LA STAGIONE DEL RISENTIMENTO CHE LA POLITICA CERCA DI INTERCETTARE
L’INSEGUIMENTO DEL SUCCESSO PRODUCE FORME OSSESSIVE DI RIPIEGAMENTO SU DI SE’
Un fantasma s’aggira per l’Italia: il risentimento.
Livore, astio, ostilità , acredine, malevolenza, vendetta, sono i differenti nomi di questo fantasma.
Non abita solo le periferie sconquassate delle città , ma anche i palazzi del centro, i luoghi di lavoro come le scuole, gli autobus, i taxi e le panchine dei parchi.
Sembra l’unica risposta possibile ai torti, alle offese, agli smacchi che molti sentono di aver subìto.
Un profondo senso di frustrazione unisce le madri ai figli e alle figlie disoccupate, i sessantenni ai trentenni, gli operai ai piccoli imprenditori, i professori ai loro allievi. Nessuno si salva, nessuno ne sembra esente.
C’è anche il rancore, che s’accompagna al risentimento, suo fratello gemello; parola d’origine latina, rancor, ha la medesima radice di rancidus, “astioso” e anche “stantio”.
La convinzione che i più coltivano, a torto o a ragione non importa, è quella di aver subito un sopruso, un’ingiustizia.
Ne consegue dolore, afflizione, ma anche ansia e depressione, che sono due stati d’animo assai diffusi, opposti e simmetrici alla rabbia che il risentimento produce.
I luoghi dove manifestarlo sono molti e diversi, tra questi anche la lotta politica, trasformata da competizione tra partiti e programmi diversi in resa dei conti, luogo in cui ribaltare i torti o compiere agognate vendette.
Luis Kancyper, uno psicoanalista sudamericano, che si occupa da anni del rancore, sottolinea come si tratti di una attività ripetitiva: rancore come “ruminare”. In origine il termine indicava l’atto di dondolarsi, il pensare e ripensare al medesimo evento in modo costrittivo.
Allo stesso modo, scrive Kancyper, il risentimento è un “sentire ancora, di nuovo”, un ritornare incessantemente sul proprio stato emotivo, senza possibilità alcuna di allontanarsi definitivamente dall’offesa o dal torto subito, sovente immaginario.
Il risentimento deve avere senza dubbio una qualche parentela con la paranoia, l’unica malattia mentale contagiosa, come ha ricordato Luigi Zoja nel suo studio Paranoia. Gli psicoanalisti sono convinti che la radice profonda del risentimento risieda nell’invidia, sentimento negativo, ma che ha un’enorme importanza nelle relazioni tra i singoli e tra i gruppi sociali.
Il filosofo sloveno Slavoj Zizek ha raccontato in vari libri un’emblematica storiella al riguardo.
Una strega dice a un contadino: «Ti farò quello che vorrai, ma ricorda, farò due volte la stessa cosa al tuo vicino». E il contadino con un sorriso furbo: «Prendimi un occhio!»
Quale è la radice sociale del risentimento che colpisce da almeno un paio di decenni l’Italia e che ha avuto il suo culmine nei fenomeni xenofobi, nelle manifestazioni leghiste e che fluttuando si manifesta a intervalli più o meno regolari qui e là , determinando anche i flussi elettorali e le manifestazioni collettive?
La frustrazione, si potrebbe rispondere. Ma per cosa?
La condizione contemporanea sarebbe secondo gli psicologi un impasto inedito d’invidia e risentimento.
L’inseguimento del successo, proposto sempre più come una meta individuale e collettiva, produce forme ossessive di ripiegamento su di sè, da cui nasce il risentimento.
Molte persone soffrono la vergogna di non aver raggiunto quei riconoscimenti economici e sociali promessi a tutti da una società solo in apparenza democratica ed egualitaria.
La competizione, che pare diventata uno straordinario carburante di miglioramento, reca tuttavia con sè, quali frutti avvelenati, frustrazione e risentimento.
Andy Warhol, geniale artista della contemporaneità , l’ha condensato nella frase che gli si attribuisce: nel futuro ciascuno sarà famoso per 15 minuti.
E se i quindici minuti non arrivano mai? A tutto questo va aggiunta la forbice che si è aperta in Occidente, e quindi anche in Italia, tra ricchi e poveri, coinvolgendo le classi medie che si ritenevano al riparo da indigenza e povertà .
Nessuno è più sicuro di non diventare un “sommerso”.
La parola “risentimento” è entrata nel vocabolario moderno attraverso un libello del 1593, Dialogue du Franà§ais et Savoisien, opera di Renè de Lucinge, in cui l’aristocrazia manifesta la sua acredine nei confronti della borghesia, dei nuovi arricchiti, che si comprano i titoli nobiliari.
Il risentimento è in definitiva il sentimento che prova chi per lungo tempo ha desiderato qualcosa, scrive un sociologo, senza raggiungerlo, e che ora capisce che non l’avrà mai. Kancyper lo definisce “un pensare calamitoso”, un tormento da cui la collera resta la via d’uscita più semplice.
Il risentimento c’è sempre stato, ma, come ha scritto il filosofo Peter Sloterdijk, un tempo esistevano le “banche del risentimento”, quelle istituzioni e organismi che ne detenevano il controllo, e ne amministravano il flusso.
La Chiesa, ad esempio, ma anche e soprattutto i partiti socialisti e comunisti, che raccoglievano il rancore e la rabbia della gente come le banche il denaro, dilazionando nel tempo le reazioni individuali e collettive. I progetti della società futura – regno della giustizia e paradiso in terra – tenevano sotto controllo le frustrazioni, davano loro un senso in attesa dei futuri “giorni dell’ira”: la rivoluzione, le rese dei conti, la vittoria degli oppressi e degli umiliati
Oggi non ci sono più, o almeno non funzionano più così.
Ora ogni richiesta è immediata, niente può più essere posposto. Nessuno attende più, neppure Godot.
Abbiamo imparato grazie alle nuove tecnologie, all’informatica e al computer che tutto avviene “in tempo reale”: tutto è rapido e istantaneo.
Nessun fallimento, nessun dolore, nessuna frustrazione o patimento subito, può attendere quel giorno futuro. La politica tradizionale probabilmente non ha ancora imparato a tener conto di questo cambio di paradigma temporale.
Ma ci dovrà fare i conti. Intanto c’è già chi ha trovato il modo di rispondere alla domanda di risentimento e rancore che sale dal Paese.
Non sarà facile per nessuno. Il livore e l’astio non fanno mai sconti.
Marco Belpoliti
(da “La Repubblica”)
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