IL DISTRETTO DEL TESSILE: “AL LAVORO 12 ORE AL GIORNO, 7 GIORNI SU 7, COSI’ CREIAMO IL MADE IN ITALY”
IL COMPARTO E’ RINATO CON CAPITALI STRANIERI, BASSI SALARI E ZERO DIRITTI, LE AZIENDE SANZIONATE PAGANO E NON NON VENGONO MAI CHIUSE
Il primo gruppo di ragazzi pakistani si incrocia intorno alle 11 del mattino. Arrivano in bici, solo pochi parlano qualche parola di italiano. Siamo circondati da capannoni, tintorie, stamperie, pronto moda: quattro aziende diverse solo in questo viottolo, centinaia lungo la strada principale. “Io non ho paura, metti il mio nome”, chiarisce subito uno di loro, Rachid: “Scrivi tutto, la gente che lavora negli uffici con l’aria condizionata deve sapere quello che succede qui”. Tra poco inizia il loro turno, lavorano in tintoria. Spostare masse di tessuti bianchi, anche da decine di chili, dividerli, caricarli, centrifugarli, scaricarli bagnati, ricaricare, per 12 ore. Per sette giorni a settimana. Poche pause, pranzi in piedi. Fino a qualche settimana fa, spiegano, non avevano alcun contratto, poi è arrivato un controllo delle forze dell’ordine, e adesso ne hanno uno da 8 ore al giorno. L’azienda non ha mai chiuso, anzi, ieri ha chiesto a tutti loro di mandare una lettera in cui spiegano che, per motivi familiari, hanno esigenza di lavorare solo 4 ore al giorno: da contratto, perché l’orario reale resta sempre 12.
Siamo a Prato, in quello che è ormai il distretto tessile più grande d’Europa. Un gioiello produttivo del Made in Italy che, dopo la crisi del 2008, è riuscito non solo a salvarsi dalle chiusure ma a diventare competitivo a livello globale. Gli investimenti arrivano a pioggia, le aziende aprono una dopo l’altra, capannoni sfavillanti inaugurati continuamente: quasi 250 nel solo 2021, nel terzo “macro lotto” inaugurato, dopo quello storico vicino al centro e il secondo in periferia.
La storia è nota, il distretto si è salvato grazie a capitali cinesi, le vecchie aziende pratesi comprate, la manodopera presa a basso costo dall’Oriente: con la garanzia del brand “Made in Italy” su tutti i prodotti, un enorme valore aggiunto. Era un distretto fondato su lana e tessuti, ma ormai è diventato molto altro, si estende su diversi comuni, fornisce tutto il continente con un sistema produttivo “just in time” (non delocalizzabile), ordini piccoli e veloci, basati su come stanno andando le vendite: taglie, colori, marche. Soprattutto nel settore “pronto moda”, abbigliamento di medio o basso costo, ma anche borse e altri accessori. Non c’è brand che non si approvvigioni qui, di norma passando per un fornitore italiano, il quale a sua volta si appoggia ad un’azienda del distretto, a conduzione in larga parte cinese. E la condizione raccontata da Rachid non è l’eccezione, è la regola. “Fino a qualche anno fa”, spiega, “la norma era essere pagati 8-900 euro, ora quasi nessuno offre meno di 1.300, ma l’orario di lavoro è rimasto lo stesso, 84 ore a settimana” con poche eccezioni: con un rapido calcolo, sono 3,8 euro orari, senza nessun riposo. La manodopera cinese non basta più, e le aziende assumono chiunque accetti quelle condizioni: soprattutto pakistani e bengalesi. Spesso giovani, alla prima esperienza di lavoro in Italia, senza conoscenza della lingua né delle norme.
Le sanzioni, nei pochi casi in cui avvengano controlli, sono continue. Poche settimane fa la sospensione dell’attività per 11 aziende, per svariati illeciti (la “norma” per queste aziende è mettere a contratto 3 o 4 ore al giorno, e farne lavorare 12) tra cui la presenza di lavoratori senza permesso di soggiorno e telecamere di sorveglianza. Ma Luca Toscano, del sindacato Si Cobas che da tempo segue i lavoratori del distretto, spiega che “sono notizie molto enfatizzate dalla stampa, in realtà le aziende non chiudono mai, pagano la sanzione in giornata, subito, e riprendono l’attività” anche quando si tratta di cifre importanti, oltre 100 mila euro “il profitto garantito è molto più grande delle sanzioni che rischiano, e lo sanno”. Eppure, nota, nelle aziende in cui si è riusciti a imporre un rispetto delle condizioni di legalità contrattuale, la produzione ha continuato a funzionare.
La situazione infatti non è immobile, l’apertura a lavoratori non cinesi sta portando, soprattutto nelle aziende più grandi, a una lenta ondata di rivendicazioni. Fuori da una pelletteria dove vengono prodotte borse per alcuni brand di lusso, al termine del loro turno, ci sono Iqbal e Rahman. Lì c’è chi taglia la pelle, chi la cuce, chi decora il prodotto finale, spiegano. Dopo una serie di scioperi, da qualche mese hanno iniziato a lavorare 8 ore al giorno “e quando c’è una festa in Italia, adesso non andiamo a lavorare”, anche le ferie vengono rispettate. Ma dentro il capannone ci sono decine di loro colleghi ancora al lavoro: non hanno scioperato, accettando solo 200 euro in più al mese, e quindi continuano con le 12 ore. Non è infatti facile per questi operai richiedere diritti, e non solo per la paura di perdere il permesso di soggiorno o di subire ritorsioni sul posto di lavoro: la violenza può raggiungere rapidamente picchi inquietanti. Ali si occupa di consegnare pacchetti e confezioni di vestiti in tutta la provincia, e qualche settimana fa insieme ad alcuni colleghi ha deciso di farla finita con i turni da 12 ore 7 giorni su 7, pensando di iscriversi a un sindacato. In tutta ricompensa, hanno trovato sotto le loro case alcuni individui mascherati dotati di mazze ad aggredirli al ritorno dal lavoro. Ali ha avuto la fortuna di riuscire a respingerli grazie all’aiuto dei vicini di casa, altri colleghi hanno avuto la peggio passando diversi giorni in ospedale. Ha paura, e ha la sensazione di essere abbandonato: “Ho denunciato tutto, alla polizia, all’Inail, perché non ci stanno aiutando? Io ho sempre rispettato le regole, stiamo lavorando qui, non capisco”. La debolezza dello Stato ricorre spesso nei racconti di questi lavoratori: tutti sanno come si lavora qui, ma i controlli sono troppo pochi, spiegano, e poco efficaci. Le aziende li conoscono in anticipo, e chiedono ai lavoratori di rimanere a casa nei giorni preposti, o dettano le risposte da dare in italiano.
La politica locale e nazionale si è spesa molto per la rinascita del distretto. Mettere in discussione questo sistema produttivo potrebbe costare molto all’intero sistema della moda Made in Italy, nonché a tutti i settori dell’indotto collegati. “C’è un sacco di nero a Prato, perché non vengono a controllare qui?”, si chiedono questi operai. Il risultato è che nessuna istituzione sembra poter dare loro delle risposte.
(da agenzie)
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