LE MULTE AI PARLAMENTARI CHE DISSENTONO? SONO INCOSTITUZIONALI
IL COSTITUZIONALISTA PLUTINO: “L’ART. 67 DELLA COSTITUZIONE VIETA IL MANDATO GIURIDICAMENTE IMPERATIVO”
Da tempo denuncio che l’apparato concettuale del Movimento cinque stelle è in aperto e frontale contrasto con la teoria della democrazia rappresentativa e quindi – visto che questa teoria è stata recepita dal Costituente, trasformandola in regole giuridiche – stride con la Costituzione.
L’ultima stravaganza costituzionalistica del Movimento riguarda l’ipotesi di salate multe per i parlamentari (e non solo, ma limitiamo il discorso a questi) che si distacchino dalle decisioni del partito o, perfino, che siano fuoriusciti dal partito.
Ora, la nostra Costituzione vieta il mandato imperativo. Tanto è vero che Di Maio porta l’esempio della Costituzione portoghese, e con ciò non trae le conclusioni dovute: occorrerebbe modificare (ammesso che sia possibile) la Costituzione, sul punto.
Allo stato, qualunque contratto che abbia per oggetto significativi vincoli o condizioni per l’esercizio del mandato parlamentare è privo di valore ai sensi dell’art. 67 Cost. Costituendo il caso di scuola di (tentativo di) introduzione di un mandato giuridicamente imperativo, che è costituzionalmente vietato.
La conclusione – consolidata per le cosiddette “dimissioni in bianco” – non può che valere anche per vincoli di ordine giuridico da cui discendano sacrifici di ordine economico notevoli, che si configurano di fatto come limitazioni all’esercizio del mandato, talchè – nel caso – si potrebbe dissentire solo a costo di pagare pesanti multe.
Tra l’altro l’entità della multa sarebbe tale da incidere in modo molto significativo sulla indennità parlamentare che è una essenziale prerogativa del parlamentare (diversa da una retribuzione), funzionale proprio a consentire un esercizio libero della sua attività .
L’accordo associativo – il partito è un’associazione privata basata su un accordo associativo – non è in contrasto con il suddetto articolo della Costituzione (compresa la statuizione della disciplina di partito), ma lo possono essere termini specifici di questo accordo (allo stato non siamo neanche a questo, siamo all’ennesimo comunicato-diktat) se limitano la libertà dell’iscritto in quanto parlamentare.
Il gruppo parlamentare e il partito potranno invece certamente azionare il potere disciplinare espellendo il parlamentare che si sottrae alla disciplina di partito deliberata dagli organi deputati.
Pertanto, e veniamo ad un altro punto, è fantasia il danno di immagine risarcibile per “mutamenti di casacca”.
Recita la seminale sent. n.14 del 1964 della Corte costituzionale: “il divieto di mandato imperativo importa che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito”.
Potremmo immaginare casi e ipotesi più liminari su cui discutere, in futuro.
Per il caso del giorno, le parole della Corte si attagliano perfettamente: Nessuna norma. Conseguenze (sullo status di parlamentare). Questo il cuore dell’istituto.
Ciò vale sicuramente per i mandati parlamentari (nazionali ed europeo) ma si ritiene generalmente che siamo davanti ad un connotato indefettibile, almeno nel nostro ordinamento, di ogni forma di rappresentanza politica (e non di interessi).
Marco Plutino
costituzionalista
(da “Huffingtonpost“)
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