Ottobre 29th, 2018 Riccardo Fucile
LE REAZIONI DEI PATRIDIOTI ALLA NOTIZIA
Il governo del Cambiamento ha deciso di tagliare cinquanta milioni di euro dal fondo a sostegno in favore di pensionati di guerra, perseguitati politici e vittime delle leggi razziali?
La viceministra dell’Economia Laura Castelli dichiara che si tratta di una fake news ma c’è la tabella pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale in allegato al Decreto Fiscale che conferma invece l’abolizione delle pensioni concesse ai perseguitati dal Fascismo.
Quindi il governo può aver cambiato idea, ma non puo’ negare di averlo scritto.
Si tratta di pensioni da 500 euro al mese destinate a coloro che sono nati prima del 1945 e che hanno dimostrato, di fronte ad un’apposita commissione, di essere stati vittime di una persecuzione razziale da parte dell’allora Regno d’Italia.
Chissà , forse al governo del Cambiamento hanno pensato di sostituirle con la pensione di cittadinanza da 780 euro, ma la dichiarazione della Castelli che smentisce «in modo categorico che sia stato tolto anche solo un euro dall’assegno per le vittime delle leggi razziali e per i perseguitati dal fascismo per motivi politici» lascia intendere che così non è.
Nel frattempo però l’opinione di molti italiani è favorevole all’abolizione dell’assegno pensionistico destinato alle vittime delle leggi razziali.
Perchè? le ragioni sono le più disparate, ma quella che va per la maggiore è che lo sanno tutti ormai che di quelle vittime non ce n’è più nessuna in vita.
Molti commentatori infatti riportano la notizia della morte di Lello Di Segni, cui è stato dato grande risalto su tutti i giornali.
Il signor Di Segni però era l’ultimo sopravvissuto del rastrellamento nazista del 16 ottobre 1943 nel Ghetto ebraico a Roma. Non era l’ultimo sopravvissuto delle leggi razziali.
Prova ne è — se non bastasse la dotazione del Fondo a confermare che qualcuno quelle pensioni le percepisce — che un’altra illustre sopravvissuta dei campi di sterminio, la senatrice Liliana Segre (nata nel 1930), siede ora sui banchi del Parlamento italiano.
Per molte persone non serve allarmarsin perchè non c’è nessuna persona rimasta a percepire quella pensione.
L’abolizione delle pensioni per i sopravvissuti è invece una manovra di buon senso (noto leit motiv della propaganda salviniana) perchè è anche ora di smetterla con questo rimando continuo al passato..
C’è chi crede che 50 milioni di euro siano troppi, anche perchè la guerra è finita da un pezzo ed è ora di finirla di parlare di fascismo.
Oppure c’è chi spiega che non ha senso continuare a pagare perchè non c’è più nessuno a cui dare quei soldi.
È davvero così incredibile che ci siano in Italia persone che hanno subito persecuzioni politiche e razziali durante l’ultimo conflitto mondiale? A quanto pare evidentemente c’è chi la pensa così.
Il punto delle leggi razziali del 1938 però è che sono andate a colpire tutti, indiscriminatamente. All’epoca non c’era nessun ministro che si dichiarava “ministro e papà ”, o forse c’era, ma alla fine tra le vittime delle leggi razziali ci sono stati molti bambini, perseguitati perchè ebrei e costretti ad abbandonare la scuola.
Intanto a chiarire la questione, che curiosamente la viceministra Castelli non si era peritata di spiegare al pubblico, arriva una nota dell’Ucei.
L’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane ha ricevuto rassicurazioni dal Quirinale e dal Governo: «Secondo gli aggiornamenti ricevuti e accolti con sollievo dall’Ucei gli importi cancellati nel provvedimento fiscale fanno riferimento ad avanzi di bilancio derivanti dalla normale diminuzione del numero degli assistiti. Tali importi vengono così rimessi a disposizione del bilancio generale dello Stato».
Insomma a quanto pare non ci sarà nessun taglio alle pensioni per le vittime delle leggi razziali. Rimangono tuttavia alcuni punti poco chiari.
Perchè l’onorevole Castelli non l’ha detto subito? E perchè nel decreto fiscale la dotazione del Fondo è stata cancellata e non è stata rimessa?
La risposta alla prima domanda sta nelle logiche interne della propaganda pentastellata.
Quella alla seconda invece riguarda il fatto che quei cinquanta milioni servono per le coperture alla manovra; la voce relativa alle pensioni per le vittime delle leggi razziali è indicata tra le riduzioni delle dotazioni ai ministeri, sono quindi tagli alla spesa.
È quindi un intervento del tutto intenzionale e voluto.
Per coprire cosa? Le spese del decreto fiscale.
(da “NextQuotidiano”)
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Ottobre 29th, 2018 Riccardo Fucile
IL CLAMOROSO AUTOGOL PER RISPARMIARE 50 MILIONI.. L’IMPORTO ERA MINIMO: 500 EURO AL MESE
A ottant’anni esatti dalle leggi razziali, il governo Lega-M5S taglia gli assegni previsti fin dal 1955 alle vittime delle leggi razziali e a chi è stato vittima di persecuzioni politiche durante il fascismo.
Parliamo di importi pari a 500 euro al mese destinati a persone nate prima del 1945, che quindi oggi hanno superato i 70 anni di età . Lo stanziamento totale “risparmiato” è pari a 50 milioni di euro.
La decisione è contenuta in un allegato al decreto fiscale pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, insieme ad altri tagli che riguardano il sostegno alle famiglie e alle imprese e non si tratta di una riduzione ma di una cancellazione, fa sapere l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
La presidente dell’Ucei Noemi Di Segni ha scritto al premier Giuseppe Conte, al ministro dell’Economia Giovanni Tria e al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, che ha la delega per i rapporti con le confessioni religiose e per le attività dedicate alla memoria.
§Di Segni ha anche chiesto di poter essere sentita dalla commissione Finanze del Senato che da oggi esaminerà il decreto fiscale.
Per ottenerle gli aventi diritto hanno dovuto fare domanda alla commissione e documentare gli atti persecutori che li hanno colpiti, come ad esempio le lettere delle scuole che li hanno esclusi dopo il 1938.
Noemi Di Segni ha scritto alla Stampa per chiedere un passo indietro al governo:
Non abbiamo neanche il coraggio di informarne i sopravvissuti, di quanto sta accadendo, che con infinito coraggio affrontano nei loro nuclei famigliari, dinanzi a studenti e insegnanti l’impegno di raccontare gli orrori della Shoah, narrando l’inenarrabile, e dover leggere nei loro occhi il senso di desolazione e abbandono.
Quale ente che rappresenta tutti gli ebrei italiani non possiamo che invitare governo e Parlamento a riconsiderare la scelta fatta e valutare ogni possibile rimedio amministrativo, legislativo o emendativo al fine di giungere ad una soluzione che non intacchi il lungo percorso fatto in questi ultimi 75 anni di ricostruzione del Paese, permettendo così a chi ha vissuto quel buio periodo della storia e a chi ha subito persecuzioni per difendere i valori oggi sanciti nella nostra Costituzione, di continuare, per ancora una manciata di anni, di poter vivere, o meglio, sopravvivere.
(da “NextQuotidiano”)
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Ottobre 29th, 2018 Riccardo Fucile
NEL 2019 CHI NON RAGGIUNGE QUOTA 100 USCIRA’ A 67 ANNI… E NEL 2021 IL REQUISITO DI VECCHIAIA POTREBBE SALIRE
Chi non ha almeno quota 100 – somma tra età e contributi – quando andrà in pensione nel 2019?
Le due strade di uscita – vecchiaia e anticipata – sono sempre valide.
Nel primo caso, l’età però sale di cinque mesi rispetto ad oggi: a 67 anni (con un minimo contributivo di 20 anni).
Si adegua – come previsto dalla legge Fornero – alla speranza di vita.
Nel secondo caso, si potrà fare domanda di pensione al raggiungimento di 42 anni e 10 mesi di contributi (un anno in meno per le donne), a prescindere dall’età , proprio come ora.
Anche questo requisito sarebbe dovuto crescere di 5 mesi, ma il governo sembra intenzionato a lasciarlo bloccato.
Nella prima bozza del pacchetto pensioni c’è la norma che blocca l’età di vecchiaia a 67 anni anche dopo il periodo di legge (2019-2020), dunque nel biennio successivo (2021-2022).
Ma questa intenzione sembra tornare in bilico. L’effetto potrebbe in ogni caso essere neutro.
E questo perchè i demografi non prevedono necessariamente un allungamento della speranza di vita in quei due anni (2021-2022). Se pur ci fosse, potrebbe essere minimale (1 mese). Oppure nullo (si resta comunque a 67 anni).
O addirittura – se la mortalità aumentasse nei prossimi quattro anni – in discesa (si uscirebbe prima dei 67 anni).
Se le cose stanno così, il governo alla fine fermerebbe solo il requisito contributivo, lasciandolo fermo a 42 anni e 10 mesi, come detto, per i prossimi due anni almeno. Poi si vedrà (se prorogarlo o no).
Resta confermata in ogni caso quota 100. Tutti i lavoratori che già entro il 31 dicembre 2018 hanno almeno 62 anni e 38 di contributi potranno andare in pensione dall’aprile 2019.
Chi matura il requisito da gennaio in poi, dovrà aspettare le finestre: 3 mesi se dipendente privato o autonomo, 6 mesi se pubblico. Quota 100 è dunque valida in una sola combinazione età -contributi: 62+38. Poi si passa a quota 101: 63+38. Quota 102: 64+38. Quota 103: 65+38. Quota 104: 66+38.
Il meccanismo che lega l’aumento dei requisiti per la pensione all’aumento della speranza di vita ha una sua logica tecnica.
Per mantenere uguale la durata della pensione, se si vive di più, si deve spostare in avanti l’età della pensione (sempre nell’ipotesi, affatto scontata, che si continui a lavorare). Se 140 anni fa un pensionato 65enne aveva di fronte a sè mediamente 10 anni di pensione, oggi siamo al doppio: circa 20.
Tra 40 anni, la durata della pensione potrebbe sfiorare i 25 anni. Di questo si parla, quando si tocca il tema della “sostenibilità ” del sistema pensionistico, tenuto conto del calo demografico che può metterlo a rischio.
Visto che il nostro è un sistema a ripartizione: chi lavora paga le pensioni a chi non lavora più.
(da agenzie)
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Ottobre 22nd, 2018 Riccardo Fucile
LA RIFORMA LEGHISTA PORTERA’ A UN TAGLIO DELL’ASSEGNO MENSILE ANCHE DEL 21%
Quota 100 può costare al lavoratore che va in pensione una decurtazione fino al 21% dell’assegno INPS.
L’anticipo invece costa allo Stato per ogni lavoratore tra 32 e 99mila euro.
I calcoli del Sole 24 Ore oggi svelano la convenienza dell’opzione di uscita in anticipo costruita dal governo Lega-M5S con la formula di quota 100, ovvero 62 anni di età e 38 di contributi.
Con l’uscita a 5 anni e tre mesi rispetto ai requisiti di vecchiaia la decurtazione dell’assegno è del 21%, mentre un impiegato 64enne con una retribuzione da 2mila euro netti che sceglie di lasciare l’ufficio dai tre anni a un anno e tre mesi prima dovrà rinunciare a una cifra che va dall’11 al 5%.
Le stime sono state fornite in da Tabula, la società di ricerca di Stefano Patriarca, ex consigliere economico a palazzo Chigi per i Governi Renzi e Gentiloni.
Con un anticipo di tre anni e tre mesi un operaio in possesso di 40 anni di contributi vedrebbe ridursi il proprio assegno mediamente del 14%, mentre un impiegato con gli stessi anni di versamenti e un anticipo di tre anni perderebbe il 9 per cento. L’anzianità della tuta blu costerebbe allo Stato 69.900 euro per tutto il periodo di anticipo rispetto alla vecchiaia.
Una “tassa implicita” che salirebbe a quasi 100mila euro con anticipo di 5 anni e tre mesi, quindi “quota 100” precisa, mentre scenderebbe a 32.500 euro con un solo anno e tre mesi di anticipo. «
Per chi si trova nel cosiddetto sistema misto (cioè con 18 anni di contributi versati prima della riforma del 1995) e che l’anno prossimo maturerà 62 anni di età e 38 anni di versamenti, l’uscita scatterebbe con due anni in meno rispetto all’età di equilibrio contributivo (64 anni, da confrontare con i 67 anni e tre mesi della vecchiaia e soli 20 anni di contributi).
Chi invece è ancora agganciato al sistema di calcolo retributivo (più di 18 anni di versamenti al dicembre ’95) e ha cumulato 41 o 42 anni di contribuzione può beneficiare di un vantaggio che oscilla dai tre anni e cinque mesi ai quattro anni e quattro mesi rispetto alla vecchiaia a 64 anni e tre mesi e 63 e tre mesi.
Nei giorni scorsi Inps aveva dato una quantificazione analoga della riduzione legata all’anticipo: fino a 500 euro in meno al mese nel caso di un pensionando della Pa (montante a calcolo retributivo fino al 2011 e contributivo negli anni successivi) che esce con uno stipendio annuo di 40mila euro: con cinque anni di minori versamenti anzichè prendere una pensione di 36.500 euro annui si fermerebbe a circa 30mila.
Qualche giorno fa aveva fatto i conti anche La Repubblica: le elaborazioni di Progetica spiegavano che più si anticipa l’uscita, meno soldi si intascano: da un minimo del 2% per chi ha 42 anni di contributi a un massimo del 20%, come nel caso appena descritto.
I nati tra il 1953 e il 1957 (nel 2019 avranno tra 62 e 66 anni) dovranno dunque pensarci bene.
(da “NextQuotidiano”)
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Ottobre 16th, 2018 Riccardo Fucile
LE SIMULAZIONI DELLE SOCIETA’ SPECIALIZZATE AVVERTONO CHE LA RENDITA SARA’ MOLTO PIU’ BASSA… UN ESEMPIO: DA 1500 EURO SI SCENDE A 1.125 (LA DIFFERENZA CHIEDETELA A SALVINI)
Si potrà staccare prima, in alcuni casi anche cinque anni e mezzo in anticipo.
La pensione, però, subirà un drastico taglio, sino a un quarto dell’assegno.
Le simulazioni realizzate in esclusiva per «L’Economia» del Corriere della Sera da Progetica, società di consulenza in pianificazione finanziaria e previdenziale, mostrano i possibili effetti dell’introduzione della «quota 100», cioè la somma dell’età anagrafica (62 anni) e dell’anzianità contributiva (38) come requisito per accedere al pensionamento.
La misura è prevista nel Contratto ed è stata richiamata nella Nota di aggiornamento al Def (Documento di economia e finanza), varato nei giorni scorsi dal governo.
I costi immediati sono molto pesanti.
Dopo i rilievi del presidente dell’Inps Tito Boeri – che ha parlato di 100 miliardi di debito in più sulle spalle degli italiani di domani – si parla comunque di un rimando della partenza delle nuove misure ad aprile, giusto un mese prima delle elezioni europee.
I numeri «magici», da 22 a 26
Chi ha cominciato a lavorare fra i 22 e i 26 anni con continuità di carriera otterrà i maggiori benefici dall’introduzione di Quota 100, cioè la somma di 62 anni di età e 38 di contributi. Il conto, però, sarà molto salato.
Potrà anticipare il pensionamento sino a 5 anni e sei mesi, ma il suo vitalizio subirà un taglio del 25%. Gli effetti sull’età di pensionamento e sul rapporto fra pensione e ultimo stipendio saranno molto diversi a seconda dell’età e dell’inizio della contribuzione.
Per i più anziani
«Gli effetti simulati sulle età di pensionamento indicano che con Quota 100 non cambierà nulla per chi ha iniziato presto a lavorare, per esempio a 18 anni – dice lo studio di Progetica –. Per questi profili continuerà a essere raggiunto per primo il requisito di pensione anticipata, basato sui contributi versati.
Un impatto tra lo scarso e il modesto, compreso tra pochi mesi e due anni, si ha invece per coloro che hanno iniziato a lavorare tardi, intorno ai 30 anni, e per coloro che hanno avuto carriere intermittenti, come precari e donne.
I maggiori benefici di questo meccanismo riguarderanno chi ha iniziato a lavorare in fasce intermedie, tra i 22 ed i 26 anni. Per alcuni profili, infatti, l’anticipo potrebbe superare i 5 anni: addirittura cinque anni e sei mesi per un trentacinquenne che ha cominciato a 26».
Il rischio del quarto
Andando avanti con l’età , non cambierà nulla per chi ha cominciato a lavorare a diciotto anni: pure in questi casi, infatti, scatterà per primo il requisito per la pensione anticipata. Per chi ha cominciato fra i 22 e i 26 anni, l’anticipo potrà andare dai 4 anni e sei mesi per un cinquantenne, ai 3 anni e 8 mesi per un sessantenne.
Quando si parla di pensioni, però, tempo e denaro non vanno quasi mai d’accordo: staccare prima significa subire un taglio del vitalizio.
«Per chi potrebbe continuare a lavorare – prosegue lo studio – il rovescio della medaglia dell’andare prima in pensione è quello di versare meno contributi, e avere quindi una pensione più bassa a causa dei meccanismi di calcolo basati sulla speranza di vita».
Un trentenne che ha cominciato a 26 anni, per esempio, con Quota 100 potrebbe smettere 5 anni e sei mesi prima rispetto al requisito richiesto per la pensione di vecchiaia: il suo assegno, però, si ridurrà di un quarto.
L’impatto sarebbe naturalmente inferiore per i disoccupati, perchè la riduzione sarebbe dovuta solamente al meccanismo di calcolo contributivo e non anche ai minori contributi versati.
Bisogna fra l’altro tener presente che le simulazioni ipotizzano una vita lavorativa senza buchi contributivi dall’inizio sino all’età della pensione: una situazione sempre più rara nell’attuale mondo del lavoro.
L’età di mezzo
Quota 100, in sostanza, riguarda soprattutto coloro che hanno iniziato a lavorare in età di mezzo e con continuità , ma le simulazioni ricordano come andare in pensione prima non abbia solo benefici.
Per coloro che intendono pianificare una serenità economica al tempo della pensione, ritirarsi prima dal lavoro significa infatti destinare maggiori versamenti in previdenza integrativa per integrare l’assegno pubblico, se si vuole evitare una riduzione del proprio tenore di vita.
(da “il Corriere della Sera”)
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Ottobre 14th, 2018 Riccardo Fucile
LA DOMANDA DEL LAVORO NON E’ PIU’ FISSA, O CRESCE L’ECONOMIA NEL SUO INSIEME O LE AZIENDE NON ASSUMONO
Vado subito al dunque: il nostro sistema pensionistico è SENZA TESORETTO (“a
ripartizione”), in quanto le pensioni ogni anno sono pagate dai contributi previdenziali e — se questi contributi non bastano — da un trasferimento di fondi dallo stato all’INPS.
Un sistema pensionistico senza tesoretto va in crisi finanziaria se le persone in media vivono più a lungo (ottima cosa) e se le generazioni successive sono più piccole delle precedenti (a motivo di un numero troppo basso di figli).
Sotto questo profilo, è una banalità osservare come l’immigrazione possa riempire in tutto o in parte questo divario.
Vi sono quattro modi per gestire questa crisi del sistema pensionistico:
1) aumentare i contributi previdenziali, cioè tassare di più il lavor
2) abbassare le pensioni
3) aumentare il trasferimento dallo stato tassando di più e/o tagliando altre spese
4) aumentare l’età pensionabile.
E come mai l’idea di utilizzare il deficit — cioè con lo Stato che si fa prestare più soldi — per coprire questo divario tra uscite ed entrate del sistema pensionistico non è di solito una buona idea?
La ragione sta nel fatto che di solito questa crisi del sistema pensionistico non è temporanea (breve periodo di troppo pochi lavoratori per pensionato) ma PERMANENTE.
Che cosa racconta la storia italiana recente? Dal 1992 le riforme del sistema pensionistico italiano hanno utilizzato in varia misura tutti e quattro i meccanismi di cui sopra.
Tuttavia, se non si vuole abbassare il tenore di vita dei pensionati e/o schiacciare il mercato del lavoro con troppi contributi previdenziale, la strada maestra è UNA SOLA: per gestire in maniera razionale la crisi del sistema pensionistico è necessario AUMENTARE l’età pensionabile.
Se ci pensate, il meccanismo è molto sensato: si vive in media di più e dunque una parte di questa vita aggiuntiva la si passa lavorando.
E se ci pensate ancora di più, ogni tanto sorge il sospetto che coloro i quali non vogliono questa soluzione per il sistema pensionistico non abbiano dimestichezza con il lavoro, oppure non amino il lavoro.
Ecco dunque la ragione per cui le riforme Dini, Maroni, Sacconi e Fornero aumentano l’età pensionabile.
In queste settimane il governo Conte pensa invece di tornare indietro sull’età pensionabile, diminuendola. Anche per colpa dei sindacati, il governo sembra credere all’idea della cosiddetta STAFFETTA GENERAZIONALE: ogni prepensionato lascia lo spazio all’assunzione di un giovane.
Mettiamo le cose in chiaro: nel breve periodo è possibile che imprese i cui lavoratori devono andare in pensione DOPO a motivo di una riforma come quella di Monti-Fornero che aumenta l’età pensionabile decidano di assumere meno giovani.
Lo stesso Tito Boeri, presidente dell’INPS difficilmente tacciabile di inclinazioni politiche grilline o leghiste, ha un articolo in cui dimostra ciò.
Tuttavia, l’effetto è di breve periodo e riguarda la singola impresa che si trova “bloccata” con un aumento dell’età pensionabile dei suoi lavoratori. Che cosa sarebbe successo se la riforma Monti-Fornero si fosse invece basata sull’aumento dei contributi previdenziali? Quale sarebbe stato l’effetto sulla domanda di lavoro da parte delle imprese in questo caso?
I ragionamenti sugli effetti delle riforme non vanno fatti solo sulla base dei dati microeconomici ma anche del modo in cui vengono finanziate.
Se aumenti l’età pensionabile per gestire la crisi finanziaria del sistema pensionistico stai di fatto evitando di fare altro. Che cosa? Ricorri di meno alle altre scelte possibili: abbassare le pensioni, alzare i contributi, aumentare il trasferimento da parte dello stato.
Se ora il governo vuole ABBASSARE l’età pensionabile deve ragionare sul finanziamento di tali scelte. In questo caso: più deficit.
E nel lungo periodo la teoria della staffetta generazionale è FALSA.
I paesi in cui l’occupazione degli anziani cresce di più sono esattamente i paesi in cui anche l’occupazione dei giovani cresce di più.
Nei paesi che hanno un PIL crescente (la torta che diventa più grande) sia lavoratori anziani che giovani contribuiscono a produrre questa torta più grande, lavorando in numero maggiore.
Che dire della situazione attuale? Il governo mette in pericolo i conti pubblici inseguendo teorie farlocche sugli effetti di lungo termine della staffetta generazionale, in quanto crede a un triste modello superfisso in cui la domanda di lavoro è fissa, e dunque l’unico modo per assumere più giovani consiste nel prepensionare i lavoratori anziani.
Come mettere una pezza a questa difficile situazione, quando non sembra che vi sia la volontà politica di mettere la retromarcia?
A motivo dei ragionamenti di cui sopra, si potrebbe al massimo pensare a una TEMPORANEA riduzione dell’età pensionabile, lasciando ben ferme le riforme Maroni e Fornero nei loro effetti di medio-lungo termine.
(da “NextQuotidiano”)
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Ottobre 11th, 2018 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE DELL’INPS: “DAL TAGLIO DELLE PENSIONI D’ORO RISPARMI INFERIORI A 150 MILIONI DI EURO”
Il ripristino della cosiddetta quota 100 rischia di portare ad un aumento del debito pensionistico di 100 miliardi di euro e di penalizzare soipratutto giovani e donne.
È il giudizio espresso dal presidente dell’Inps Tito Boeri, nell’audizione alla Commissione Lavoro della Camera secondo cui uil pericolo “è quello di minare alle basi la solidità del nostro sistema pensionistico”. “E’ un’operazione che fa aumentare la spesa pensionistica mentre riduce in modo consistente i contributi previdenziali anche nel caso ci fosse davvero, come auspicato dal governo, una sostituzione uno a uno tra chi esce e chi entra nel mercato del lavoro”, ha aggiunto.
“Uscite consentite con un minimo di 38 anni di contributi e 62 di età oppure abolendo l’indicizzazione alla speranza di vita dei requisiti contributivi minimi per la pensione anticipata (a tutte le età ) portano ad un incremento nell’ordine di 100 miliardi del debito pensionistico destinato a gravare sulle generazioni future e, già nel 2021 a un incremento ulteriore (oltre la famosa gobba) di circa un punto di pil della spesa pensionistica”.
Inoltre secondo Boeri il ripristino di quota 100 premierebbe gli uomini e i dipendenti pubblici a scapito come detto di donne e giovani. La misura, ha detto, “premia quasi in 9 casi su 10 gli uomini, quasi in un caso su tre persone che hanno un trattamento pensionistico superiore a quello medio degli italiani (e un reddito potenzialmente ancora più alto, se integrato da altre fonti di reddito). Si tratta nel 40% dei casi di dipendenti pubblici che, in un caso su 5, hanno trattamenti superiori ai 35.000 euro all’anno (in più di un caso su 10, superiore ai 40.000 euro)”.
“Donne e giovani penalizzati”
La riforma voluta dal governo “porterà ad avvantaggiare soprattutto gli uomoni, con redditi medio alti e i lavoratori del settore pubblico. Penalizzate invece le donne tradite da requisiti contributivi elevati (quando hanno carriere molto più discontinue degli uomini) e dall’aver dovuto subire sin qui, con l’opzione donna, riduzioni molto consistenti dei trattamenti pensionistici, quando ora per lo più gli uomini potranno andare in pensione prima senza alcuna penalizzazione”. “Pesanti sacrifici – ha aggiunto Boeri – imposti anche ai giovani su cui pesa in prospettiva anche il forte aumento del debito pebnsionistico”.
“Pensioni d’oro, dal ddl risparmi inferiori a 150 milioni”
Il presidente Inps si è soffermato anche sul tema del disegno di legge sulle pensioni d’oro. Il risparmio che potrebbe arrivare dal ddl sarebbe inferiore a 150 milioni e riguarderebbe una platea di circa 30.000 persone.
Secondo Boeri questa riduzione della spesa pensionistica solo se il taglio sulle pensioni superiori a 90.000 euro annui facesse riferimento all’intero reddito pensionistico e non alle singole pensioni. La riduzione massima sarebbe del 23% mentre quella media sarebbe dell’8%.
(da agenzie)
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Ottobre 5th, 2018 Riccardo Fucile
CON 38 ANNI DI CONTRIBUTI NECESSARI DIVENTERA’ 101, 102, 103… E IL 40% DEI POTENZIALI 373.000 INTERESSATI SARANNO DIPENDENTI PUBBLICI
Quota 100, sì ma con 38 anni di contributi o niente. Per questo quota 100 diventa 101,
102, 103 e la cancellazione della “vigliacca” (secondo Salvini) riforma Fornero porterà in pensione nel 2019 la cifra di 373mila italiani, ovvero tutti coloro che hanno almeno 62 anni di età (o più) e contano almeno 38 anni di contributi.
Per tutti gli altri — compresi quelli che hanno accumulato i famosi 41 anni di contributi, ahimè insufficienti — non c’è niente da fare: dovranno aspettare.
Così come attenderanno quelli che speravano che bastasse raggiungere «quota 100» anche con 63 anni e 37 di contributi o 64 e 36.
Il conto sarebbe salito moltissimo, e i potenziali neopensionati sarebbero diventati più di 500.000.
In più, ieri Tito Boeri, presidente dell’INPS in scadenza, ha spiegato che il 40 per cento delle risorse che verranno spese per favorire le uscite in pensione anticipata riguarderanno il lavoro pubblico.
In altre parole, spiega oggi La Stampa in un articolo di Roberto Giovannini, nonostante in Italia i dipendenti pubblici — ministeriali, personale degli enti locali, enti pubblici, scuola, sanità e così via — siano circa 3,8 milioni in tutto (un po’ meno del 15 per cento del totale della forza lavoro attiva nel Paese), saranno proprio i dipendenti pubblici ad essere fortemente sovrarappresentati: il 40 per cento dei 373mila pensionati anticipati proverrà proprio dalle file del pubblico impiego.
E il mondo del lavoro privato? Non saranno moltissimi, dicono gli addetti ai lavori, coloro che verranno avvantaggiati dallo scivolo.
Anzi: la Cgil — che certo non critica il provvedimento varato dal governo giallo-verde — calcola che sorgeranno seri problemi per i circa 40.000 lavoratori «precoci» e «usurati», che ogni anno non potranno più utilizzare il più favorevole meccanismo varato dal governo Gentiloni, destinato a chiudere i battenti.
(da “NextQuotidiano”)
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Settembre 28th, 2018 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE DELL’INPS: “MEZZO MILIONE DI PENSIONATI IN PIU’? ESECUTIVO NON PREVIDENTE”
“C’è una grande iniquità nelle scelte del governo sulle pensioni e questo è un pericolo molto serio”. È severo il giudizo del presidente dell’Inps Tito Boeri sulle politiche che il governo intende adottare nella prossima legge di Bilancio e che sono state inserite nella nota di aggiornamento al Def approvata ieri a tarda sera.
“Ammesso e non concesso che per ogni pensionato creato per scelta politica ci sia un lavoratore giovane – ha spiegato Boeri- bisogna tenere conto che chi va in pensione oggi in media ha una retribuzione di 36.000 euro lordi, mentre un giovane assunto con contratto a tempo indeterminato, cosa molto rara, avrà una retribuzione di 18.000 euro. Quindi ci vorrebbe la retribuzione di almeno due giovani lavoratori per pagare una pensione”.
“Come giudicare un governo che si pone l’obiettivo di aumentare di mezzo milione i pensionati? Direi che si dovrebbe parlare di un esecutivo non previdente”, ha attaccato Boeri.
“Si dice che servirà a liberare opportunità di lavoro per i giovani ma non c’è nessuna garanzia che questo avvenga. Le imprese di fronte all’incertezza tenderanno a ridurre gli organici e a gestire così gli esuberi”, ha osservato.
Boeri ha quindi puntato il dito contro i costi legati al rialzo del differenziale Btp/Bund. “C’è solo uno spreco che si potrebbe oggi davvero ridurre senza danneggiare nessuno: quello dato dagli oneri sul debito pubblico, dal cosiddetto spread”, ha detto, ricordando che ” non c’è nessuna ragione per cui il nostro Paese debba avere 100 punti di interessi in più da pagare sul proprio debito pubblico di un paese come il Portogallo che ha lo stesso livello di debito pubblico o si debba pagare fino a 150 punti in più della Spagna. Questa spesa pubblica aggiuntiva che dobbiamo destinare al pagamento degli interessi sul debito pubblico è davvero uno spreco”.
“Noi dovremmo – ha concluso- misurare gli sprechi da come si riesce a gestire questo . Ci sono cause chiaramente legate alle scelte politiche condotte nel nostro Paese dietro alla dinamica dello spread ”
(da agenzie)
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