTITO OLTRE 600 MILIONI DI EURO L’ANNO IN QUESTO SISTEMA
Nel 2022, sotto il nome in codice “Doppelgänger”, è emersa un’operazione russa che clonava siti di informazione autorevoli per diffondere propaganda filorussa. Ma secondo un report appena pubblicato da due istituzioni svedesi – la Lund University e la Psychological defence agency – Doppelgänger è solo la punta dell’iceberg.
I ricercatori James Pamment e Darejan Tsurtsumia hanno tracciato un quadro inedito delle capacità e della strategia della Social design agency (Sda), il principale contractor del Cremlino nella guerra informativa digitale.
Il rapporto, basato sull’accesso a oltre 3.000 documenti interni trapelati dalla Sda, smonta la narrazione dominante: Doppelgänger non è un’operazione autonoma, ma una delle tante tecniche usate da Sda.
Il vero cuore dell’influenza russa contemporanea non risiede più nei media statali come Sputnik o Rt, ma in un ecosistema fluido di aziende private, organizzazioni no-profit e agenzie creative che agiscono su incarico diretto dell’amministrazione presidenziale russa.
Il motore privato della propaganda
La Social design agency è un’organizzazione formalmente privata, ma saldamente integrata nella rete coordinata dal vicecapo dell’amministrazione presidenziale, Sergei Kiriyenko. Collabora stabilmente con altre entità come Structura national technologies, Ano Dialog e l’Istituto per lo sviluppo di Internet (Ano Iri), tutte formalmente indipendenti, ma di fatto controllate dal Cremlino.
Dal 2022, Mosca ha investito oltre 600 milioni di euro l’anno in questo sistema, costruendo una propaganda “dalla culla alla tomba” che sostituisce progressivamente la televisione. Sda ha sfruttato l’opportunità offerta dalle sanzioni ai media statali per occupare lo spazio informativo lasciato scoperto, ottenendo fondi e legittimazione dopo il clamore generato dalla scoperta di Doppelgänger.
Contrariamente a quanto sostenuto dai primi rapporti occidentali, Doppelgänger è una semplice tecnica di delivery: l’uso di siti specchio per veicolare contenuti disinformativi. È solo uno dei metodi all’interno di vaste “contro-campagne” come la Cce (contro l’Europa), la Ccu (contro l’Ucraina) e la Cci (contro il blocco occidentale).
Paradossalmente, l’identificazione e la denuncia di Doppelgänger sono diventate un successo per Mosca: hanno permesso alla Sda di dimostrare la sua efficacia ai propri finanziatori.
Nella logica di questa guerra informativa, essere scoperti è un obiettivo. Se un contenuto Sda viene ripreso, smentito o dibattuto in Occidente, diventa segno di penetrazione riuscita. Non importa il messaggio, importa che se ne parli.
Le campagne e le capacità della Sda
Nel cuore delle attività della Social design agency c’è una strategia precisa: dividere, destabilizzare, insinuarsi nei punti deboli delle democrazie.
Il report rivela che la Sda ha progettato e coordinato operazioni mirate sfruttando ogni mezzo disponibile: dalla pubblicità sponsorizzata su Facebook alla manipolazione algoritmica, dalla disinformazione virale fino alla produzione di contenuti tramite intelligenza artificiale.
Nel contesto europeo, l’obiettivo principale della Sda è stato favorire l’ascesa di forze euroscettiche, in particolare in vista delle elezioni europee del 2024
Contenuti polarizzanti sono stati confezionati in modo da sembrare provenien
da media attendibili, sfruttando siti clonati, campagne a pagamento e fake news su temi sensibili come l’immigrazione, il conflitto in Ucraina e l’agenda verde.
Contro Kiev, la strategia è stata ancora più articolata. L’obiettivo era logorare la fiducia nel presidente Zelensky, demoralizzare l’esercito e promuovere una narrazione alternativa guidata da figure filorusse come Viktor Medvedchuk. I messaggi venivano adattati a microtargeting locali grazie a strumenti di profilazione sociologica e psicologica.
Negli Usa, Sda ha puntato sul rafforzamento della polarizzazione politica. I contenuti miravano a rafforzare il consenso tra gli elettori repubblicani più radicali, usando come veicoli notizie fasulle, meme virali e video manipolati per alimentare teorie complottiste e sfiducia nelle istituzioni.
Le tecniche di delivery della Sda funzionano su tre livelli:
1. Volume e rumore: pubblicità, commenti automatici, spam visivo. L’idea è creare un sottofondo permanente.
2. Brand falsi: mirror site che imitano testate come “Le Monde” o “Bild”, ma anche nuovi media “indipendenti” con orientamenti precisi.
3. Viralità: l’obiettivo finale è che i messaggi entrino nel discorso pubblico. Se a rilanciarli sono politici, media o celebrità, la campagna è considerata un successo.
Il contenuto è un pretesto
Non esistono per la Sda narrazioni “vere” o “false”: ogni contenuto è uno strumento. Se una bufala funziona, viene potenziata; se non funziona, viene abbandonata. Questo approccio “darwiniano” all’informazione la rende estremamente adattabile. Non interessa la verità, ma la capacità di generare reazione.
Propaganda ibrida
La Sda non opera solo online. Ha anche promosso azioni nel mondo reale:
manifestazioni, graffiti, vandalismi simbolici. In parallelo, ha sviluppato una produzione di contenuti impressionante: articoli, meme, video, commenti, sondaggi manipolati.
Ha persino costruito dashboard per il monitoraggio di media e social, simulando precisione analitica ma con l’unico scopo di dimostrare efficacia verso i suoi finanziatori.
Debolezze e opportunità
Il report evidenzia anche limiti e contraddizioni della Sda: approcci analitici obsoleti, eccessiva dipendenza da strumenti automatici, e soprattutto una certa “bulimia” di contenuti, che rischia di diluire l’impatto reale delle campagne. Tuttavia, finché le contromisure occidentali restano lente, reattive e non coordinate, il sistema continuerà a funzionare.
(da agenzie)
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Maggio 17th, 2025 Riccardo Fucile
IL GIORNALISTA TIMOTHY L. O’BRIEN: “FARFUGLIA LE PAROLE, SEMBRA STANCO, È DINOCCOLATO. E NON SO QUANTO ENTUSIASMO AUTENTICO ABBIA PER IL POTERE E LA CARICA, A PARTE IL FATTO CHE LO TIENE LONTANO DALLA PRIGIONE E AL CENTRO DELLA SCENA”
Donald Trump “vive nella paura” di subire lo stesso declino cognitivo di suo padre,
secondo la brutale valutazione di un ospite della tv MSNBC.
“The Weekend: Primetime” ha accolto Timothy L. O’Brien, senior executive editor di Bloomberg Opinion, per discutere le riflessioni di Trump su un terzo mandato.
L’analista politico ha affermato che le motivazioni del presidente sono sempre state “l’auto-accaparramento” o “l’auto-conservazione”.
O’Brien ha aggiunto, tuttavia, che non crede che Trump si ricandiderà, anche se gli “piacerebbe vivere fino a 300 anni”. “E credo che gli piacerebbe essere presidente per altri 200 anni, se potesse”, ha ironizzato O’Brien.
Tuttavia, la vitalità del 78enne è visibilmente diminuita e lui è perfettamente consapevole della sua mortalità, ha aggiunto “Mentre guardavo quel filmato, sapete, una delle cose che mi ha davvero colpito è che Donald Trump è invecchiato”, ha detto.
“Quando si parla delle cose che ostacoleranno un terzo mandato di Donald Trump, ovviamente si parla di elettori. Ovviamente, c’è il 22° emendamento. Ma a giugno compirà 79 anni”.
Nonostante le riflessioni di Trump, l’emendamento vieta a chiunque sia stato eletto due volte di essere eletto di nuovo. L’età e i precedenti della sua famiglia in materia di malattie cerebrali dovrebbero essere la sua principale preoccupazione, ha suggerito O’Brien.
“Vive nella paura di percorrere la strada che ha percorso suo padre, ovvero la demenza, seguita dall’Alzheimer, fino ai 90 anni. E credo che si sia portato dietro questo fardello per sempre”, ha aggiunto il giornalista.
Fred Trump, immobiliarista, è morto di polmonite e di Alzheimer all’età di 93 anni nel 1999. Ciò avvenne otto anni dopo la prima diagnosi formale di demenza.
Ha mantenuto il titolo di presidente del consiglio di amministrazione della Trump Management anche dopo la diagnosi. Secondo l’amico di famiglia e socio in affari Richard Levy, ha continuato a lavorare.
“È venuto in ufficio ogni giorno fino al giorno in cui è andato in ospedale”, ha detto dopo la scomparsa di Fred Trump.
Secondo quanto riferito, Trump junior evita di parlare di questo argomento delicato, in parte perché ha criticato il suo predecessore Joe Biden per il presunto deficit cognitivo, ma anche perché teme che questo possa essere il suo destino, ha detto O’Brien.
“Guardando come risponde alle domande ora rispetto a Trump 1.0, farfuglia un po’ le parole, sembra stanco, è dinoccolato. E non so quanto entusiasmo autentico abbia per il potere e la carica che ricopre, a parte il fatto che lo tiene lontano dalla prigione e lo tiene al centro della scena”, ha aggiunto.
Il nipote di Donald Trump, Fred C. Trump III, ha dichiarato l’anno scorso di temere un percorso simile per il presidente.
“Come chiunque altro, ho visto il suo declino. Ma lo vedo in parallelo con il modo in cui è stato il declino di mio nonno”, ha detto Fred, 61 anni, a People. “Se qualcuno vuole credere che la demenza non sia presente nella famiglia Trump, non è vero”.
(da thedailybeast)
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