IL SINDACO MODELLO DI RIACE E’ UN SIMBOLO CHE LA FOGNA RAZZISTA NON PUO’ SOPPORTARE
UN ESEMPIO DI INTEGRAZIONE IN TUTTO IL MONDO CHE NON PIACE AI CRIMINALI
Immaginiamo Mohamed, appena arrivato dal Senegal, che entra in una bottega del nostro Sud più povero e scalcinato e, per pagare un ipotetico mezzo chilo di frutta o il classico filone di pane quotidiano, estrae dalla tasca un bonus da 20 euro con stampigliato il volto di Che Guevara: chi potrà mai essere per lui, musulmano costretto a fuggire dal proprio Paese nel tentativo di rifarsi una vita in Europa, quello strano ceffo col sigaro, il basco, la barba e lo sguardo torvo?
Forse non se lo chiede nemmeno. Avrebbe anche potuto estrarre un giovane Gramsci, dello stesso taglio, con una scritta dall’ortografia incerta ma ugualmente evocativa: “Organizzatevi, agitatevi, studiate”.
Poco distante sua moglie, coi bambini attorno, magari sta saldando un altro conto porgendo il foglio intestato a Sacco e Vanzetti, oppure quello dedicato al Mahatma Gandhi, Martin Luther King, Enrico Berlinguer.
O, perchè no, a Peppino Impastato e Gianluca Congiusta, vittime di mafia, in un tourbillon di spiriti inquieti che continuano a chiederci un’impossibile udienza, la medesima che non ottennero in vita.
In quale altro luogo poteva nascere tutto questo, se non nella Calabria atavica dell’indimenticabile Tommaso Campanella, il grande scrittore cinquecentesco, autore della Città del Sole, utopia di un popolo comunista che si divide i beni, le donne e i figli, lirica eresia del cristianesimo più ribelle e libertario?
La stessa terra che, fra Stilo e Stignano, diverso tempo fa, quando ci venni proprio seguendo le tracce del poeta e filosofo perseguitato dalla Chiesa che pure scelse, mi aveva mozzato il fiato con il suo mare azzurro, il suo cielo blu, le sue ringhiere arrugginite, le sue terrazze abbandonate, i suoi fichi dindia caduti sull’asfalto granuloso, ora torna a stregarmi, come se, ancora una volta, l’eterna questione meridionale, dolorosamente irrisolta, ci inchiodasse, spalle al muro, alle nostre responsabilità disattese. Sono sempre lì, lo sappiamo, sebbene buffamente travestiti, i “mali estremi” per combattere i quali il poeta diceva d’essere nato: “Tirannide, sofismi, ipocrisia.”
Devo confessarlo: sono andato a Riace, fra collinette, ulivi e dirupi, con qualche patema d’animo perchè di questo paesino abbarbicato sul monte aspro prospiciente il mar Jonio, là dove Domenico Lucano, sindaco dal 2004, si è inventato un modello d’accoglienza strepitoso, hanno già parlato in molti, al punto che Wim Wenders sette anni fa ci girò un documentario intitolato Il volo; a giorni uscirà in libreria un volume, Mimì Capatosta (Fandango) in cui Tiziana Barillà ha raccolto una nutrita documentazione al riguardo; la rivista Fortune ha inserito il primo cittadino riacese in una speciale classifica tra le persone più influenti nel mondo; a febbraio verrà trasmessa una fiction per la Rai con Beppe Fiorello; perfino Al Jazeera si è interessata.
Giudicando dall’esterno, uno magari si potrebbe chiedere: dove sta il trucco? Eppure basta poco a riconoscere chi nella vita ci mette il cuore e chi, al contrario, pensa solo a mantenere gli equilibri.
Da una parte io colloco Mimmo Lucano che, spaparanzato sulla panchina del piazzale davanti al municipio, mi racconta la sua folle avventura; dall’altra i burocrati, chiamiamoli così, che oggi sembrano mettergli i bastoni fra le ruote.
Tutto cominciò nel luglio del 1998 quando una fila di profughi appena sbarcati comparve sul lungomare: sembravano nomadi, invece erano curdi, uomini e donne con bambini che non sapevano dove andare. Mimmo, lui stesso emigrato al nord e poi tornato in Calabria nella speranza di poter cambiare le cose, decise di prenderli in carico: undici di loro se li portò addirittura a casa, uno fra questi si chiama Bairam e adesso ci ascolta annuendo nella calura di fine estate.
L’intuizione fu semplice e clamorosa: Riace, divenuta celebre per la sensazionale scoperta nel 1972 dei Bronzi greci ora conservati nel museo di Reggio Calabria, continuava tuttavia a spopolarsi.
La mancanza di qualsiasi prospettiva spingeva la gente a partire. Le vecchie abitazioni erano state abbandonate dai riacesi per le stesse ragioni che spingevano gli altri disperati a staccarsi dalle loro terre.
Perchè non fare in modo che le dimore degli italiani emigrati, spesso diroccate, ospitassero i nuovi pellegrini? Mimmo s’attaccò al telefono e chiamò i suoi compaesani a New York, Toronto, Sydney. C’era bisogno del loro permesso per entrare nelle case. Nessuno disse di no: questo andrebbe scritto a caratteri cubitali.
Da quel momento cominciò il bello. Come trattenere a Riace le persone che non smettevano di arrivare? E cosa dar da mangiare ai migranti e alla popolazione pronta ad accoglierli?
Nasce così l’idea dei bonus (tagliandi spendibili nei negozi del posto) e delle borse-lavoro (compensi erogati da enti pubblici in cambio di prestazioni d’opera) per ottenere che i profitti restino nella comunità dando fiato all’economia locale. Esempio virtuoso seguito da molti agglomerati limitrofi (la Rete dei Comuni Solidali). Mimmo rievoca il giorno in cui l’allora prefetto Mario Morcone, oggi sottosegretario agli Interni, gli chiese aiuto per ospitare 400 immigrati. Milano aveva dato la disponibilità per 20 posti. Riace da sola se ne prese 200. Oggi il paese ospita 600 migranti. I riacesi sono 900. Signori: anche questa è l’Italia!
Il sindaco s’infervora. Me ne racconta tante: l’asilo multietnico, l’ambulatorio medico, la scuola di alfabetizzazione, i laboratori tessili, le botteghe artigiane, il parco attrezzato, le stalle per gli animali.
Eppure c’è in lui una nota triste e sconsolata. Alessio, proprietario del bar di fronte al teatro dipinto coi colori dell’arcobaleno, dove ad agosto si svolge anche un festival, ci porta i panini. Non abbiamo il tempo di mangiarli, dobbiamo andare a vedere la sede della “Città futura” nel palazzo all’interno del vecchio borgo dove quasi ogni casa è stata ristrutturata.
Dalla terrazza il mare è uno smeraldo lungo la costa dirupata. Ai balconcini s’affacciano donne africane impegnate a stendere la biancheria. Al tavolo Mimmo mi mostra una lettera di papa Francesco che si rivolge a lui chiamandolo «Caro fratello Sindaco».
La serie delle finte banconote è qui davanti a noi: manca solo quella con l’intestazione a don Lorenzo Milani, gli dico scherzando. Lui ride compiaciuto, ma la tristezza non lo abbandona. Da cosa dipende? I finanziamenti in questo momento sono interrotti. Tutto rischia di saltare, anche a causa di attacchi e malevoli insinuazioni. Lui s’affanna in mezzo alle carte per capire dove sarebbe il problema: rendiconti non chiari? anomalie nella gestione dei fondi? necessità di verifiche da parte della Corte dei Conti?
Sì, dice, ma perchè questi impedimenti emergono soltanto adesso? Riace è diventata un faro nel mondo, utile a scatenare energie preziose anche altrove. Da una parte Mimmo viene invitato a parlare nei consessi più prestigiosi, in ultimo Buenos Aires, per sbandierare il suo modello vincente in un momento storico così difficile e contestato; dall’altra gli chiudono i rubinetti.
«Sono pronto ad abbandonare tutto» esclama con infinita amarezza. Dal 16 agosto è partita una raccolta di firme volta a sostenerlo con circa ventimila importanti adesioni. Ma questo non è sufficiente a fargli ritornare il sorriso.
Andiamo giù in paese, dico a me stesso, che forse è meglio. «Il sindaco è troppo buono», bofonchia Raffaele, davanti al negozietto di prodotti locali.
Arriva anche Biagio che fa la raccolta differenziata porta a porta guidando Rosina e Rosetta, due incredibili asinelle. Entro nella casa di Ousman, somalo costretto a fuggire da Mogadiscio, e poi anche dalla Libia dove s’era rifugiato con moglie e sei figli: «Solo in Italia ho trovato la pace». Fa impressione sentirlo parlare pensando ai nostri trascorsi coloniali proprio nei due Paesi da cui è fuggito.
Ma ancora più emozionante è vedere i suoi bambini fare i compiti: fiduciosi e sorridenti come un’erba selvatica cresciuta fra le antiche pietre. Di sicuro vinceranno loro. Mentre sto ancora riflettendo vado a visitare il più piccolo abitante di Riace: si chiama Gabriel, ha due settimane, dorme sereno nella stanza che hanno appena assegnato a lui e alla sua giovane mamma. Mimmo già non c’è più: impegnato nel disbrigo di altre faccende. Lo andrò a salutare alla fine prima di tornare all’aeroporto di Lamezia.
Mi manca ancora un tassello che reputo essenziale: voglio sapere cosa lo spinga davvero in quest’impresa politica e sociale.
Quale fiamma alimenti tale passione profetica. È stato lui stesso a dirmi che suo padre, Roberto, ha fatto per tutta la vita il maestro elementare. Vado a trovare l’arzillo novantenne nella casa in cui vive anche Mimmo. Gli chiedo se da bambino ci fosse in lui qualcosa che lasciasse presagire quanto accaduto. L’anziano genitore mi confida che una volta, quando il futuro sindaco aveva solo dieci anni, lo apostrofò, come fa ogni padre, «figlio mio». Ma il ragazzino, con piglio sorprendente, rispose: «Io non sono soltanto tuo». Credo che in questa frase sia racchiuso il segreto di Riace.
(da “La Repubblica”)
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