IL DESIDERIO DI RIVALSA DI UN MEDIOCRE, PUTIN È STATO UN AGENTE INSIGNIFICANTE DEL KGB: CONTAVA POCO, MA CREDEVA ALLA CAUSA
LA MONUMENTALE BIOGRAFIA DI PHILIP SHORT: LA RUSSIA È UN GIGANTE DAI PIEDI D’ARGILLA, LA SUA ECONOMIA È DA PAESE SOTTOSVILUPPATO, EPPURE RIESCE A TENERE SOTTO SCACCO TUTTO IL MONDO
«Un teppista, un prepotente, un assassino». Il senatore John McCain, candidato repubblicano sconfitto da Obama alle presidenziali, diceva questo di Vladimir Putin. Un pazzo, un folle, un dittatore, un uomo malato che ha fretta di lasciare un segno nella storia prima che arrivi la fine: diciamo spesso questo di Putin nei media occidentali, per spiegare quel rebus avvolto in un mistero dentro un enigma che è l’ultimo inquilino del Cremlino.
Un leader che vent’ anni fa sembrava pragmatico e filo-occidentale, e che ha invece finito per trascinare il suo Paese in una guerra con l’Occidente che non vincerà, ma a un prezzo altissimo di vite umane e di benessere materiale .
La monumentale biografia scritta da Philip Short, l’ex corrispondente della Bbc che aveva già raccontato Mao e Pol Pot, ha invece l’indiscutibile pregio di rifiutare in partenza questi stereotipi.
La «teoria del pazzo», elaborata da Richard Nixon, può perfino trasformarsi in una trappola, se la si usa per «sembrare talmente irrazionali e imprevedibili che l’avversario è costretto a esitare prima di mettere alla prova la tua determinazione» .
Nelle sue mille informatissime pagine (il volume è edito da Marsilio), secondo la migliore tradizione della biografia anglosassone (quasi 250 sono di note), l’autore si concentra piuttosto su due chiavi interpretative cruciali per capire davvero un leader politico: la prima è la personalità, la sua storia per così dire intima, da dove viene, di chi è figlio, che faceva da ragazzo, e così via.
La seconda è il nesso indissolubile tra lui (o lei) e il Paese che guida, l’intreccio di storia, cultura e interessi che sempre muove un popolo, soprattutto quando è un grande popolo come quello russo, educato a sentirsi eccezionale almeno quanto quello americano.
Nel condurre questa operazione-verità, Short apre degli squarci di estrema utilità per comprendere il piglio imperiale dell’uomo. Ha ragione quando ci invita a tener presente che «i leader nazionali rispecchiano inevitabilmente la società da cui provengono».
Ma ha torto quando aggiunge: «Putin non è un’aberrazione in Russia più di quanto non lo sia Donald Trump in America, Boris Johnson nel Regno Unito o Emmanuel Macron in Francia».
Questo difetto di equipollenza morale tra un’autocrazia in cui la leadership è a vita, gli oppositori vengono avvelenati, e a nove milioni di persone è stato vietato di candidarsi; e le democrazie in cui un presidente può essere indagato per l’uso che ha fatto del potere o un premier può essere spedito nel Pacifico da un voto dei suoi parlamentari, è il punto più criticabile, e più criticato, del libro.
Accettiamo però il «beneficio del dubbio» che l’autore concede a Putin. A partire dall’accurata contestazione della leggenda cospirativa secondo cui gli attentati attribuiti ai ceceni che sconvolsero la Russia nel 1999, e che giustificarono la più disumana delle repressioni militari, erano stati in realtà «fatti in casa» dai servizi di Mosca, per facilitare l’ascesa del nuovo uomo forte.
Nessuna prova è mai emersa a giustificare questa teoria, che pure ha ancora ampia circolazione; mentre molte ne sono le palesi contraddizioni, e Short le elenca con efficacia.
Ciò nonostante la ferocia usata a Grozny, il massacro elevato a sanzione morale, quel «li annienteremo al cesso» con cui Putin inaugurò la sua storia al potere, restano il tratto distintivo di una leadership: quando pronunciò quella frase, a settembre, era accreditato nei sondaggi per le presidenziali di un misero 2% dei voti. A dicembre era arrivato al 40%.
In questa attitudine all’uso della forza gioca certamente un ruolo la storia del potere in Russia. Ma anche il carattere dell’uomo forgiatosi negli anni precedenti.
Ed è forse qui la parte migliore del libro, e anche la più ricca di fonti (da quando entra al Cremlino, il mistero che avvolge Putin si fa più fitto perfino per un biografo del valore di Short) .
Figlio di un patriota comunista, che aveva combattuto da partigiano contro i tedeschi durante il terribile assedio di Leningrado, Volodja era stato un bambino turbolento, addirittura scartato per cattiva condotta alle elementari dagli «oktjabrjata», l’organizzazione dei «figli dell’Ottobre» fondata dalla moglie di Lenin, versione rossa dei boy scout di Baden-Powell. Da adolescente «si azzuffava con chiunque, non aveva paura di nulla.
Era come se fosse privo di qualsiasi istinto di autoconservazione. Non gli passava nemmeno per la testa che il suo rivale potesse essere più forte e dargliele di santa ragione», ha raccontato il miglior amico del tempo, Viktor Borisenko. Ma questa aggressività, che forse compendiava la statura bassa e il corpo «magro e non atletico», si accompagnava al buonsenso: «Era in grado di riflettere su ciò che faceva e di controllarsi».
I ragazzi di strada come lui, si dice ancora oggi, possono essere salvati solo dallo sport. E infatti Volodja, crescendo, si dedicò appassionatamente prima al «sambo», una tecnica di difesa personale senza armi, e poi al judo, disciplina nella quale eccelse a livello regionale.
Lui stesso ha poi raccontato: «Per conservare l’autorità che avevo, mi servivano tecnica e forza fisica. Sapevo che se non avessi cominciato a fare sport, non avrei più avuto la posizione cui ero abituato, né nel cortile né a scuola». In palestra imparò che se vuoi vincere devi mostrare al tuo avversario che sei disposto ad arrivare fino in fondo.
E nel Kgb, dove fu assunto nel 1975 dopo la laurea all’università di Leningrado, apprese un’altra lezione: non portare mai con te un’arma se non sei pronto ad usarla .
Il Kgb era stato per lui un sogno fin da ragazzo: «Serie televisive quali Lo scudo e la spada e Diciassette momenti di primavera raccontavano le imprese degli agenti sovietici nella Germania nazista durante la guerra»: eroi senza macchia, tipi alla James Bond. Putin volle fortissimamente imitarli.
Si iscrisse a Giurisprudenza perché gli dissero che era la via migliore per arrivare ai servizi segreti. Anche se poi la sua non fu una carriera da 007. È molto probabile, anche se ha sempre tentato di nasconderlo, che tra il ’76 e il ’79 abbia lavorato allo spionaggio e alla repressione dei dissidenti nel famigerato «Quinto direttorato». E anche quando finalmente ottenne una sede all’estero (ma a Dresda, non a Berlino come sperava), nei giorni fatali dell’89 finì per assistere con umiliazione al tracollo della Germania Est, nell’impotenza della superpotenza russa.
Un trauma che gli è rimasto sempre ben impresso nella mente . Altrettanto traumatici, e formativi della sua weltanschauung , furono i mesi caotici e terribili della caduta di Gorbaciov, del colpo di stato militare, della fine dell’Unione Sovietica, la patria in cui era tornato dopo la caduta del Muro.
A Leningrado, dove fungeva da vice del sindaco liberale Sobcak (secondo alcuni gli fu messo alle costole dal Kgb, secondo lui se n’era invece già dimesso) partecipò alla disperata richiesta di aiuti alimentari che una città stremata rivolse ai Paesi europei (senza ricevere molto, a dire il vero).
Fu persino accusato di aver avuto parte in uno scandalo, quando il programma «petrolio per cibo», vendita di materie prime russe in cambio di derrate occidentali, portò grandi arricchimenti ai mediatori, embrioni dei futuri oligarchi, ma poco pane alla città, ritornata nel frattempo all’antico nome di San Pietroburgo.
Un sentimento di rivalsa contro un Occidente accusato di aver tradito la Russia dopo averla illusa è forse ciò che più accomuna Putin al suo popolo, e che ne spiega la presa ancora forte. «I russi si sono sentiti presi in giro», scrive Short. Per lui, «lungi dall’essere bizzarra, la decisione di invadere l’Ucraina è in realtà perfettamente coerente con il modo in cui Putin si è sempre comportato, ogni volta che si è trovato di fronte a una scelta esistenziale tra inimicarsi l’Occidente e difendere il proprio potere e quello della Russia nel mondo».
Come da ragazzo, quando si lanciava nelle zuffe convinto di poterle vincere perché mostrava di volerle vincere. Ciò non giustifica il calcolo sbagliato che gli ha fatto credere di poter piegare l’Ucraina in pochi giorni. Né la violenza rabbiosa che le ha abbattuto addosso quando ha capito che non ce l’avrebbe fatta.
E nemmeno la vendetta che sta tentando ora di prendersi sugli europei tenendoli al freddo quest’ inverno. Ma in parte spiega perché il suo popolo non l’abbia (ancora?) abbandonato. «I russi – conclude l’autore – non soltanto sembrano europei, sono europei, e ci aspettiamo che si comportino come il resto della famiglia. Ma loro inspiegabilmente, ostinatamente, si rifiutano di farlo. E questa situazione non cambierà tanto in fretta». Forse neanche quando Putin non ci sarà più .
(da il Corriere della Sera)
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