“ROM PRIVILEGIATI PER LE CASE POPOLARI? NON E’ VERO, HANNO SOLO FAMIGLIE NUMEROSE E CI SONO PIU APPARTAMENTI GRANDI DISPONIBILIâ€
INTERVISTA ALL’ARCH. ENRICO PUCCINI, ESPERTO DEL SETTORE
“Il 70 per cento delle case popolari di Roma, costruite negli anni ’60 e nel decennio successivo, è stato pensato, in gran parte per ospitare famiglie numerose, come erano quelle italiane all’epoca. Si tratta di alloggi in prevalenza grandi che, nel rispetto della legge regionale che ne vincola l’assegnazione, devono essere date a nuclei familiari numerosi”.
Ecco il motivo per cui “c’è stata quella che, anche a causa della stigmatizzazione e di una certa strumentalizzazione, potrebbe apparire come un’accelerazione nell’assegnazione degli alloggi popolari a famiglie rom”, spiega Enrico Puccini.
Quarantanove anni, architetto, un passato da docente di progettazione architettonica all’Università “La Sapienza”, poi capo segreteria dell’assessorato alla Casa e al Lavoro di Roma Capitale ai tempi dell’amministrazione Marino, oggi Puccini affianca alla sua attività professionale l’aggiornamento di un blog dedicato alla questione alloggiativa.
A Roma tornata d’attualità in seguito alle proteste esplose in alcuni quartieri delle periferie per l’assegnazione di alcuni alloggi popolari a famiglie rom. Prima Torre Maura – dove i primi malumori esplosi con l’arrivo di 70 rom in un centro di accoglienza sono cominciati con l’arrivo in una casa del rione di una famiglia rom con undici figli – poi, in questi giorni, a Casal Bruciato.
Puccini prova a fare chiarezza, a sgomberare il campo da equivoci che rischiano di alimentare il conflitto sociale. Con una premessa: “La questione non riguarda solo Roma, ma tutta Italia”.
Quindi, Puccini, non c’è un’accelerazione nell’assegnazione degli alloggi alle persone rom?
“No, non c’è nessuno che li fa passare avanti. Come dicevo, le case popolari italiane sono state realizzate prevalentemente per accogliere nuclei familiari grandi. Nel frattempo, la dinamica demografica del nostro Paese è cambiata. Oggi chi ha la stessa struttura familiare degli italiani degli anni ’60? Immigrati e minoranze, i poveri di oggi come gli italiani che allora vivevano nelle case popolari. Ecco perchè, presentando la domanda, ottengono l’alloggio popolare. Le graduatorie scorrono male”.
In che senso?
“Ci sono ancora nuclei formati da una sola persona che attendono l’alloggio sulla base delle graduatorie relative al bando del 2000, proprio perchè mancano le case piccole. Mentre l’ultimo bando, quello del 2012, presentato durante l’amministrazione Alemanno, è ancora aperto”.
E quindi?
“Quindi, chiunque può presentare domanda, e se ha i requisiti in termini di punti, passa davanti a chi magari aspetta da anni. Le graduatorie sono inchiodate sui nuclei familiari piccoli e vanno veloci su quelli più numerosi”.
Quanti sono gli stranieri che risiedono in una casa popolare a Roma?
“Allo stato attuale è impossibile avere un dato preciso, visto che il patrimonio è suddiviso fra Comune e Ater che non rilasciano statistiche, ma possiamo, in base alle assegnazioni, fare delle proiezioni. Da 2011 sono stati assegnati 2mila alloggi che rappresentano il 2,7 per cento delle 74mila case popolari di Roma. Anche se tutti gli alloggi fossero stati assegnati a stranieri avremmo un totale di 5,3 per cento nelle case popolari. Bisogna considerare che gli stranieri a Roma dal 2011 al 2018 sono invece passati dal 10,7 al 13,4 per cento. In buona sostanza dati e proiezioni ci mostrano come il basso tasso di ricambio degli alloggi, da 250 a 500 all’anno, ha funzionato da sbarramento all’accesso degli stranieri che si sono organizzati con altre soluzioni abitative”.
Quanti sono gli stranieri in graduatoria?
“La graduatoria del comune di Roma viene pubblicata criptata, per cui il dato è impossibile da estrapolare. Però si può far riferimento ai dati nazionali diffusi da Federcasa. La maggior parte di coloro che fanno richiesta per ottenere un alloggio eÌ€ di cittadinanza italiana (54,4%), mentre il restante 45,6% eÌ€ straniero (8,2% appartenente alla Ue, 37,3% extracomunitario). Quindi la presenza è rilevante. Questo sta destando preoccupazione e ci si sta organizzando per frenare l’ingresso degli stranieri nelle case popolari”.
Cioè?
“In diverse regioni del Nord a trazione leghista, per esempio, hanno modificato i criteri per ottenere l’assegnazione innalzando il limite di residenza in Italia da tre a dieci anni. Secondo me invece bisognerebbe concentrarsi su un altro aspetto della questione”.
A cosa si riferisce?
“Innanzitutto al fatto che se non si affronta il tema dell’emergenza abitativa sarà difficile risolvere quello della rigenerazione urbana delle periferie, i luoghi in cui sono concentrate prevalentemente le case popolari. E poi si deve abbinare la rigenerazione urbana a quella umana”.
Vale a dire?
“I dati delle criticità dei quartieri si incrociano a quelli dei nuclei familiari in modo da procedere ad assegnazioni ragionate, che limitino i rischi di aggiungere disagio a disagio. In altri Paesi, penso all’Olanda, si comincia a farlo. Da noi, invece, per le assegnazioni si procede su basi quantitative, meramente numeriche. È il caso, a mio avviso di aprire una riflessione su questo punto”.
Torniamo all’emergenza abitativa di Roma. Da dove si deve cominciare per affrontare la questione?
“Dai frazionamenti. Nel 2016 consegnammo all’assessore a Casa e Patrimonio di Roma Capitale, allora Mazzillo, una ricerca realizzata dal Dipartimento di Architettura e Progetto dell’Università “La Sapienza”, iniziata ai tempi dell’amministrazione Marino, dalla quale risulta che il 72 per cento degli appartamenti grandi, superiori ai 100 metri quadrati, di proprietà del Comune è frazionabile. La Regione ha iniziato a procedere in questa direzione”.
E il Comune?
“Ci aspettiamo faccia altrettanto”.
Quindi con i frazionamenti si risolverebbe?
“Non del tutto. Si tratta di una soluzione a lungo termine, alla quale vanno abbinati altri interventi”.
Quali?
“Siccome le case popolari vengono destinate prevalentemente ai nuclei familiari cosiddetti critici servono delle politiche di integrazione. Dai dati Federcasa risulta che delle aziende che gestiscono case popolari in Italia e che tentano di attuare politiche di integrazione post assegnazione, solo una parte minima lo fa in maniera strutturale. Eppure c’è una legge del 1963 – precisamente all’art.82 – che lo prevede”.
Insomma, pare di capire, a Roma la soluzione è lontana.
“Come nel resto del Paese. E tuttavia a mio avviso, proprio per quello che sta accadendo in questi giorni e per quello che abbiamo detto circa l’opportunità di collegare il tema della casa a quello delle periferie, a Roma si potrebbe cominciare a discutere delle soluzioni possibili”.
In che modo?
“Penso a un tavolo inter-istituzionale, con Regione, Comune, sindacati, esperti e tutti i soggetti coinvolti in quella che è una sfida certo non facile, ma che non possiamo esimerci dall’affrontare”.
A proposito di soluzioni, al Campidoglio il M5S starebbe vagliando la possibilità di tagliare l’extra di 18 punti destinato, con i vecchi criteri, datati 2012, “a chi proviene dai campi rom e dai centri d’accoglienza”. Può essere una soluzione?
“Assolutamente no, è una soluzione semplicistica e simmetrica a quella delle regioni del Nord che innalzano la soglia di accesso da 3 a 10 anni. Non si affronta il problema e si tampona impedendo l’accesso a chi ne ha diritto. Oltretutto cambiare i parametri ad un bando “sempre aperto” può dare vita a numerosi ricorsi amministrativi”.
(da “Huffingtonpost”)
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