LA GRANDE ILLUSIONE DEI CINQUESTELLE
DENTRO IL M5S DI MAIO SOTTO ACCUSA… RESOCONTO DELL’ASSEMBLEA DEI GRUPPI PARLAMENTARI GRILLINI
Sono finite le oltre tre ore di assemblea tra Luigi Di Maio e i gruppi parlamentari del Movimento 5 stelle quando in un corridoio della Camera si materializza Riccardo Fraccaro. Il premier martedì si dimetterà dopo le comunicazioni al Senato? “Conte non è così prevedibile come pensate, per questo mi piace”.
La confusione è tanta sotto il cielo, nubi di incertezza lo solcano sottili e taglienti.
Il capo politico 5 stelle convoca un’Assemblea congiunta, ma calcia il barattolo più in là : “Ci ha chiesto di rinviare la questione di cosa fare, del Pd e della Lega, a dopo che avrà parlato il presidente del Consiglio”, spiegano i presenti.
Nessuno di loro sa cosa farà . Lo stesso Di Maio spiega di non saperlo. Qualcuno lo mette nel mirino, la fronda interna ondeggia: “È stato arrogante e spocchioso — dice un senatore di lungo corso — quasi a irriderci chiedendo se non abbiamo fiducia in lui, a dirci che non sa cosa farà Conte, ma figuriamoci”.
C’è chi tratteggia voli imprevedibili dell’avvocato del popolo.
Come quello che prevederebbe un discorso duro, senza via d’uscita contro Matteo Salvini e la Lega, accusando il segretario del Carroccio di essere leader delle assenze, dei tanti no sbattuti da lui, e non dai partner, in faccia agli alleati.
Seguito però dalla spiegazione che le dimissioni sì ci saranno, ma dopo giovedì, dopo che Montecitorio avrà votato il taglio dei parlamentari. Lasciando il cerino in mano al Carroccio: sfiduciarlo con un voto palese, offrendo un eccellente argomento di rivendicazione per l’universo stellato, o cercare di forzare la mano e inseguire le urne anche dopo una modifica costituzionale che per essere effettiva richiederebbe l’attesa dei tempi del referendum.
Di Maio si tiene aperte tutte le porte. Coltiva il progetto, la grande illusione, di rimanere baricentro del sistema politico, con la golden share dei numeri parlamentari. I suoi tornano a ripetere come ai tempi della crisi di un anno e passa fa: “Siamo il partito di maggioranza relativa, da noi si deve passare”.
La vera novità di giornata è questa: il vertice domenicale a casa Grillo sarebbe stato tutt’altro che pacifico.
Tra chi spingeva per il Pd, con Beppe Grillo in testa, chi per il voto, vedi alla voce Di Battista, chi per lasciare ogni possibilità sul campo, con il ministro del Lavoro sostenitore di quest’ultima via.
Così ne sarebbe uscito un comunicato che da un lato bastonava la credibilità di Salvini e dall’altro elogiava il lavoro con i gruppi parlamentari leghisti. Un modo non per chiudere definitivamente la porta a Salvini, ma di instradare un’eventuale Canossa su binari precisi.
Ecco le condizioni, ancora non squadernate su un tavolo di trattativa, ma in fase di incubazione nell’inner circle del fu ragazzo di Pomigliano: Conte rimane premier, Di Maio vice, il segretario del Carroccio “retrocesso” a solo ministro dell’Interno, una manciata di punti programmatici da attuare a strettissimo giro di posta.
Condizioni al limite dell’irricevibilità , probabilmente oltre. “O così o niente”, spiega una fonte molto vicina a Di Maio, confermando che nella testa del leader il forno principale ha tutt’altro che smesso di ardere.
Il no, d’altra parte, creerebbe una strada, tutta politicista e di incerta efficacia comunicativa, per poter andare dai Democratici senza l’onta del contro tradimento, potendo dire di aver esplorato tutte le strade per rimettere insieme i cocci.
Versante sul quale Salvini ha lanciato il sasso di una Maria Elena Boschi ministro, creando una valanga che Di Maio ha provato a arginare bollandola come fake news. Ecco i suoi: “Avere renziani al governo serve a noi, serve a Zingaretti. Ma non Boschi, Lotti, Bonifazi, lo stesso Renzi, piuttosto nomi di secondo piano”.
Certo è che anche Nicola Zingaretti si gioca una delle partite più importanti della sua vita politica, e l’eventualità di ritrovarsi sia Conte sia Di Maio, in uno schema di pura sostituzione della Lega al governo, è indigeribile per il segretario Dem.
Ma eccola la grande illusione: l’ambizione di poter dare le carte con chicchessia dopo essere stati stropicciati da un anno di gialloverdismo e strapazzati alle urne.
E con un gruppo parlamentare che rifiuta recisamente l’ipotesi di un bis sovranista. A un certo punto Primo De Nicola, senatore espertissimo del Palazzo, sale a prendere un caffè in buvette, quasi certificando l’inutilità del dibattito fiume che sta andando in scena due piani sotto, nei fatti silenziato sulla sostanza politica. Allarga le braccia: “In che direzione si va? Mi sembra evidente”.
Accanto a lui Ettore Licheri, presidente della commissione Affari europei di Palazzo Madama, sfodera il solito sorriso e uno zainetto sulle spalle: “Mi chiamano tanti colleghi leghisti, anche loro non capiscono, ma la strada mi sembra segnata. Nessuno degli interpellati vuol sentir parlare di un bis di M5s più Lega. Un altro senatore agita le mani come a scacciare fantasmi: “Se torniamo da Salvini quando torniamo al voto non superiamo la soglia di sbarramento”. Arriva un deputato: “Luigi dice non apriamo o chiudiamo a nessuno? Certo, noi no, la Lega la porta l’ha già chiusa”.
Si fa sera, nei corridoi deserti della Camera rimbalza una sorda eco, improvvisamente riempito da un trambusto. Ecco Di Maio, che a lunghe falcate si dirige verso i piani inferiori, seguito da Alfonso Bonafede.
Due uomini della comunicazione a frapporsi a qualsivoglia contatto, nessuna risposta a qualunque tipo di domande. Scende in fretta due piani di scale, si infila in macchina e se ne va dribblando i cronisti.
Bonafede aspetta un attimo in più, sorride, scambia qualche battuta, ma la sostanza è la stessa. I parlamentari sciamano via: “Nulla di che — spiega uno — le prossime assemblee saranno più decisive, forse ci vediamo giovedì. Emanuela Corda, Marco Rizzone e Alberto Airola sono quelli che sollevano alcuni punti critici: la comunicazione, un evergreen delle sedute di autocoscienza pentastellate, l’allargamento dei processi decisionali, nelle mani di uno stretto giro di persone.
A sera ecco un big del Movimento al telefono: “Ti credo che Luigi è in difficoltà . Lui ci ha portato qui, lui deve pagare il conto”. Nella notte che scende su Roma intorno ai Palazzi del potere è come se si sentisse il lavorio incessante per renderlo il meno salato possibile.
(da “Huffingtonpost”)
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