UNO DEI SOPRAVVISSUTI A BUCHA: “HANNO UCCISO UN UOMO ANZIANO, SEDUTO SU UNA PANCHINA. UN RUSSO SI È AVVICINATO E GLI HA SPARATO IN TESTA, POI SE NE È ANDATO“
“UN GIORNO MI HANNO PUNTATO LA MITRAGLIATRICE ALLA TESTA, POI HANNO SPARATO UN COLPO SINGOLO VICINO ALL’ORECCHIO SENZA COLPIRMI. INFINE MI HANNO DATO UN CALCIO IN TESTA E MI HANNO LASCIATO LÌ. C’ERANO SOLDATI BIELORUSSI, RUSSI E DELLA BURIAZIA. ERANO SQUADRE SPECIALI”
Vladislav Kozlovskiy ha visto il peggio: «Hanno ucciso un uomo anziano, uno che non conoscevo. Era davanti a me, seduto su una panchina. Un russo si è avvicinato e gli ha sparato in testa, poi se ne è andato ».
Kozlovskiy ha 28 anni e faceva il manager di un ristorante nel centro di Bucha, prima dell’occupazione. È stato ostaggio per circa un mese, assieme a un centinaio di persone, in un rifugio antimissili che è diventato la loro prigione.
È un testimone diretto degli orrori di cui adesso vediamo le prime immagini.
Lui ha visto con i suoi occhi, sa cosa vuol dire essere sull’orlo, di qua la vita, di là la morte: «Un giorno mi hanno puntato la mitragliatrice alla testa, poi hanno sparato un colpo singolo vicino all’orecchio senza colpirmi. Infine mi hanno dato un calcio in testa e mi hanno lasciato lì».
E da dove venivano queste truppe che hanno massacrato la città? Dall’accento ha riconosciuto «soldati bielorussi, russi e della Buriazia. Erano squadre speciali». Chiede se si può diffondere il suo racconto, «voglio che tutto il mondo sappia cosa ci hanno fatto».
I bambini e le donne uccisi a sangue freddo, un colpo alla nuca. Gli uomini rastrellati, un colpo alla nuca. Le fosse comuni, «hanno messo i cadaveri nella pala di un escavatore, il buco era già stato fatto, li hanno scaricati e coperti di terra».
Altri corpi sono stati seppelliti dai cittadini, «ogni giorno c’era da seppellire qualcuno, venivamo fatti uscire e lavorare. Erano tutti colpiti alla nuca, avevano le facce tagliate e altre ferite sul corpo».
Quindi, torturati e poi giustiziati, come si vede anche in un video diffuso dall’esercito ucraino, la prima perlustrazione della città dopo l’uscita degli occupanti.
Nella stanza di una caserma, la luce di una pila illumina una fila di grossi fagotti, uno ha la giacca a vento rossa, sono uomini. Hanno le mani legate dietro la schiena, ed erano in ginocchio con la faccia contro il muro, nel momento dello sparo
Una donna anziana, Tania, racconta di aver perso il marito nel caos dell’occupazione, e di averlo cercato a lungo, «infine sono andata alla Croce Rossa. Una donna mi ha detto che avevano dei cadaveri nel seminterrato, di andare a vedere lì. C’era. L’ho riconosciuto dalle scarpe e dai pantaloni. Allora sono andata a cercare un amico che mi aiutasse a girarlo, perché aveva la faccia sul cemento e non volevo che stesse così. Era lui, pieno di sangue secco. Lì dentro c’era un odore forte di morti, e una grande puzza di urina».
Un uomo spiega che «la loro artiglieria era piazzata nel cortile della scuola, il quartier generale al sesto piano di un altro edificio che era anche l’asilo dei bambini». La gente sperava che arrivassero i liberatori, «ma eravamo scudi umani, così ci hanno usato per un mese».
Sulla via Kirova, una ventina di cadaveri. Più o meno, un chilometro di morti. Questi sono stati lasciati lì, nessuno ha avuto il coraggio di andarli a prendere, e sono stata l’ultima fiammata dei russi che abbandonavano Bucha. La mitragliata finale, questa volta a raffica.
Altri corpi sono stati seppelliti nei giardini davanti alle case, perché il cimitero era troppo lontano. Seppelliti alla buona, da parenti terrorizzati, in buche scavate in fretta, di notte, nella terra gelata.
Altri testimoni raccontano di case vandalizzate, di perquisizioni alla ricerca di soldi, gioielli, cibo. Ma questo è niente, visto che alcuni soldati hanno ucciso gli abitanti di una casa, «hanno buttato i cadaveri giù dai letti e si sono messi a dormire lì».
E tornando a Vladislav, ci sono stati anche dei russi “buoni”, se così si può dire. «Il 2 marzo ci eravamo rifugiati nel bunker collettivo, che è vicino alla vetreria. Ma ci hanno trovati subito. Battevano contro le porte, alla fine abbiamo aperto. Quei primi soldati non ci hanno fatto niente, ci hanno promesso di farci uscire dopo due giorni, e dato persino le loro razioni perché mangiassimo. Il sesto giorno siamo usciti. Le donne con i bambini e gli anziani sono stati rilasciati, noi siamo rimasti in quindici, tutti uomini. Era un reparto speciale. Uomini aggressivi, violenti. Ci hanno portato via i telefoni, ci hanno fatti mettere in ginocchio ». Poi, uno a uno, fatti spogliare. «Cercavano i tatuaggi, i simboli, le rune, ma nessuno di noi li aveva».
Nei telefoni però c’erano messaggi, foto e chat sospette, «due ragazzi sono stati uccisi subito. Un altro, colpito al fianco. Gli hanno urlato “adesso corri a casa!”. E noi sopravvissuti, ci hanno picchiato, volevano sapere dov’ erano i partigiani. In quel momento mi hanno puntato la mitragliatrice alla testa». Dei quindici che erano, «siamo rimasti in sei. Ero incredulo di essere vivo, ero sotto shock». Ma libero, vivo, incredibilmente vivo.
(da la Repubblica)
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