INTERVISTA AL POLITOLOGO ALESSANDRO CAMPI: “LA PANDEMIA E’ PIU’ ORGANIZZATA DELLA DEMOCRAZIA”
“LA DESTRA ITALIANA E’ FINITA, LA LEGA NON E’ MAI STATA DI DESTRA, SALVINI E’ UN RADICALE TROZKISTA, I LIBERALI NON ESISTONO, LA MELONI PENSA SOLO A FARE IL VERSO A SALVINI
“Più veloce, più organizzata, con il senso del tragico”. Secondo il politologo Alessandro Campi queste le ragioni per cui “la pandemia ha colto le democrazie impreparate”.
E più che alla politica, “troppa concentrazione di poteri all’apparato tecnico-burocratico. Passata la paura, quando sarà finita, non ci ricorderemo di Conte, ma di Burioni e di Arcuri, della Capua e di Borrelli. Con il rischio che si affermi la visione di uno Stato grande elemosiniere e di un vassallaggio alla Cina”.
Campi, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Perugia, è in libreria con “Dopo. Come la pandemia può cambiare la politica, l’economia, la comunicazione e le relazioni internazionali” (Rubbettino).
Se per democrazia ci limitiamo a intendere il meccanismo attraverso cui si arriva alla decisione politica, qual è lo stato della democrazia in Italia?
Democrazia implica, come diceva già Tocqueville, l’homo democraticus. Prima di essere un sistema di regole essa è un abito mentale, un atteggiamento che si può sintetizzare nella massima: l’unità nella differenza cioè la convivenza pacifica tra idee diverse, gli interessi parziali che trovano una composizione nell’interesse generale. Già si vede che quest’abito in molte democrazie consolidate è venuto meno da un pezzo: la comunicazione digitale da questo punto di vista ha inferto un colpo mortale all’ethos civile democratico. L’immagine canonica e virtuosa dell’opinione pubblica democratica implica cittadini responsabili che si informano e discutono tra loro mossi dal senso critico. Ma questo santino sociologico semplicemente non esiste più: il dibattito pubblico (peraltro fortemente inquinato dalle false notizie) è ormai una battaglia all’ultimo insulto a partire dai pregiudizi che nutrono le nostre poche e spesso malsane idee. Chi è disposto oggi a cambiare idea per aver letto un articolo o per essersi confrontato liberamente con qualcuno? In seconda battuta, la democrazia è lo strumento attraverso cui scegliamo chi deve governarci. Ma se salta la capacità di mediazione tra istituzioni e società operata tradizionalmente dai partiti, se i luoghi di formazione dei gruppi dirigenti smettono di funzionare, allora ai vertici della rappresentanza e del governo può arrivare chiunque: avventurieri della peggiore specie o semplici avventizi senz’arte nè parte (anche se nobilitati dal bollino “società civile”).
La non-decisione, ovvero la crisi di funzionalità , di cui soffrono le democrazie contemporanee è il frutto, in gran parte, di questa doppia deriva: un popolo rissoso e fazioso, sempre più polarizzato senza nemmeno il conforto delle vecchie ideologie, che si sceglie rappresentanti incompetenti, o che periodicamente si affida — salvo restarne delusa — a questo o quel “salvatore della patria”. Oggi è il turno di Conte, nell’attesa che ci si stanchi anche di lui.
C’era un problema precedente all’emergenza pandemia, o la pandemia ha peggiorato la situazione, ha creato una distorsione e un abuso della decretazione d’urgenza? O l’urgenza era necessaria?
Prima della pandemia c’era il governo breve, ovvero lo sguardo corto di tutti i leader politici democratici. Preoccupati solo della loro rielezione e di lisciare il pelo al popolo con discorsi vuoti e promesse, non riuscendo più a dare risposte alle crescenti domande sociali. E impegnati solo a comunicare, comunicare, comunicare. Lo scoppio della crisi sanitaria ha semplicemente mostrato questo: nessun governo, nessun leader si era preoccupato di ragionare o programmare guardando al futuro. Anche perchè i cicli politici ormai si sono accorciati (così come si è drammat icamente ristretta la torta di spesa pubblica da redistribuire). Tolta la Merkel, e tolti naturalmente i leader autoritari, i capi di governo ormai durano lo spazio di pochi anni: vanno e vengono divorati da quello stesso popolo che prima li ha scelti.
La pandemia ha colto le democrazie impreparate: perchè lavorano politicamente ormai su tempi brevi (quelli imposti dalla comunicazione in rete), perchè hanno procedure decisionali per definizione lente (un handicap quando la velocità nelle risposte diventa decisiva) e, aggiungo, perchè essendo storicamente fondate sul mito dell’opulenza nemmeno riescono più a concepire, sul piano della mentalità collettiva, che dietro l’angolo possa esserci una tragedia in agguato (le democrazie liberali non coltivano il senso del tragico). Nello stato d’emergenza che abbiamo sperimentato non è emerso il sovrano che decide per tutti e fonda la sua legittimità , con buona pace di tutti quelli che in queste settimane hanno inutilmente scomodato Carl Schmitt e le sue teorie sullo stato d’eccezione. E’ emersa, per restare nel campo delle democrazie, la differenza tra le società meglio organizzate (la Germania) e quelle meno organizzate, tra chi ha ancora un residuo di classe dirigente (con relativo senso del dovere) e chi non l’ha più. Per il resto, come si è visto in Italia, la differenza nell’emergenza l’ha fatta l’abnegazione dei singoli.
Il ricorso all’urgenza ha funzionato? Cosa si perde in termini di dialettica democratica, ricorrendo all’urgenza?
I cocci dello Stato diritto, in Italia come altrove, li raccoglieremo nei prossimi anni. La tradizionale gerarchia delle fonti di diritto è stata stravolta. I parlamenti sono stati esautorati o chiamati ad esercitare una mera ratifica legale di decisioni prese in via puramente amministrativa e secondo procedure assai dubbie. C’è stata una concentrazione di poteri che non ha riguardato, come si sostiene, il livello del governo politico, ma gli apparati tecnico-burocratici. Scienziati e burocratici sono stati i protagonisti di questa crisi. In Italia, quando sarà finita, non ci ricorderemo di Conte, delle sue conferenze stampa e del suo decisionismo a favore di telecamere, ma di Burioni e di Arcuri, della Capua e di Borrelli. Così come ci ricorderemo dei numerosi e pletorici comitati di esperti, nati per supplire una politica evidentemente incapace di assumersi le sue responsabilità . E’ un cambiamento di attori (e di dinamiche) che in futuro potrebbe incidere molto sul modo di funzionare delle democrazie, destinate probabilmente ad evolvere verso una forma di tecno-populismo implicante una divisione funzionale dei compiti: i politici faranno le campagne elettorali, scriveranno sui social e andranno in televisione (il versante populista della politica democratica), la new class degli esperti e competenti nelle diverse materie prenderà invece le decisioni che contano (il lato tecnocratico della politica democratica).
C’è un problema di classe dirigente nel Paese o – se esiste – un problema di malfunzionamento della democrazia a priori? Il nostro sistema, la nostra architettura istituzionale non era attrezzata a fronteggiare emergenze come il virus?
La democrazia italiana è sgangherata, e non da oggi. Resiste perchè lo Stato italiano, che come tutti gli Stati dispone di un sistema nervoso tecnico-amministrativo e di apparati burocratici che riescono ancora a fare quello che la politica non sa più fare o, nei casi estremi, a riparare ai suoi errori. Tutti i tentativi di riforma del sistema politico italiana sono stati affossati negli anni grazie ad una cultura costituzionale di stampo, nemmeno conservatore, ma corporativo-conservativo. Anni passati a difendere la Repubblica parlamentare nata dalla Resistenza contro ogni minimo rischio di evoluzione in senso personal-presidenzialistico e il risultato è che nessuno ha mosso un dito quando lo storico e glorioso bicameralismo italico è stato declassato ad orpello formalistico in nome dell’emergenza. Quanto a come si seleziona una classe politica all’altezza, per l’ordinaria come per l’ordinaria amministrazione, dovevamo pensarci prima. Adesso ci teniamo quel che abbiamo e che Dio c’aiuti.
C’è chi sostiene, come Lucio Caracciolo su Repubblica, che contro il virus rinasce lo Stato. E’ d’accordo?
Più che lo Stato come apparato o struttura è tornata soprattutto l’idea — davvero hobbesiana — di un potere la cui funzione primaria (che poi è la ragione principale per cui ad esso si obbedisce) è quella di proteggere i cittadini dai pericoli. Laddove il pericolo principale è quello di morire. E’ in effetti impressionante, anche se perfettamente comprensibile in una logica appunto hobbesiana, il modo con cui milioni di cittadini hanno accettato senza battere ciglio di essere confinati nello loro case e privati di alcune libertà fondamentali da un potere al quale, sino al giorno prima, non avrebbero riservato altro che insulti. E il bello è che abbiamo anche scambiato per senso civico da cittadini il terrore panico da sudditi quali nuovamente ci siamo ritrovati ad essere grazie ad un esperimento sociale di confinamento domestico che personalmente mi è molto servito per capire come dovessero funzionare i regimi dell’Est all’epoca del “socialismo reale”: il vicino di casa delatore, la sorveglianza discreta della polizia, le persone che per strada si guardano con sospetto, il governo politico ridotto a grigia amministrazione, la riduzione dei spostamenti e dei contatti sociali, le code fuori dei negozi, i discorsi televisivi e rete unificate del leader, il dissenso intellettuale ridotto al minimo, il permesso delle autorità per spostarsi da un posto all’altro. Il problema, fatta questa digressione, è quello che accadrà passata la ‘grande paura’. Lo Stato, stante anche la recessione economica che tutti si aspettano, riprenderà il ruolo di imprenditore-innovatore di keynesiana memoria? La mia paura è che prevalga, ad esempio in Italia, una visione dello Stato come grande elemosiniere: poco a tutti per ragioni, al tempo stesso, di giustizia sociale e di consenso elettorale.
C’è poi l’aspetto internazionale. Con gli Stati, a partire da quelli grandi e più potenti, che si riprendono i loro spazi dì azione e di sovranità si indeboliranno sempre di più gli attori sovranazionali, già da un pezzo in crisi. Con la crisi del multilateralismo e dell’ordine mondiale liberale potrebbe aprirsi un nuovo ciclo di lotte per l’egemonia su scala globale. Mi chiedo a quel punto che scelte farà l’Italia. Sceglieremo il vassallaggio alla Cina come male minore?
Allargando il discorso, è mancata in questa fase una destra capace di fare un’opposizione non urlata, come sostiene per esempio lo storico Franco Cardini sul Foglio, e di incanalare la risposta dello Stato in chiave diversa?
L’equivoco — politico e ideologico al tempo stesso — è che Salvini e la Lega abbiano qualcosa a che vedere con la destra, conservatrice o nazionalista che sia, quella che per tradizione si vuole dotata di un grande senso dello Stato, tutta “ordine e disciplina”. La Lega nasce anti-italiana e anti-nazionale. Ha sempre avuto una carica sovversiva e anti-istituzionale che da Bossi arriva direttamente al radicalismo vagamente di Salvini. L’unica destra su piazza, in senso proprio, è quella della Meloni (essendo finito da un pezzo il sogno d’una destra liberale che intorno a Berlusconi non si è mai aggregata se non a chiacchiere). Ma la leader di Fratelli d’Italia ad un certo punto dovrà decidersi: fare il verso a Salvini per togliergli un po’ di elettorato sul suo stesso terreno propagandistico (facendosi forte dell’essere donna, giovane, abile nella comunicazione, più presentabile o semplicemente meno ambigua sulla scena internazionale) o ricordarsi da dove viene e provare a costruire una destra meno incline allo sciovinismo e alla demagogia? C’è però a destra un problema di elettorato: ormai radicalizzato e abituato a certe parole d’ordine e a certi cattivi umori. Non vedo dunque un grande spazio per un’azione di pedagogia politica che richiederebbe anni e che non sono nemmeno sicuro che la Meloni sia interessata a condurre, preferendo forse anch’essa un rapido incasso elettorato con i soliti sloga contro l’immigrazione o l’Europa o la finanza plutocratica. Forse è più semplice dire che la destra in Italia (forse nel mondo) è finita, come anche la sinistra. Solo altre le partite, le poste in gioco e le linee di divisione.
(da “Huffingtonpost”)
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