LA NUOVA ITALIA: I NOSTRI AZZURRI AGLI EUROPEI DI ATLETICA A BERLINO
CANTANO IL NOSTRO INNO, STRINGONO LA NOSTRA BANDIERA, SONO FELICI DI ESSERE ITALIANI
Quanta bellezza e quanto talento in queste atlete e in questi atleti, nelle nostre ragazze e nei nostri ragazzi che vestono l’azzurro agli europei di atletica a Berlino con il sorriso, italiani nel modo di essere e di pensare, figli della nostra terra, delle nostre abitudini, delle nostre contraddizioni.
Si allenano, corrono, saltano, vincono stanno arricchendo il nostro medagliere. L’atletica leggera sta ritornando, grazie anche a loro, a essere pratica sportiva di vittoria e non di rimpianto.
Hanno la pelle nera, però; per questo, nell’assurdità di questi tempi, non piacciono a molti, a troppi.
Il veleno del razzismo, che non dovrebbe appartenere per storia cultura e memoria al nostro Paese, ha creato, e continua a creare, pozzi di rancore e di rabbia. Ma loro sono l’esempio, tra i più chiari, della forza dell’accoglienza e dell’amore.
Perchè esiste anche un’altra Italia. E quante assurde polemiche intorno a loro!
Libania Grenot, quattrocentista di origini cubane, scatenò una polemica tra Matteo Salvini e Roberto Saviano, dopo un tweet dello scrittore che parlò di “risposta italiana a Pontida”.
Ma come si fa a non tifare e a non apprezzare, oltre a Libonia, Daisy Osakue, Maria Benedicta Chigbolu, Raphaela Lukudo, Ayomide Folorunso, Yadisleidy Pedroso, Yeman Crippa e Yohanes Chiappinelli e tutti gli altri?
Stanno facendo bene al nostro Paese, soprattutto in queste buie stagioni dove la tolleranza è un vuoto a perdere, dove il nero, sempre e comunque, viene visto con disprezzo, bisogna allontanarlo, non farlo sbarcare.
Ma guardateli questi ragazzi, guardateli bene: stringono la nostra bandiera, cantano il nostro inno, sono felici di essere italiani, di indossare quella maglietta azzurra, amano i nostri autori, i nostri cantanti, dicono le nostre stesse parolacce, seguono le nostre serie televisive, alcuni parlano persino il dialetto.
Come si fa a odiarli, proprio noi!
Io sono nato a San Paolo del Brasile, figlio nipote e pronipote di migranti, gente partita per fame, per sogno, per speranza, per disperazione: trovando sempre, per buona sorte, la benedizione dei porti aperti.
Abbiamo conosciuto la fatica, a volte sdegno e disprezzo (gli italiani non godevano ancora negli anni Cinquanta di buonissima fama), ma soprattutto gli abbracci, l’ospitalità e la solidarietà .
I miei genitori, nel 1961, sono riusciti a tornare in Italia, non più nella loro Verona, ma a Torino, in quei giorni avvolta e stravolta dalla meraviglia e dall’illusione del boom economico.
Ma il Brasile è sempre rimasto nel cuore di mio papà e di mia mamma, per davvero la “terra del futuro” come intuì Stefan Zweig. Mi fece effetto vedere, a Torino, in certi palazzi il cartello “Non si affitta ai meridionali”.
L’Italia agli italiani, già : ma non per tutti, evidentemente…
La mia fortuna è stata quella di crescere in un quartiere, Cambuci, nella metropoli paulistana, dove giocavo a pallone per strada con i miei coetanei: musulmani, mulatti, ebrei, giapponesi.
Non importava il colore della nostra pelle o la religione dei nostri padri, eravamo felici di stare insieme, e inseguendo quella palla inseguivano la vita, il domani.
Lì, in quella strada, ho capito che il razzismo è veramente la cosa più stupida del mondo. E sono qui a tifare per Daisy e Yohanes.
Italiani. Come me.
(da “Huffingtonpost”)
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