VIAGGIO NEL CUORE DI PYONGYANG TRA SHOPPING E SMARTPHONE
FUORI CITTA’ REGNANO POVERTA’ E DESOLAZIONE
Pyongyang ieri ha indossato l’abito delle feste.
«Sono sei mesi – dice il colonnello dell’esercito popolare coreano Jo Bong-Chol – che lavoriamo e ci prepariamo alla parata».
I nordcoreani celebrano in grande stile il «Giorno del Sole» dedicato al fondatore dello Stato e suo «presidente eterno», quel Kim Il-sung nonno dell’attuale leader.
Sfilano i militari e i gioielli tecnologici e missilistici. E poi quattro ore di cori, passo d’oca, pianti di gioia e slogan della parata civile.
Le danze di massa popolari che vengono eseguite con precisione e rigore nelle grandi piazze d’armi sono un tripudio di musiche e colori gioiosi. Alle tinte accese dei lunghi abiti femminili si accompagnano bouquet di fiori finti con i quali vengono eseguite intricate e precise coreografie a tempo di musica. Il senso del regime, al di là della bellezza estetica delle danze, sta tutto qui: annullare l’individualità e promuovere un corpo sociale livellato.
Pyongyang (2,5 milioni di abitanti), è soltanto una delle dimensioni che compongono il Paese, ma indubbiamente quella più scenica e appariscente.
E ancora più quando l’idolatria della storia entra in scena. Negli ultimi tre anni è cambiata molto: interi quartieri sono stati costruiti sulle fondamenta di quelli precedenti, edifici imponenti e colorati innalzati in tempi brevi (la retorica di regime sostiene «nell’arco di un anno»), e nuovi centri ricreativi aperti per intrattenere la popolazione e «adeguarne lo stile di vita a standard contemporanei».
Nelle strade c’è più traffico di un tempo, molte più persone parlano al cellulare e nella metropolitana qualcuno gioca alla versione asiatica di «Candy Crash Saga» sullo smartphone.
Agli angoli dei quartieri sono stati aperti negozi di ogni genere e piccole edicole alimentari che un tempo non esistevano; la classe media è in crescita e incentivata a spendere quel poco che le viene retribuito oltre alle razioni mensili di base.
Tuttavia, l’apparenza di una Pyongyang evoluta e in sviluppo è presto smentita non appena ci si avventura fuori dai confini della capitale. La provincia di Pyongyang, a nord della capitale, è caratterizzata da lande desolate e paesaggi spettrali. Le strade sono in maggior parte sterrate e disastrate.
Per coprire poche decine di chilometri ci possono volere diverse ore di viaggio. I campi destinati all’agricoltura sono in prevalenza rocciosi e vengono arati con fatica, in parte a mano e in parte con l’ausilio di mucche scheletriche che ogni tanto collassano a terra e sembrano non volere più rialzarsi.
I trattori si contano sulle dita di una mano e risalgono al periodo dell’influenza sovietica, mentre non esistono sistemi d’irrigazione e i fertilizzanti scarseggiano. Anche se nel quadro di desolazione alcuni timidi ciuffi d’erba cercano di emergere dal terreno, la siccità sembra avere il sopravvento a discapito degli sforzi di una popolazione stanca ma determinata a eseguire i propri compiti.
A questa desolazione si aggiunge la sospensione, decisa a febbraio da Pechino, delle importazioni di carbone dalla Corea del Nord, per dare efficacia alle risoluzioni Onu contro i test missilistici di Pyongyang. Carbone che rappresenta il 40% dello scambio commerciale Corea-Cina. E Pechino continua a fare pressioni sul suo alleato: Air China ha annunciato che interromperà i voli Pechino-Pyongyang.
Sulle colline intorno a Hoechang, ad appena 60 chilometri da Pyongyang, nei primi Anni 50 erano state combattute alcune delle battaglie più cruente della Guerra di Corea. Su questi crinali – dove le trincee, i cannoni della contraerea e i cunicoli scavati nella roccia sono ancora visibili e rimangono pronti per il prossimo combattimento – anche il figlio maggiore di Mao trovò la morte nel 1950.
Nicola Busca
(da “La Stampa”)
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