I RIFUGIATI DIVENTANO OPERAI: 40 ASSUNTI NEI CANTIERI NAVALI GRAZIE AI CORSI PROFESSIONALI
“IL MERCATO HA BISOGNO DI NOI”…LA FINCANTIERI CERCAVA PERSONALE MA GLI ITALIANI NON VOLEVANO FARE IL LAVORO DI CARPENTIERE
In Costa d’Avorio Yacouba, 24 anni, faceva l’imbianchino. Il 21enne Alin, senegalese, parla tre lingue: francese, arabo e ora italiano.
Il suo connazionale Souleymane non è mai riuscito a finire gli studi universitari. Dall’Africa sono scappati in Italia, sbarcando tra il 2013 e il 2014. Nell’attesa di vedersi riconosciuta la protezione umanitaria, i tre hanno frequentato corsi professionali.
Oggi, lavorano tutti: sono aiuto-carpentieri nei cantieri navali di Marghera. E non sono gli unici.
«Una quarantina di migranti hanno un contratto grazie a questo progetto». Nicola Montanaro, 67 anni, è persona pratica: ex direttore personale di Finmeccanica, quando è andato in pensione ha deciso di mettere a disposizione le sue competenze.
«Tutto parte da un protocollo d’intesa firmato un anno fa», racconta.
Intorno al tavolo si trovano in cinque (Comune di Settimo Torinese, associazione Cnos-Fap Regione Piemonte, Croce rossa italiana, Fondazione Comunità Solidale Onlus e Quanta Spa).
L’idea, condivisa da tutti, era una: «Creare opportunità per l’inserimento di personale qualificato nella cantieristica meccanica, nella lavorazione del legno e in quello agroalimentare».
I corsi-pilota partono al centro di accoglienza di Settimo, altri alla comunità salesiana di San Benigno Canavese, sempre nel Torinese. «I ragazzi, dopo aver frequentato tutte le lezioni e superato le prove, hanno ricevuto i patentini con la qualifica di saldatori».
Il passaggio dalla sfera dell’accoglienza a quella del lavoro è gestito da Quanta Spa, una multinazionale attiva nella selezione del personale che cerca di rispondere alle necessità delle imprese: «La Fincantieri – spiega Montanaro – cercava personale, ma gli italiani non volevano fare quei lavori. Così abbiamo offerto loro i nostri ragazzi già formati».
Il progetto fa leva sulle peculiarità già individuate dai dati Inps pubblicati ieri su La Stampa : gli immigrati accettano professioni umili, sono flessibili e non rubano il posto a nessuno.
Occupano, va detto, il gradino più basso nella scala della distribuzione dei salari, «e da lì è difficile che si muovano per tutta la vita», spiega Alessandra Venturini, esperta di migrazioni.
Lei, che è anche vicedirettrice del Migration Policy Centre, sta lavorando con diverse associazioni del privato sociale e con le confederazioni aziendali nazionali, per riorganizzare la macchina dell’accoglienza e farla ragionare secondo le regole e la cultura dell’impresa.
«Il modello italiano dell’integrazione dei rifugiati non funziona – spiega -, perchè non si basa sulla reale domanda di lavoro da parte dalle aziende. Le associazioni del volontariato si prendono cura di un numero enorme di persone, ma non riescono a traghettarle nel mondo del lavoro».
Perchè? «Nonostante gli sforzi – spiega la docente – c’è una gestione troppo casuale e non organizzata dei contatti con il mercato. L’offerta di lavoro per i rifugiati deve partire dalla domanda delle aziende, non viceversa». Modello Germania.
Ma resta un problema burocratico che coinvolge, in particolare, i richiedenti asilo.
«Per legge – spiega la professoressa – prima di avere lo status di rifugiato non possono ottenere un contratto: vengono tenuti in un limbo troppo a lungo».
Eppure, il lavoro è l’unica porta per inserirsi nel nuovo Paese. Come è successo a Yacouba e agli altri: storie di un’integrazione possibile.
Davide Lessi, Letizia Tortello
(da “La Stampa”)
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