IL COMBATTENTE ITALIANO DELLA BRIGATA ANTI-ISIS RACCONTA LA SUA STORIA
KARIM FRANCESCHI E’ L’UNICO ITALIANO CHE HA PARTECIPATO ALLA LIBERAZIONE DI KOBANE… NON E’ UNO DI QUELLI CHE COMBATTE L’ISIS TWITTANDO STRONZATE DAL SALOTTO DI CASA
Karim Franceschi, nato nel 1989 a Senigallia da padre italiano e madre marocchina, nel gennaio 2015 decide di raggiungere Kobane e unirsi alle milizie curde che contrastano l’avanzata dell’Is in Siria.
Nel libro di Karim Franceschi che esce oggi, “Il combattente”, il giovane militante ripercorre la sua storia.
La storia di Karim Franceschi è una storia che sembra arrivare da lontanissimo.
Un giovane che vede un popolo violato da una forza feroce e oscurantista e non vuole essere solo un osservatore.
Non ha alcuna qualifica militare, ma parte lo stesso. Vuole combattere.
Non sa sparare, non conosce il curdo, l’inglese gli è inutile. Non ha idea di cosa farà : ma vuole andare. Essere giovani e trovare disgustosa l’immobilità , codardo il continuare a vivere comodamente la propria vita mentre non molto lontano avvengono scempi e barbarie: l’odore di questa storia è identico a quello che assapori in decine di libri di giovani volontari che si scelgono una causa e vanno a combattere.
“Avevo un po’ di spirito di avventura, questo credo sia naturale – dice Karim – ma non ho fatto per quello la scelta di andare a combattere. La vera motivazione era partecipare alla resistenza di Kobane che stava per crollare: l’ho visto con i miei occhi”.
Gli parlo via Skype mentre è in Iraq.
È calmo, ha molto più controllo di quello che ti immagini possa avere un ragazzo di 26 anni sbattuto da mesi su un fronte di guerra.
Karim si è fatto l’addestramento assieme a gruppi di ragazzine di sedici anni. È diventato un cecchino, un soldato dell’Ypg, la milizia curda di Kobane. Nome di battaglia: Marcello.
Mi fa sorridere, ha un candore da ragazzino ma una determinazione molto matura.
Non sta giocando alla guerra, è un soldato consapevole di ogni singolo passaggio di questa sua nuova vita: “Potevo combattere con l’Fsa (Free Syrian Army) ma ho scelto l’Ypg, le Unità di protezione del popolo. Perchè ha i valori della Costituzione italiana, ha ideali di giustizia in cui mi riconosco, combatto con i compagni che difendono la democrazia, il secolarismo, il femminismo. Con l’Is alle porte si sono organizzati non solo per difendersi ma anche per costruire una società diversa”.
ESTRATTO DEL LIBRO
“Marcello…”.
Mi sveglio con una scossa. E automaticamente guardo l’orologio, come faccio sempre quando un compagno mi avverte che è venuto il momento del mio turno. Le tre e cinque minuti. Ne mancano venticinque al cambio, e già questo mi irrita. Mi giro di scatto verso Hawer con l’intenzione di protestare per la sveglia anticipata, ma il suo volto pallido come uno straccio mi blocca. Col dito davanti al naso mi fa segno di non fiatare
“Daesh…” sussurra con un filo di voce.
Afferro il Kalashnikov e mi metto a guardare con lui dalla finestrella della trincea. Ha smesso di nevicare, e una luna non ancora piena fa capolino tra le nuvole basse e grigiastre, rischiarando il paesaggio imbiancato. Non vedo niente. Però, nel silenzio ovattato della valle, sentiamo distintamente un rumore provenire da dietro il dosso innevato. Forse il motore di un veicolo, o comunque qualcosa di meccanico. Nell’altra trincea, nessuno si muove.
Allungo un braccio e raccolgo un sassolino. Lo tiro verso la buca di Ali e Delsoz, mancando però il bersaglio. Provo ancora, e stavolta li colpisco. Così anche loro si accorgono che qualcosa non va. Ali solleva il telo e striscia in avanti, senza fucile, fino a un punto da cui riesce a vedere cosa c’è dietro il dosso. Steso sulla neve, si ferma un secondo a osservare, poi indietreggia al doppio della velocità , strisciando come un serpente e spostando con le mani la neve in modo da coprire la traccia lasciata dal suo corpo.
Cosa cazzo sta succedendo? Hawer mi fissa, ammutolito. Ali non ci ha fatto alcun cenno, prima di rintanarsi nella sua buca. Basta, ho bisogno di sapere. Da qui al punto dov’è arrivato Ali saranno trenta metri, una sessantina di passi al massimo. Alzo il telo e sguscio fuori, camminando basso ma senza strisciare, perchè non mi voglio bagnare più di quanto non lo sia già . Nascosto dietro un masso, osservo. A non più di centocinquanta metri dalle nostre piccole trincee, scorgo una ventina di miliziani di Daesh, un carrarmato T-72 e un Hummer, con i fanali accesi e un enorme mitragliatore montato sopra. Ne ho già visto uno uguale, una volta: Giano allora mi spiegò che spara proiettili in grado di sbriciolare le pietre e trapassare i sacchi di sabbia. Il comitato di accoglienza del califfo al-Baghdadi sta venendo verso di noi, eppure io resto calmo, irragionevolmente calmo. Torno indietro con lentezza, prendendomi il tempo per coprire le impronte lasciate dai miei scarponi sulla neve fresca. Entro nella buca con un mezzo sorriso stampato in faccia, guardo negli occhi il mio compagno. Glielo dico in curdo che sta per morire, così che non ci siano fraintendimenti.
Em sahiden, heval Hawer..
Nella sua lingua, em sahiden significa “siamo martiri”. Se quelli si accorgono della nostra presenza non abbiamo scampo. Non è nemmeno il numero dei miliziani, venti o giù di lì, a rendere assurda qualsiasi ipotesi di scontro a fuoco. È il tank a chiudere la questione. Per non parlare poi di quel mitragliatore montato sull’Hummer: basterebbe da solo a farci fuori tutti. Mentre cerco di spiegare a gesti cosa c’è dall’altra parte del dosso, vengo colto da un attacco di ridarella isterica. Eh, cazzo, ho scelto proprio la notte sbagliata per lasciare il Pkm all’accampamento. Hawer mi fissa con un’espressione tra il terrorizzato e il rassegnato, fatica anche a deglutire la saliva. La fuga non è nemmeno immaginabile, perchè per scappare dovremmo correre per un bel pezzo in campo aperto, davanti a loro; a quel punto basterebbe una sventagliata di mitragliatore per ammazzarci tutti e quattro. Dunque facciamo l’unica cosa che resta da fare: il tentativo della disperazione. Raccogliamo quanta più neve possibile e la spargiamo sopra il telo e nella buca, per mimetizzarla al meglio. Usiamo anche qualche sasso, così da confonderla ancora di più con il resto del paesaggio. Poi ci infiliamo dentro, senza lasciare nessuno spiraglio. Siamo completamente al buio, sotterrati tra mucchi umidi di neve e pietre. Sono steso supino accanto al mio Kalashnikov e al compagno Hawer. Entrambi sappiamo bene cosa dobbiamo fare, non c’è bisogno di dircelo. Con la mano sinistra sfilo dal gilet tattico una granata e me la appoggio sul petto, stringendola con forza. Faccio passare il dito medio della mano destra nell’anello metallico che ferma l’innesco della bomba, e lì mi blocco. L’ultima immagine che vedrà chi alzerà questo telo sarà Karim Franceschi che gli mostra il medio, un attimo prima di esplodere.
Si stanno avvicinando, lo sento. Il rumore dei cingoli del carrarmato si è fatto più forte, e mi pare persino di avvertirne la vibrazione nel terreno. In fondo lo sapevo che sarebbe andata a finire così, in quest’impresa disperata. Lo sapevo. Il cuore martella dentro al petto; delle vampate mi partono dalle spalle e dal collo in tensione, ma non riescono a scaldarmi veramente, e la sensazione è più quella di essere intrappolato in una cella frigorifera. Ho paura, come non ne ho mai avuta in vita mia. Ho sempre immaginato la mia morte attraverso gli occhi di quelli che amo di più e anche adesso, con la mente, torno nella casa di Senigallia. Immagino il volto affranto di mia madre, che piange disperata. Il suo dolore è come una lama che si pianta lentamente nel mio cuore. Il pensiero corre a Leila, mentre sento la fine avvicinarsi. Alle sue labbra piene, ai suoi occhi di giada, alla promessa di ritornare in Italia che non manterrò. Passano i secondi, non riesco a staccarmi dal ricordo della donna che amo. Non voglio morire prima di averla rivista un’ultima volta…
Eccoli, sono vicinissimi. A trenta o quaranta metri da noi, non di più. Il rumore del motore diesel del tank sovrasta le voci dei miliziani. Trattengo il respiro e percepisco che anche Hawer sta facendo lo stesso. Il collo e la mascella sono contratti da far male. Fuori la colonna si è fermata, il carrarmato non avanza più. È finita. Ne sono sicuro: qualcuno ci ha scoperti e, per come si sono messe le cose, mi pare anche l’unico destino possibile. È inevitabile, è ormai solo una questione di secondi. Tirerò l’anello, sì. Non mi farò prendere prigioniero da questi invasati, per finire tagliato a pezzi e trasformato in un mucchio di arti con la mia testa in cima, come è capitato agli sfortunati compagni che ho visto a Kobane.
Se è scritto che stanotte devo morire, morirò da partigiano, come avrebbe fatto mio padre Primo: con orgoglio, portandomi qualcuno dei nemici con me. Con il pollice della mano sinistra sfioro la tasca della giacca, a tastare il mio talismano. Stringo la bomba ancor più forte, e faccio una leggera pressione sull’anello; la spoletta si sposta di qualche millimetro. Strizzo gli occhi, in preda all’angoscia. Ho perso la cognizione del tempo. Papà , mamma… datemi il coraggio di farlo. Vi voglio bene.
Due ruggiti consecutivi del motore del T-72, seguiti dallo stridio di ingranaggi meccanici che riprendono a girare, mi fanno spalancare gli occhi. Il cingolato si muove, spero seguito dall’Hummer e dal gruppo dei miliziani. Resto immobile, concentrando tutta la mia capacità di percezione nelle orecchie. Non ci penso proprio a dare una sbirciatina fuori dal telo, non ho nessuna intenzione di provocare la fortuna. Sì, se ne stanno andando! Però si stanno spostando in direzione del nostro accampamento e, se Ali non è riuscito a dare l’allarme via radio, Zardesh e gli altri del tabur rischiano grosso.
Un secondo dopo l’altro sento la speranza rinascermi dentro, anche se non siamo ancora fuori pericolo: mi pare che la colonna si sia fermata di nuovo. Un caccia militare passa sopra di noi. Potrebbe essere un raid notturno, visto che i piloti degli aerei possono sfruttare sensori termici con i quali colpire anche nell’oscurità , quando dal comando hanno l’ok a volare e le condizioni meteo non sono del tutto proibitive. Passano i minuti, il rombo del jet va e viene, ora sembra vicinissimo ora lontano chilometri, ma non si sentono nè esplosioni nè sparatorie. Controllo l’orologio: le quattro in punto. Non è passata neanche un’ora, eppure mi sembra una settimana fa. Dobbiamo decidere cosa fare. I jihadisti sono ancora nelle vicinanze, sicuro, e se usciamo ora rischiamo di essere scoperti. Magari sono appostati proprio qui di fronte, in una trincea tipo la nostra, pronti a falciarci con i loro Ak-47 appena mettiamo il naso fuori. Non ci resta che aspettare ancora.
Roberto Saviano
(da “La Repubblica“)
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