CI SI ACCAPIGLIA PER QUOTA 100 MA I 40ENNI AVRANNO PENSIONI DA FAME
LAVORI SALTUARI, PRECARI E MAL PAGATI: “TRA POCHI ANNI SCOPPIERA’ UNA BOMBA SOCIALE”
Concentrato sulla affannosa ricerca di uno o due miliardi (su una spesa pubblica annuale di oltre 750 miliardi) per finanziare un nuovo isolato intervento su scivoli, deroghe e quote, il dialogo tra partiti e Governo sulle pensioni registra ancora una volta un grande assente: la categoria dei giovani.
Il tema previdenziale non sembra animare particolarmente l’agenda politica del premier Mario Draghi che tra i suoi obiettivi non ha certamente quello di introdurre una nuova riforma del sistema pensionistico quanto piuttosto favorire un non troppo traumatico ritorno a quella ‘vecchia’ targata Fornero.
D’altronde ce lo chiede l’Europa, come si suole dire, che con le sue ultime raccomandazioni pre-Covid ha manifestato il suo disappunto per misure come Quota 100.
Poco importa perché mentre la politica si concentra su interventi di breve orizzonte come quota 102 e quota 104 – che secondo la Fondazione Di Vittorio e Cgil coinvolgerebbero al più 10mila lavoratori – c’è una questione, quella giovanile, che andrebbe affrontata oggi per evitare che scoppi domani.
“Il problema vero è che stiamo andando verso una vera bomba sociale”, dice all’HuffPost Felice Roberto Pizzuti, docente di Economia e Politica del Welfare State presso l’Università “Sapienza” di Roma. “Tra 15 anni più della metà dei lavoratori che hanno iniziato a lavorare dopo il 1996, poco meno del 60% per essere più precisi, avrà una pensione inferiore alla soglia di povertà. Questa non è una possibilità o una probabilità, ma una certezza”
Secondo i calcoli della Ragioneria dello Stato, se oggi l’assegno copre tra l′80% e il 90% dell’ultimo reddito, tra dieci anni i lavoratori dipendenti dovranno fare i conti con il 60-70% sull’ultima retribuzione e quelli autonomi con il 40-50%.
Stime che potrebbero tuttavia rivelarsi anche fin troppo ottimistiche se non si tiene conto del mix letale scaturito dall’applicazione del sistema contributivo puro unito alla discontinuità lavorativa con cui sempre più giovani devono purtroppo fare i conti. “Se proiettiamo il sistema attuale nei prossimi tre lustri e supponiamo, peccando di ottimismo, una continuità lavorativa, il calcolo è matematico. Saranno sotto la soglia di povertà. Peraltro stiamo parlando delle stesse generazioni di lavoratori che già oggi hanno redditi da lavoro più bassi rispetto ai lavoratori più anziani e prossimi alla pensione. Ma se oggi possono sperare in un futuro migliore, quando andranno in pensione potranno sperare solo nella lotteria”, continua Pizzuti.
Ad oggi sono invece circa 300mila i lavoratori che usufruiscono del sistema di calcolo retributivo fino al 2011. Si tratta di quei lavoratori che avevano 18 anni di contributi prima del 1996 e quindi hanno mantenuto il calcolo retributivo fino all’entrata in vigore della legge Fornero. Circa 93mila hanno almeno 65 anni e quindi sono molto vicini alla pensione.
Oggi di regola si va via con 67 anni d’età e almeno 20 anni di contribuzione. L’aggiornamento del parametro Istat sulla aspettativa di vita avviene ogni due anni e può variare da zero a tre mesi, ma non può decrescere, anche in caso di pandemia come avvenuto negli ultimi due anni. Fino al 2026 non sono interessati dall’adeguamento dell’aspettativa di vita le modalità di uscita anticipata, come quello con 42 anni e 10 mesi di contribuzione (un anno in meno per le donne), Ape e Opzione Donna.
Il problema per i giovani lavoratori di oggi tuttavia resta, alle prese con discontinuità, buchi contributivi, paghe più basse, insomma con il lavoro precario.
Come già scritto dall’HuffPost, secondo una simulazione dell’Ufficio Studi Io Investo, un giovane metalmeccanico che a inizio carriera riceve un reddito medio annuo di ventimila euro e a fine carriera di circa 45mila, andrà in pensione con un tasso di sostituzione del 64%. Tradotto: l’assegno sarà di 28800 euro lordi, netti 21.500, con una perdita di più di seimila euro l’anno nel passaggio da reddito da lavoro e reddito da pensione.
La simulazione tuttavia si basa sulla previsione di una continuità lavorativa che oggi per molti giovani un miraggio, e di un’uscita da lavoro a 67 anni e 11 mesi. Secondo un report della Cgil del 2019, i quarantenni di oggi, specie quelli con lavori saltuari, poco remunerati o part-time, rischiano di non andare in pensione prima dei 73 anni. Nel 2035, secondo il sindacato, per andare prima dei 70 anni, precisamente a 69, saranno necessari almeno 20 anni di contributi e una pensione di importo sopra gli attuali 687 euro.
Per andare a 66 anni, sempre nel 2035 e sempre parlando dei ‘contributivi’ puri, serviranno 20 anni di anzianità e una pensione non inferire ai 1.282 euro di oggi. Per la pensione anticipata invece occorreranno 44 o 45 anni di contribuzione (rispettivamente se donna o uomo).
Secondo l’analisi dell’esperto welfare Cgil Ezio Cigna, il caso emblematico è quello di una colf “tipo” di 34-35 anni, avviata al lavoro nel 2014. Andrà in pensione nel 2057, a 73 anni, dopo 43 anni di lavoro e con un assegno di appena 265,49 euro.
Il dibattito in corso tra partiti e Governo sembra muoversi come se il mondo del lavoro fosse totalmente slegato dalla previdenza. “Forse”, continua Pizzuti, ”è ora di smettere di legare l’uscita dal lavoro all’età dei lavoratori in un contesto che si avvia al contributivo puro. Con questo sistema è del tutto ininfluente a quanti anni si va in pensione, dal momento che l’assegno è parametrato sui contributi versati dal lavoratore. Chi va più tardi avrà un assegno più alto, chi va prima lo avrà più basso”. Insomma, il conto è a saldo zero.
“Il problema vero resta quello dei giovani precari. Una possibile soluzione è riconoscere ai disoccupati involontari una contribuzione figurativa commisurata a quella che ricevevano quando erano occupati”, continua il docente della Sapienza. “Le criticità del contributivo puro nascono dalla sua applicazione a salari relativamente bassi e pure periodicamente sospesi. Questa contribuzione per coprire i ‘buchi’ lavorativi sarebbe solo figurativa, quindi senza conseguenze sulla sostenibilità del bilancio, ma contribuirebbe a dare ai più giovani una maggiore sicurezza e fiducia nel futuro, e avrebbe effetti su una maggiore propensione al consumo e minore al risparmio. Dal punto di vista macroeconomico, se i redditi medi si abbassano cala anche la capacità dello Stato di pagare le pensioni future, dal momento che la capacità di spesa previdenziale deriva sempre dal reddito prodotto oggi”.
Il tema però non è presente nell’agenda politica del Governo, né in quella dei partiti completamente assorbiti da come riformare Quota 100: “Forse l’esecutivo attuale sarebbe il più adatto a fare una riforma complessiva della previdenza che risolva le criticità attuali e quelle che arriveranno con il passare degli anni. Le opinioni su Quota 100 sono nel bene e nel male esagerate. Il ricorso alla misura, inferiore alle aspettative di chi l’aveva introdotta, mostra come in un periodo in cui i redditi sono sempre più incerti, le persone siano poco inclini a farsi ritoccare al ribasso l’assegno pensionistico, anche a costo di lavorare qualche anno in più”, conclude Pizzuti.
(da Huffingtonpost)
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