CRIPTOVALUTE, CHI GUADAGNA E CHI PERDE
L’INCHIESTA DEL “CORRIERE DELLA SERA”
«Ho lavorato su un sistema di pagamento elettronico totalmente privo di intermediari, cheelimina la necessità di garanti». Con questa breve dichiarazione, il 31 ottobre 2008, Satoshi Nakamoto teneva a battesimo il Bitcoin, una moneta virtuale senza Paesi emittenti né banche centrali. Al loro posto una blockchain, un registro digitale pubblico delle transazioni, immodificabile e aggiornato dalla comunità degli utenti, che richiede molta potenza computazionale e altrettanta energia.
Milioni di imitazioni
Sono passati oltre 16 anni dalla nascita del Bitcoin e l’identità del suo creatore è ancora un mistero. Di lui, di lei o di loro si sa solo che possiedono da sempre un milione di Bitcoin che, ai corsi attuali, corrisponde a 84 miliardi di euro. Nel frattempo, l’invenzione di Satoshi si è allontanata dall’utopia originaria di una moneta anarchica ed è diventato una sorta di «oro digitale»: raro perché la quantità massima coniabile è fissata dall’algoritmo a 21 milioni; desiderato proprio perché scarso e nella convinzione che la sua corsa al rialzo sia destinata a proseguire. Per questo ha attratto alla sua corte grandi investitori come Blackrock e Intesa Sanpaolo; sappiamo però anche che ha un diffuso utilizzo nel mondo del riciclaggio di denaro sporco. Nel tempo hanno proliferato infinite imitazioni, perlopiù prive di alcun valore se non quello che viene riconosciuto dagli acquirenti per ragioni arbitrarie e volubili. Parliamo di un mercato da oltre 3300 miliardi di dollari, quattro volte la capitalizzazione totale di Borsa Italiana. Alcuni di questi beni digitali si basano su una propria blockchain originale, altri si appoggiano a quelle altrui per ridurre tempi e costi di sviluppo. Siti come coinfactory, per esempio, consentono di coniare un «gettone digitale» in pochi minuti e al costo di circa 80 euro. L’anno scorso sono così spuntati oltre due milioni di nuovi «token», con finalità non sempre chiare: il 40,7% di queste valute risulta quotato su cripto-borse ma è nei fatti dormiente, con zero scambi negli ultimi 30 giorni. Perché?
Pompa e scarica
Talvolta, si tratta di progetti nati per puro divertimento o per esigenze di ricerca: non bisogna dimenticare che le criptovalute e la tecnologia sottostante della blockchain stanno producendo anche innovazione. In altri casi le valute dormienti sono servite o serviranno a scopi fraudolenti, noti come wash trading e pump and dump. Con la prima un gruppo di persone o un esercito di bot si scambia più volte un bene digitale per aumentarne artificialmente il valore e poi venderlo a un ignaro acquirente. Con la seconda, «gonfia e scarica», i detentori di una criptovaluta o, più di frequente, i suoi creatori ne magnificano sui social le prospettive di crescita, ne fanno così salire le quotazioni e, infine, liquidano sul mercato i propri portafogli, realizzando enormi profitti a spese degli ultimi investitori che ci hanno creduto.
La manipolazione non è reato
La società di ricerca Chainalysis stima che schemi di pump and dump abbiano coinvolto circa il 3,6% delle monete digitali create nell’ultimo anno, quota che equivale a oltre 74 mila potenziali cripto-truffe. Un caso noto è quello del Dogecoin, una criptovaluta nata per scherzo nel 2013, ossia una memecoin e sostenuta da Elon Musk. Fra 2019 e 2021 il patron di Tesla ha pubblicato una sfilza di tweet per esaltare il Dogecoin: «Sarà la futura moneta del pianeta Terra», «L’ho comprata per mio figlio», «SpaceX porterà letteralmente il Dogecoin sulla Luna». Il prezzo è schizzato in un due anni del 36 mila per cento. Poi l’8 maggio del 2021 Musk, ospite del programma comico Saturday Night Live, ha detto che il Dogecoin è «una bufala». Tanto è bastato a scatenare un’ondata di vendite che in pochi mesi ha causato un crollo del 90% del valore della criptovaluta. Un gruppo di investitori gli ha scatenato contro una class action per manipolazione del mercato e richiesta di risarcimento per 258 miliardi di dollari. La causa è stata respinta dal tribunale civile di New York. Le dichiarazioni di Musk sulla criptovaluta erano «aspirazionali e roboanti», ha sottolineato il giudice; quindi, «nessun investitore ragionevole avrebbe potuto dar loro credito». D’altra parte, negli Stati Uniti non esiste alcuna regolamentazione specifica per Bitcoin & co; l’eventuale iniziativa repressiva è affidata a singole autorità come la Security Exchange Commission e il Dipartimento di Giustizia che negli ultimi anni hanno sanzionato influencer e società. Difficilmente si attiveranno con la nuova amministrazione, visto che l’industria cripto ha sostenuto con donazioni milionarie la campagna elettorale di Trump. Il neopresidente, che nel 2021 aveva bollato il Bitcoin come una truffa, ora ha cambiato idea.
Il banco vince sempre
Nel settembre 2024 Trump e i suoi famigliari hanno fondato World Liberty Financial, una piattaforma che mira a «democratizzare l’accesso alle opportunità finanziarie e a rafforzare lo status globale del dollaro». Come non è chiaro, ma intanto la società ha coniato il suo token Wlfi: in pochi mesi ne sono stati venduti 24 miliardi a un prezzo crescente fino a 5 centesimi l’uno, per un incasso di oltre mezzo miliardo. Poi, due giorni prima dell’ingresso alla Casa Bianca, il presidente ha lanciato la sua criptomoneta: $Trump. Partita da 18 centesimi, la memecoin è arrivata a valere 75 dollari, salvo poi precipitare a 15, causando 2,2 miliardi di perdite a 885 mila investitori. Non tutti, però, ci hanno rimesso. Un anonimo trader, per esempio, ha piazzato una scommessa da un milione di dollari su $Trump a distanza di soli due minuti dal suo annuncio. Due giorni dopo ha ceduto quasi sei milioni di token con un profitto di 109 milioni. Un tempismo quantomeno sospetto. A vincere, però, è sempre il banco. La Trump Organization detiene 800 milioni di $Trump e li rilascerà sul mercato nei prossimi tre anni, passando gradualmente all’incasso. Alla società spetta poi una commissione su ogni scambio di $Trump. Secondo i calcoli di Chainalysis, nei portafogli della Trump Organization sono già arrivati 349,6 milioni di dollari in poco più di un mese.
Le stablecoin
Il piano della nuova amministrazione Usa punta a rendere l’America il centro della finanza digitale globale, costituendo fra l’altro una riserva nazionale di Bitcoin. L’ordine esecutivo del 23 gennaio della Casa Bianca richiede «di proteggere e promuovere la sovranità del dollaro statunitense, anche attraverso azioni per favorire lo sviluppo e la crescita globale di stablecoin lecite e ancorate al dollaro». Le stablecoin sono valute digitali che promettono di mantenere un valore stabile perché ancorate ad una moneta sovrana. Le due principali stablecoin si chiamano Circle e Tether, hanno caratteristiche simili e si appoggiano entrambe al dollaro. Tether, creata nel 2013 dal torinese Giancarlo Devasini e guidata dal ligure Paolo Ardoino, è diventata presto la fiche preferita dai giocatori al «casinò» delle cripto per comprare e vendere Bitcoin & co senza passare dai canali bancari tradizionali. La ragione del suo successo sta nel fatto che la società assicura che per ogni Tether coniato esiste un equivalente deposito in dollari, sempre convertibile. Nel tempo, questa peculiarità ha trasformato Tether anche in una sorta di dollaro digitale per i mercati emergenti, dove i risparmiatori sono in cerca di monete stabili per proteggersi dall’iperinflazione. Oggi Tether sostiene di avere più di 400 milioni di utenti e di aver coniato oltre 140 miliardi di UsdT. Le riserve dovrebbero quindi ammontare a oltre 140 miliardi di dollari, anche se la società non ne ha mai sottoposto la consistenza a un esame completo e indipendente. È qui che i progetti delle stablecoin in dollari si saldano con i piani di Trump. Gran parte delle riserve di Tether e Circle è infatti investita in titoli di Stato americani, ufficialmente perché sono più facili da liquidare in caso di «corsa agli sportelli» da parte degli utenti. L’effetto indiretto è però che le stablecoin in dollari drenano soldi da altri Paesi e li riversano sul debito pubblico statunitense, di cui oggi Tether e Circle detengono quasi 150 miliardi. Quando un argentino, un libanese o un nigeriano compra un UsdT di Tether o un UsdC di Circle sta di fatto finanziando il bilancio americano e, in prospettiva, i tagli alle tasse promessi da Trump. Ecco perché la Casa Bianca ha tanto interesse a che si diffondano il più possibile.
Euro digitale: il no di Trump
Tether non è più acquistabile sulle cripto-borse Ue perché la normativa MiCAR impone alle stablecoin di mantenere almeno il 60% delle loro riserve presso banche europee. Ma, ha avvertito il governatore di Banca d’Italia, Fabio Panetta, non è da escludere che altre piattaforme tecnologiche con miliardi di utenti possano lanciare una propria criptovaluta, con conseguenze dirompenti per la stabilità finanziaria e per la sovranità monetaria. Facebook ci ha già provato nel 2019 con la moneta Libra, ma il progetto è stato bloccato dall’opposizione delle banche centrali. Cosa accadrebbe oggi se Meta, Amazon o X decidessero di lanciare una stablecoin? Motivo per cui la Bce sta accelerando sul completamento del progetto di un euro digitale. La banca centrale di Pechino invece ha coniato lo Yuan digitale già nel 2019, anche se fatica a decollare: il valore cumulato delle transazioni è ancora sotto ai mille miliardi. La Fed invece ha abbandonato l’idea del dollaro digitale. L’ordine esecutivo di Trump impone infatti l’adozione di misure «per proteggere gli americani dai rischi delle monete digitali delle banche centrali, che minacciano la stabilità del sistema finanziario, la privacy e la sovranità degli Stati Uniti». Se del caso, anche «vietando la loro emissione, circolazione e utilizzo» nel Paese. Un monito a tutte le banche centrali: se volete emettere monete digitali sappiate che negli Stati Uniti non avranno corso. Benvenute invece a cripto come Theter, società privata con sede nel paradiso fiscale di El Salvador.
Francesco Bertolino e Milena Gabanelli –
(da corriere.it)
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