GIGI IL SOCIALISTA E GLI ALTRI: PARTE LA SFIDA DEI MANIFESTI
MA QUELLI DEL “PROFESSIONISTA” BERLUSCONI ANCORA NON SI VEDONO
Che bei cieli lucidi e chimici, che fissità eterne: non aiutano ad annacquare la mozziafiato sensazione di dèjà -vu.
Primi piani, sguardi ambiziosissimi e non così rassicuranti come vorrebbero, nomi a caratteri cubitali, azzurrini berlusconiani ovunque.
Sono ancora pochi, questi manifesti, eppure si vedono, ci scorre sopra il gusto propagandistico di un ventennio.
Non basta il piglio iraniano di Antonio Ingroia, a prima vista il duplicato siciliano di Mahmud Ahmadinejad, a consegnare un palpito di originalità a tutta questa stravista faccenda.
Anzi, anche lui, che subito monta il sempre affascinante cavallo di battaglia delle mafie (rigorosamente al plurale), eredita dagli avversari la propensione al culto della personalità , che sia nel primo piano o nel nome; gli servirebbe poi un collaboratore più pratico della lingua: il significato della frase «180 miliardi: i soldi delle mafie, dei corrotti e degli evasori nelle tasche dei cittadini» si può forse intuire, ma con ampio margine di incertezza.
Non siamo però al livello sin qui inesplorato di Gigi, oscuro candidato socialista alla Regione, che ha ricoperto Roma di centinaia di poster rossi con impresso il simbolo del Psi e un motto decisamente autolesionista: «Pochi lo conoscono, molti sanno quello che ha fatto» (se il motto è invece riferito a Gigi, perde di qualsiasi senso).
Il punto vero, però, è che il fuoriclasse della pubblicità , Silvio Berlusconi, ancora non ha manifesti nè riferiti alla corsa per Palazzo Chigi nè a quella per il governo del Lazio (mentre proliferano quelli di un imperscrutabile movimento di Facebook).
Del resto neanche si sa chi sia il candidato alla Regione, mentre è già più strano che il sorriso grandangolo di Berlusconi non risplenda da ogni muro.
Risplende invece la sobria e campagnola pelata di Pierluigi Bersani, quella cera comune e quasi rasserenante.
Ci sono ritratti ovunque, di ogni dimensione, a migliaia, tutti perfettissimi, alla stazione Termini rivolgono lo sguardo a trecentosessanta gradi attraverso un gigantesco totem roteante.
Qui e là c’è spazio anche per il campione locale del Pd, Nicola Zingaretti («Immagina una Regione trasparente perchè non ha niente da nascondere»), che su inevitabile campo azzurrin-verdognolo abbraccia sorridente una vecchia zia.
Anche Bobo Maroni non sta perdendo tempo.
Il suo testone ammiccante prevale sul perpetuo celeste, il verde padano ridotto alla strisciolina della cravatta, e con Ingroia la condivisione della perpetua lotta alle mafie (e perpetuo plurale).
Al Pdl, che non sa dove andare a sbattere, tocca rimediare alla meglio con manifesti di iniziativa rionale, sublime quello del «Pinguino» Domenico Gramazio, in cui si avvertiva che venerdì 4 gennaio si sarebbero distribuiti i doni della Befana ai figli degli iscritti. Mica male anche il poster che pubblicizza un incontro di oggi con Berlusconi sul «centro del centrodestra».
Un applauso, poi, all’intraprendenza dei neonati Fratelli d’Italia, il movimento di Crosetto-La Russa-Meloni.
Nelle foto c’è lei. Il motto di Fratelli d’Italia è, va da sè, «l’Italia chiamò».
L’invito è a sfidare «il futuro senza paura».
Come ai tempi della lotta dura: ma questa è un’interpretazione troppo ardita e maligna per tempi così poco fantasiosi.
Mattia Feltri
(da “il Fatto Quotidiano“)
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