TRATTATIVA STATO-MAFIA: DAL MAXIPROCESSO ALL’OMICIDIO DI SALVO LIMA
DALLE STRAGI 1992-’93 AGLI INTERVENTI DAL COLLE SULLE INDAGINI
Palermo Il giorno della svolta è il 30 gennaio 1992.
Quel giorno la Cassazione chiude il maxi-processo con una pioggia di ergastoli per i boss di Cosa Nostra. Salta il tradizionale rapporto tra mafia e politica.
Calogero Mannino, l’unico ministro siciliano della Democrazia cristiana, capisce di essere in pericolo e si confida con il maresciallo Giuliano Guazzelli: “O uccidono me o Lima”.
La sua è un’intuizione profetica. Il 12 marzo, la chioma bianca dell’eurodeputato Salvo Lima è immersa in una pozza di sangue, sull’asfalto di Mondello.
ROMA-CAPACI SOLO ANDATA
Mannino ha paura. E ne ha ancora di più quando il 4 aprile 1992, anche Guazzelli viene assassinato. Mannino vuole salvarsi la pelle e cerca aiuto: in gran segreto incontra a Roma il generale del Ros Antonio Subranni, lo 007 Bruno Contrada e il capo della Polizia Vincenzo Parisi.
L’obiettivo è aprire un contatto con Cosa Nostra per verificare se c’è un modo per fermare la furia omicida.
Ma il 23 maggio 1992, sulla collinetta di Capaci, il boss Giovanni Brusca preme il telecomando che fa saltare con 500 chili di tritolo Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e tre uomini di scorta. Il Paese è nel caos.
Il 25 maggio, dopo la mancata elezione di Giulio Andreotti, e una votazione che a sorpresa ha attribuito 47 voti al giudice Paolo Borsellino, sale al Quirinale Oscar Luigi Scalfaro.
IL ROS E CIANCIMINO
L’8 giugno il Guardasigilli Claudio Martelli vara un decreto antimafia che contiene nuove misure repressive, come l’inasprimento del regime carcerario per i boss, che però non viene reso operativo.
Scatta un’autentica emergenza nazionale per salvare le istituzioni dal terrorismo mafioso. Il capitano del Ros Giuseppe De Donno “aggancia” in aereo Massimo Ciancimino, e chiede un colloquio con il padre, l’ex sindaco di Palermo don Vito.
Inizia la trattativa: l’obiettivo ufficiale è fermare lo stragismo.
Ciancimino collabora ma vuole coperture “istituzionali”. De Donno informa dei colloqui il direttore dell’Ufficio affari penali, Liliana Ferraro, che, a sua volta, ne parla a Martelli. Poi la Ferraro riferisce l’iniziativa del Ros anche a Borsellino. Il giudice non pare sorpreso: “Ci penso io”, dice.
IL PAPELLO DEL CAPO DEI CAPI
Il boss Totò Riina, il fautore della sfida stragista, esulta: “Si sono fatti sotto! ”. E prepara il cosiddetto “papello” con dodici richieste, tra cui la revisione del maxi e la legge sulla dissociazione.
Quando Giuliano Amato vara il nuovo governo dei tecnici, Vincenzo Scotti, considerato un “falco”, viene silurato. Al suo posto al Viminale arriva Nicola Mancino, sinistra Dc come Mannino, ritenuto più malleabile.
Anche Martelli rischia di saltare, ma resta alla Giustizia anche se il democristiano Giuseppe Gargani (anche lui della sinistra Dc) si candida al suo posto, promettendo di fermare Tangentopoli.
LE LACRIME DI PAOLO
Totò Riina continua a progettare omicidi.
Il killer Giovanni Brusca, accompagnato dal complice Gioacchino La Barbera, effettua sopralluoghi a Sciacca e a Palermo alle segreterie di Mannino per pianificare l’agguato che dovrà colpire il ministro siciliano.
A fine giugno, Borsellino in lacrime confida ai colleghi Massimo Russo e Alessandra Camassa: “Un amico mi ha tradito”. Il sospetto degli inquirenti è che si riferisse ad un uomo in divisa, forse a Subranni.
Agnese Borsellino racconterà ai magistrati nisseni di aver saputo dal marito che il comandante del Ros era un uomo d’onore.
E che “c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato”.
Subranni oggi ammette di aver saputo della trattativa, ma solo a cose fatte, cioè quando i colloqui tra Mori e don Vito erano già avviati.
Il 1° luglio è il giorno dell’insediamento di Mancino. Mentre si trova a Roma per interrogare Gaspare Mutolo, Borsellino viene convocato al Viminale.
Il giudice incontra il neo-ministro, anche se Mancino ammette la circostanza solo vent’anni dopo. Al ritorno, riferisce Mutolo, Borsellino è così nervoso da fumare due sigarette per volta. Il pentito riferisce anche che durante quell’interrogatorio un funzionario della Dia parla di dissociazione. E che Borsellino commenta: “Questi sono pazzi! ”.
“È FINITO TUTTO”
Un’auto imbottita di esplosivo salta in aria in via D’Amelio: muoiono Paolo Borsellino, che secondo il pentito Giovanni Brusca viene considerato un intralcio alla trattativa, e cinque uomini della scorta. È il 19 luglio 1992.
Antonino Caponnetto, l’uomo che ideò il pool antimafia (grazie ad un’intuizione di Rocco Chinnici, magistrato ucciso da Cosa Nostra nove anni prima), intervistato dalla tv pronuncia queste parole: “È finito tutto, non mi faccia dire altro”. Il nuovo atto terroristico getta lo Stato in ginocchio, ma neppure adesso la classe politica trova la forza di reagire compatta.
Il ministro della Giustizia Martelli deve firmare personalmente il decreto che istituisce il 41 bis, trasferendo i boss detenuti a Pianosa e all’Asinara, perchè — dice lui stesso — “non si trovava chi volesse firmare”.
LE BOMBE IN CONTINENTE
A dicembre finisce in carcere Vito Ciancimino, e a gennaio ’93 è la volta di Riina, il cui covo non viene perquisito.
L’arresto del capo dei capi avviene all’insaputa del ministro dell’Interno Mancino.
“L’ho saputo da una telefonata del capo dello Stato, che si congratulava con me. E anche il presidente del Consiglio non ne sapeva niente”, dirà Mancino al presidente della Corte di assise di Firenze, che commenta: “È formidabile”.
Intanto i corleonesi si affidano a Brusca e Bagarella con Provenzano più defilato, dietro le quinte. E nelle parole dei pentiti spunta Dell’Utri come “uomo-cerniera” tra mafia e Stato.
La trattativa prosegue sulla gestione del 41 bis. A febbraio ’93 salta Martelli (accusato da Silvano Larini e Licio Gelli di avere usato il Conto Protezione) e a via Arenula arriva Giovanni Conso. “Non ho mai capito che era in corso una trattativa — dice oggi Martelli — altrimenti avrei scatenato l’inferno”.
Le bombe continuano in via Fauro a Roma contro Maurizio Costanzo, che scampa all’attentato, e in via dei Georgofili a Firenze: 5 morti e 48 feriti.
A giugno il duo Capriotti-Di Maggio (quest’ultimo non ha i titoli), con la regia del presidente Scalfaro e l’input dei cappellani delle carceri sostituisce Nicolò Amato al vertice del Dap.
Il 26 giugno Capriotti propone di confermare i provvedimenti di 41 bis. E la risposta di Cosa nostra arriva a fine luglio con le bombe di Roma e Milano. Il 10 agosto la Dia mette nero su bianco l’ipotesi di una trattativa in corso.
LE REVOCHE DEL 41 BIS
E a novembre arrivano 343 revoche di provvedimenti di 41 bis decise da Conso “in assoluta solitudine”. Questa fase del dialogo si chiude il 27 febbraio del ’94 con l’arresto dei boss Giuseppe e Filippo Graviano, che segna la fine delle ostilità .
Silvio Berlusconi si insedia a palazzo Chigi, quando dietro le quinte, secondo i pentiti, Marcello Dell’Utri ha già siglato il nuovo patto di convivenza con Cosa Nostra.
Dal 1996, e per circa dieci anni, la lotta alla mafia esce dall’agenda dei segretari dei partiti, Cosa Nostra appare definitivamente sconfitta e così viene raccontata dai media.
Riemerge improvvisamente nel dicembre del 2005 con il volto di Massimo Ciancimino, che tra annunci e mezze verità comincia a parlare con i pm e racconta degli incontri tra suo padre e gli ufficiali del Ros, sollecitando la memoria a orologeria di Martelli, Conso, Ferraro, Violante, Scalfaro, Ciampi, Mancino, Amato. E dopo quattro anni di tira e molla, consegna ai magistrati il “papello”.
LO STATO PROCESSA SE STESSO
Nelle procure di Palermo e Caltanissetta lo Stato tenta di processare se stesso. Sfilano davanti ai pm ministri, parlamentari e funzionari in un festival di reticenze e di bugie.
Caltanissetta archivia, ritenendo le condotte “non penalmente rilevanti”, ma formulando pesanti giudizi morali.
Palermo va avanti ipotizzando il reato di “violenza o minaccia al corpo politico dello Stato”. Dopo quattro anni, i magistrati depositano gli atti, centinaia di intercettazioni svelano le manovre per aiutare Mancino.
Partono le interferenze del Colle per salvare la classe politica che ha trattato con Cosa Nostra, comincia il Romanzo Quirinale.
Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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