MELONI VA A BERLINO MA BRUXELLES L’HA GIA’ INGABBIATA
LA PREMIER DA SCHOLZ CON GIORGETTI PER FIRMARE L’INTESA ITALIA-GERMANIA VOLUTA DAL GOVERNO DRAGHI
Si annuncia come una giornata di giubilo dal sapore amaro la visita di domani a Berlino da parte di Giorgia Meloni, Giancarlo Giorgetti e diversi altri ministri del governo.
Da un lato, la premier si reca a firmare l’intesa istituzionale tra Italia e Germania, pensata all’epoca del governo Draghi per suggellare un patto di collaborazione tra i due Stati maggiori dell’Ue su diversi campi. Dall’altro, l’incontro con il cancelliere Olaf Scholz sarà l’occasione per fare il punto sulla riforma del Patto di stabilità e crescita. E qui sta il problema. Sul tavolo, c’è la proposta tedesca che il ministro delle Finanze Christian Lindner sta facendo avanzare grazie all’avallo del francese Bruno Le Maire e della presidenza spagnola dell’Ue.
A Roma non piace, per usare un eufemismo. La novità delle ultime ore è che Meloni arriva alla discussione con Scholz stretta nella morsa che Bruxelles le ha costruito intorno con il giudizio espresso oggi dalla Commissione europea sulla manovra economica per il 2024.
Il report presentato oggi a Strasburgo dai commissari Paolo Gentiloni e Valdis Dombrovskis non lascia spazio a dubbi: l’Italia ha un deficit ancora troppo alto, il 4,4 per cento del pil l’anno prossimo. Deve pensare a ridurlo, insieme al debito.
L’aggravante per Meloni è che quell’1 per cento del pil di risparmi ricavati dalla scelta del governo di eliminare i sostegni contro il caro-energia, apprezzata a Bruxelles, non viene utilizzato per ridurre il disavanzo ma per aumentare la spesa primaria.
Per questo la manovra “non è pienamente in linea” con le raccomandazioni europee. Per questo il governo deve porre rimedio. “L’Italia dovrà intraprendere un percorso di consolidamento per riportare il deficit nominale strutturale in linea con le raccomandazioni europee. E per questo è importante raggiungere un accordo sulle nuove regole fiscali”, ci dice una fonte europea che conosce bene il dossier.
Gentiloni usa toni più morbidi. “Non è una bocciatura ma un invito alla prudenza di bilancio e a usare al meglio le risorse comuni europee”, dice il commissario all’economia. E pure Dombrovskis evita di attaccare Roma. Lontanissimi anni luce i tempi del braccio di ferro tra il governo Conte I di Lega e M5s e Bruxelles sulla manovra economica 2019. Peraltro quella finanziaria venne giudicata a rischio di non essere in linea con le raccomandazioni europee, un voto decisamente più basso rispetto a Meloni, un livello di scontro decisamente più alto. Ma l’avvertimento è chiaro, anche se Gentiloni svicola se gli si chiede dell’opportunità di manovre correttive: “I nostri inviti puntano a prendere le misure opportune, ma non a fare manovre correttive”.
Il fatto è che il disavanzo italiano continua a superare la soglia del 3 per cento del pil prevista dalle regole fiscali europee: sia le vecchie che le nuove, come si evince sia dalla stessa proposta della Commissione europea e sia dalla discussione guidata da Francia e Germania. Il rischio è di una procedura per squilibri eccessivi l’anno prossimo.
Decisione che, dice Gentiloni, verrebbe presa non prima della “fine di giugno 2024”, nei confronti dell’Italia e degli Stati membri che non rispettano i parametri Ue. Insomma, dopo le elezioni europee, previste tra il 6 il 9 giugno dell’anno prossimo. Il fiato per la campagna elettorale è assicurato. Dopodiché si aprono le incognite sul baratro dei conti.
La pagella presentata oggi di fatto porta acqua al mulino tedesco sulla riforma del Patto di stabilità. Non è il primo avvertimento nei confronti dell’Italia, che accumula alert di Bruxelles sull’alto debito da prima della pandemia e prima dunque della sospensione delle regole fiscali per la crisi da covid.
Ma è il primo per Meloni, al governo da un anno. E suona come ultima chiamata, nei giorni cruciali della discussione sulla riforma del Patto di stabilità, in vista della riunione dei ministri finanziari europei l’8 dicembre a Bruxelles, preceduta da una cena straordinaria il 7 sera per cercare di trovare un accordo da votare all’Immacolata. Pur con i guanti bianchi e tutte le accortezze del caso per non aprire scontri con un governo che ci metterebbe poco a replicare con slogan anti-europei, il sentiero della politica fiscale di Roma per i prossimi anni è seminato ed è stretto. Meloni ha poche possibilità di sfuggire alla tagliola.
Dire no alla riforma del Patto, come minacciano sia la premier che Giorgetti, non sembra una soluzione. Senza accordo sul nuovo quadro fiscale, l’anno prossimo tornerebbero in vigore le vecchie regole. Le soglie del 3 per cento del pil per il deficit e del 60 per cento per il debito, entrambe ampiamente sforate dall’Italia, sono previste sia nel vecchio regime che nel nuovo che avanza.
Bloccare la riforma della governance servirebbe solo a costruire un clima ostile a livello europeo che non lascerebbe sperare nella concessione di ampie dosi di flessibilità come quelle di cui Roma ha sempre beneficiato in passato.
La premier per ora sta usando l’altra arma che pensa di avere a disposizione: la ratifica della riforma del Meccanismo europeo di stabilità. La strategia è continuare a tenerla in stand by per trattare sulla revisione delle regole fiscali. Oggi l’ultimo rinvio: il provvedimento era in programma per giovedì in aula alla Camera, ma slitta ancora. Ufficialmente per via dei tempi di discussione sulla fiducia sul decreto milleproroghe. Politicamente, è il viatico con cui Meloni si presenta a Berlino per cercare di strappare concessioni a Scholz.
Al momento, nel piano franco-tedesco, sostenuto dalla presidenza spagnola dell’Ue, c’è poco o nulla per l’Italia. Lo scomputo delle spese dal calcolo del deficit chiesto da Giorgetti è respinto al mittente dalla tolda di comando ‘frugale’ dell’Ue, Germania e Olanda.
Le spese per il Pnrr, quelle per la difesa e anche gli investimenti per i fondi nazionali aggiuntivi al piano di ripresa e resilienza figurano solo come ‘fattori rilevanti’ per evitare la procedure per squilibri eccessivi e giustificare un aumento della spesa primaria, il criterio di valutazione principale del nuovo Patto di stabilità considerato come tale già nel report di oggi sulla manovra. Va da sé che non si tratta di un vero e proprio scorporo, ma semmai di una concessione ex post.
Sulla carta c’è la possibilità di evidenziare le contraddizioni di Bruxelles, che da un lato proroga la possibilità di utilizzare gli aiuti di Stato per andare incontro alle imprese contro il caro-energia, come ha annunciato la Commissione europea ieri, e dall’altro invita gli Stati membri a eliminare tale sostegno pubblico per ridurre il disavanzo.
Ma si sa: certe concessioni valgono solo per chi ha spazio fiscale per sfruttarle. Dunque per la Germania, malgrado anche a Berlino abbiano problemi di spesa, come dimostra la recente sentenza della Corte Costituzionale tedesca, spietata sui trucchi contabili della coalizione semaforo. Ma questo non ha scalfito l’impostazione severa del ‘falco’ Lindner sulla riforma delle regole fiscali. Per Roma non c’è un giudice a Berlino. E nemmeno a Karlsruhe.
(da Huffingtonpost)
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