Marzo 17th, 2011 Riccardo Fucile
TENSIONE A MILANO, IN PIAZZA DELLA SCALA, DECINE DI CONTESTATORI NON ORGANIZZATI SI INDIGNANO PER L’UFFICIO MOBILE DEL CIALTRONE PADANO CHE CONTESTA L’UNITA’ D’ITALIA… GRIDANO “FUORI LA LEGA DALLO STATO” E INTONANO L’INNO DI MAMELI…A PROTEZIONE DEL PADAGNO SI DEVONO SCHIERARE I CARABINIERI IN ASSETTO ANTISOMMOSSA, IL BANCHETTO VIENE RIMOSSO E SALVINI MESSO IN SALVO DAGLI “ITALIANI” CHE LUI DISPREZZA
Momenti di tensione in piazza della Scala a Milano, nel giorno dei festeggiamenti per l’Unità d’Italia, dove il capogruppo della Lega al Comune, l’eurodeputato Matteo Salvini, ha organizzato “un ufficio mobile dove sta lavorando per raccogliere le segnalazioni dei cittadini”: di fatto, un modo per contestare la decisione di tenere chiusi gli uffici pubblici nel giorno della festa.
La solita provocazione del ciarpame leghista e secessionista che “con il tricolore si pulisce il culo”.
Ma stavolta è successo qualcosa di inedito: una trentina di cittadini hanno contestato animatamente il lavoro di una decina di esponenti e sostenitori del Carroccio al grido di “buffoni”, “fuori la Lega dallo Stato” e intonando l’Inno di Mameli.
Una protesta pacifica ma molto accesa, che ha costretto la polizia a schierare di fronte al banchetto un cordone di carabinieri in assetto antisommossa perchè la situazione stava per degenerare.
I contestatori erano semplici cittadini, giovani e anziani, che si sono via via ammassati all’ingresso della Galleria Vittorio Emanuele, dove si trova il banchetto, dopo le prime rimostranze verbali di alcuni milanesi che indossavano bandiere e coccarde tricolori.
Quindi non “centri sociali” o “comunisti” come delira solitamente Salvini, quando non è impegnato in rutti o in canzoni razziste contro i meridionali, ma cittadini di passaggio (come conferma anche la foto che pubblichiamo).
Gente che ha cominciato a capire come ci si deve regolare per liberarsi della fogna razzista che sta inquinando le coscienze del nostro Paese, al di là delle appartenenze di origine.
Dopo momenti di tensione le forze dell’ordine hanno proceduto con la rimozione del banchetto e Salvini e suoi scherani sono stati protetti dalle forze delll’ordine “italiane” durante la ritirata.
Ma il meglio Salvini doveva ancora darlo.
Ha infatti poi commentato che “questi contestatori si dovrebbero vergognare a usare il tricolore in quel modo”, definendoli squadristi.
Certo, lui il tricolore è notorio come ama usarlo, al posto della carta igienica.
Lui che gira con la maglietta “Padania non è Italia” è solo un clandestino in Italia, quindi non avrebbe diritto a percepire nessun stipendio da parlamentare italiano in Europa, nè gettoni comunali a Milano.
E la prossima volta, le forze dell’ordine “dei terroni italiani” non è giusto che proteggano un provocatore straniero.
Lo respingano o lo affoghino tramite Gheddafi, come Salvini ama fare con gli immigrati.
Il vero clandestino in Italia è solo lui e la sua accozzaglia padagna.
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Marzo 17th, 2011 Riccardo Fucile
APPLAUSI PER NAPOLITANO E FINI, FISCHI ANCHE PER LA RUSSA E LA GELMINI…IL PREMIER CONTESTATO DURANTE TUTTI SUOI PASSAGGI… OGGI CELEBRAZIONE DEI 150 ANNI DELL’UNITA’ ALLA CAMERA IN FORMA UFFICIALE….STASERA IL “NABUCCO” DI RICCARDO MUTI ALLA PRESENZA DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, insieme alle più alte cariche dello Stato, ha reso omaggio stamane all’Altare della Patria nel giorno delle celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia.
Insieme al Capo dello Stato erano presenti i presidenti di Senato e Camera, Renato Schifani e Gianfranco Fini, oltre che il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi.
Presente anche il presidente della Corte Costituzionale, Ugo De Siervo, che in queste settimane non ha lesinato stoccate al premier per le sue parole sulla Consulta.
Dopo aver passato in rassegna lo schieramento delle forze armate, il Capo dello Stato ha intonato l’inno nazionale accompagnato dalla banda della Polizia.
A chiudere la cerimonia, il volo delle Frecce Tricolori.
Fischi e cori di disapprovazione hanno accolto questa mattina all’uscita Silvio Berlusconi, dopo la visita al Museo della Repubblica Romana, al Gianicolo, nel quadro delle celebrazioni per il 150esimo dell’Unità d’Italia.
Praticamente senza distinzioni, a quanto hanno potuto constatare i cronisti presenti, la folla che si era raccolta nello slargo antistante il piccolo museo di Monteverde ha contestato il presidente del Consiglio, con slogan ritmati “dimissioni, dimissioni”, proseguiti anche quando il corteo di auto blu si è allontanato, al termine dell’impegno.
Stessa accoglienza quando il premier è giunto alla Basilica di Santa Maria degli Angeli. Il presidente del Consiglio è stato fischiato in piazza della Repubblica, appena sceso dall’auto per entrare nella chiesa dove ad attenderlo c’era il Capo dello Stato per assistere insieme ad altre autorità alla celebrazione religiosa presieduta dal cardinal Angelo Bagnasco.
“Dimettiti, dimettiti” è stato lo slogan gridato da un gruppo di cittadini.
Altri fischi e un ‘vergogna, vergogna’ sono stati urlati anche quando Berlusconi è entrato nella Basilica.
Al termine della cerimonia religiosa, il Cavaliere è stato l’unico tra le autorità ad uscire dal retro della basilica.
Diversi fischi sono stati indirizzati nei confronti del ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, appena uscita sulla piazza.
Anche in questa occasione, invece, come al Gianicolo la gente ha rivolto una calorosissima accoglienza e un’ovazione al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, salutato da applausi e incitamenti ad ogni tappa della lunga giornata romana.
Gli incitamenti al Capo dello Stato nelle varie tappe della celebrazione hanno un po’ fatto ombra alle esternazioni odierne del premier che, comunque, non so mancate. “Vado avanti, non lascio il paese in mano ai comunisti“, è stata la frase pronunciata da Silvio Berlusconi ad un gruppo di cittadini presenti alle celebrazioni dell’Unità d’Italia a Piazza Venezia.
A poche centinaia di metri da piazza Venezia, a Montecitorio, fervono i preparativi per le celebrazioni del pomeriggio con il Presidente Napolitano. Proiezioni di luci tricolore e simboli che ricordano la bandiera si vedono un po’ dappertutto nel palazzo che ospita il Parlamento.
Il presidente della Camera Gianfranco Fini si è complimentato con gli organizzatori “è’ tutto molto bello” ma non entra nella polemica sui leghisti “abbiate pazienza, parlerò dopo” esclama ai cronisti.
Intanto fuori dal palazzo, nella Galleria Colonna di Largo Chigi, un gruppo di ragazzi ha organizzato un flash mob: “C’è una festa alla quale non siamo stati invitati” è lo slogan di uno striscione srotolato da un gruppo di giovani precari.
L’Unità d’Italia è stata celebrata anche da molti dei nostri connazionali all’estero.
I frati cappuccini in missione nel centro-Africa hanno voluto inviare alle redazioni dei giornali italiani un loro messaggio: ”Cappuccini d’Italia. Fratellidel mondo. Auguri, Italia, Grande Paese”.
Una didascalia su una grande foto che ritrae sullo sfondo una capanna in paglia, a Bouar, nella Repubblica Centrafricana e cinque frati cappuccini che, sorridenti, innalzano la bandiera dell’Italia per festeggiare la giornata dell’Unità .
Anche in Cina è stato ricordato il 150mo anniversario dell’unità d’Italia con una serie di iniziative organizzate dall’ambasciata Italiana a Pechino. Convegni, proiezioni di film a tema, concerti sono stati allestiti a Shanghai e nella vicina Suzhou, dove sarà la cucina italiana a farla da padrone.
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Marzo 17th, 2011 Riccardo Fucile
INDAGINE DEMOS: POPOLO ITALIANO COESO, SOLO IL 7% DEI CITTADINI PENSA CHE L’UNIFICAZIONE AMMINISTRATIVA SIA STATA UN ERRORE…ANCHE TRA GLI ELETTORI DELLA LEGA IN SETTE SU DIECI PREVALE LO SPIRITO UNITARIO: ISOLATI I CAPIBASTONE
Dopo 150 anni l’Unità dell’Italia pare acquisita.
Riconosciuta dagli italiani, senza grandi problemi, insieme ai simboli e agli avvenimenti storici che la contrassegnano.
Non era scontato, anzi: le polemiche sollevate dalla Lega e – per riflesso – dalle frazioni “neoborboniche” del Sud, sembravano allargare le distanze che attraversano il Paese.
Trasformando le differenze in divisioni.
Ma i dati del sondaggio condotto da Demos (per Intesa Sanpaolo) disegnano un ritratto molto diverso.
Quasi il 90% degli italiani (intervistati nel corso dell’indagine) considera in modo positivo la conquista dell’Unità .
Più specificamente, il 56% la giudica “positiva” e il 33% “molto positiva”.
Solo il 7% guarda l’Unità italiana con atteggiamento di segno negativo. È un sentimento condiviso dovunque. Le differenze territoriali sono minime.
Per cui lo spirito unitario appare meno esteso nel Nord.
Ma solo “un po’”.
Anche tra gli elettori della Lega, per quanto più circoscritto, raggiunge il 70%. La ragione di un orientamento così positivo, nonostante le polemiche, probabilmente, sta proprio nelle polemiche.
Nel dibattito acceso – e continuo – suscitato negli ultimi mesi intorno all’Unità e ai suoi simboli. Nella catena di provocazioni piccole e medie – lanciate dalla Lega e dai suoi amministratori.
“Va pensiero” cantato nelle cerimonie invece dell’Inno di Mameli. I vessilli regionali invece del – o accanto al – Tricolore.
Poi l’accostamento continuo del federalismo all’indipendenza del Nord.
Insomma, una sequenza di sfide e di piccoli strappi che hanno prodotto l’esito, non si sa quanto voluto, di rafforzare il sentimento unitario, insieme ai simboli che lo evocano.
Agendo da spot emozionali e promozionali, invece che da disincentivi.
Un fenomeno molto simile si era verificato agli inizi degli anni Novanta, quando la Lega lanciò la sua campagna indipendentista, che sfociò, nel 1996, nella marcia “secessionista” lungo il Po.
Per marcare il confine padano rispetto all’Italia.
Ebbene, mai come allora l’orgoglio e l’identità nazionale assunsero proporzioni così ampie.
E il sostegno all’unità italiana apparve largo come mai prima di allora.
Lo stesso orientamento che emerge in questa fase, in questi giorni.
Tutti gli italiani, o quasi, convinti dell’importanza della conquista unitaria. Convinti che sia importante riconoscersi italiani.
Anche tre elettori della Lega su quattro.
Evidentemente, leghisti senza essere padani.
Allo stesso modo e allo stesso tempo, è significativo il valore attribuito a eventi e simboli “unitari”.
Altrimenti e altre volte sottovalutati. Se non criticati apertamente.
La Costituzione, il Risorgimento. E ancora, l’Inno di Mameli, il Tricolore.
Gli italiani guardano con ammirazione i Padri della Patria: Camillo Benso conte di Cavour, Giuseppe Mazzini e, per primo, Giuseppe Garibaldi.
Spesso “deplorato” dai nordisti, dai sudisti, in qualche misura, anche dai papalini.
Per aver “unificato” l’Italia. Il Nord e il Sud. Figura eroica, in camicia rossa.
Ed è interessante osservare come l’ammirazione degli italiani si allarghi anche ad alcuni tra i “fondatori” e i leader politici della Prima Repubblica. Democristiani ma anche comunisti. Alcide De Gasperi ed Enrico Berlinguer, soprattutto. E, per primo, Aldo Moro, rapito e ucciso dalle Br, anche (forse proprio) perchè aveva perseguito – quasi raggiunto – lo “storico compromesso” fra i due partiti di massa che avevano fondato e accompagnato l’Italia repubblicana.
Certo, non bisogna pensare che il disincanto nazionale, all’improvviso, sia scomparso.
Rimpiazzato da un orgoglio inedito. Sarebbe troppo.
Intanto, l’atteggiamento verso l’ultima fase della Prima Repubblica è molto più critico. Craxi, lo stesso Andreotti sono guardati con diffidenza.
Associati a Tangentopoli. Percepita come una rivoluzione mancata, più che incompiuta.
La storia nazionale, per molti italiani, è come fosse finita allora.
Da lì inizia il declino. Che riapre la frattura nei confronti delle istituzioni e della sfera pubblica.
L’orgoglio nazionale, per questo, si indirizza, più ancora di un tempo, su aspetti che riguardano le tradizioni sociali e locali.
La cultura e l’arte.
Ci si dice orgogliosi del nostro patrimonio artistico, delle bellezze del nostro territorio, della nostra cucina, della moda, del cinema.
Del nostro stile e del nostro modo di vita.
Ma molto meno – anzi, quasi per nulla – della politica e dei politici.
Insomma, gli italiani si sentono uniti dalla loro capacità di “fare” e inventare, di reagire alle difficoltà . Ma da soli. Senza lo Stato e senza le istituzioni. Di cui si apprezza la storia, non il presente.
Da ciò il significato riconosciuto alla Costituzione, di cui si discute molto, oggi, ma che è stata scritta molto prima. Dopo la guerra.
Da ciò, soprattutto, il grande valore riconosciuto alla ricostruzione degli anni Cinquanta e Sessanta. Un periodo emblematico, quasi una bandiera.
L’epoca in cui il Paese riuscì a risollevarsi dal baratro in cui l’aveva gettato la guerra. A “ricostruire”, o meglio, a “costruire” un’economia che prima non esisteva. A conquistare lo sviluppo, prima, il benessere, poi. In altri termini: a inventare un futuro nuovo e diverso rispetto al passato.
Oggi, invece, anche l’orgoglio suscitato dagli imprenditori e dall’economia appare timido. Conseguenza evidente di questa fase di crisi.
Insomma, echeggiando Spinoza, l’orgoglio nazionale appare una “passione triste”.
Rispetto a 10 anni fa, infatti, gli italiani, si sentono più divisi e infelici.
Perfino meno solidali.
Ammettono un ulteriore declino dello spirito civico.
Eppure scommettono che fra 10 anni il Paese sarà ancora unito, in un’Europa ancora unita.
Scommettono che si canterà ancora l’inno di Mameli.
Che il Tricolore continuerà a sventolare.
Nonostante lo Stato e le leggi.
Nonostante la crisi economica.
E se si sentono frustrati dal presente e dal passato recente. Se il futuro è fuggito. Allora si rifugiano nel privato e nella memoria. Nei miti della storia. Questo Paese disincantato e disilluso.
E, nonostante tutto, unito.
Questo Paese di “italiani nonostante”.
Ilvo Diamanti
(da “La Repubblica“”)
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Marzo 17th, 2011 Riccardo Fucile
IMPOSTA DA UNA RISTRETTA CERCHIA DI INTELLETTUALI DISTANTI DAL POPOLO, COMBATTUTA DA POTENZE STRANIERE, AI DANNI DEL SUD DEPREDATO… RIPERCORRENDO LA STORIA DI UN SUD EVOLUTO E DI UN NORD INDEBITATO
Nella prima metà dell’800, l’Italia centro settentrionale era divisa in una moltitudine di statarelli arretrati e in profondo ritardo sulla rivoluzione industriale che, partendo dall’Inghilterra, stava cambiano il volto dell’Europa.
Nel sud d’Italia la situazione era molto diversa.
Il meridione, dopo essere stato faro di civiltà con la Magna Grecia prima e la Roma Imperiale poi, attraversò un periodo di decadenza causato dalle continue dominazioni straniere e le successive vessazioni dei vicerè spagnoli.
La rinascita del sud avvenne nel 1816 con la costituzione del Regno delle Due Sicilie, uno Stato italiano del tutto indipendente retto da sovrani italiani che riprese il cammino di modernizzazione e di progresso culturale avviato da Federico II, il più grande imperatore che l’Italia abbia mai avuto dai tempi di Roma.
Sotto la dinastia dei Borboni (a tutti gli effetti napoletani), fu avviata la riorganizzazione delle amministrazioni locali cui fu data ampia autonomia (antesignana del federalismo municipale con cui oggi si baloccano i leghisti), fu dato grande impulso all’industria sia metallurgica che cantieristica, all’agricoltura, alla pesca ed anche al turismo, segno di un diffuso benessere.
Le ferrovie, inventate nel 1820, ignote in Italia, fecero la loro prima apparizione a Napoli (1839).
Nel 1837 arrivò il gas e nel 1852 il telegrafo elettrico.
La riforma agraria pose fine alle leggi feudali e permise di bonificare paludi e di incrementare l’agricoltura.
Grande impulso fu dato alla cultura, all’arte e alle scienze: il teatro San Carlo, primo al mondo, fu costruito in meno di un anno.
In quegli anni sorsero il Museo archeologico, l’Orto Botanico, l’Osservatorio Astronomico, l’Osservatorio Sismologico Vesuviano, la Biblioteca Nazionale, l’Accademia delle Belle Arti, l’Accademia Militare la Nunziatella.
Scuole pubbliche e conservatori musicali erano presenti in ogni citt�
L’Università di Napoli, divenne al pari della Sorbona di Parigi, il più grande polo culturale dell’Europa.
Lo sviluppo industriale fu travolgente, con 1 milione e 600mila addetti contro il milione e 100 del resto d’Italia.
I primi ponti in ferro in Italia, opere d’alta ingegneria, furono realizzati in quegli anni.
Le navi Mercantili del Regno delle Due Sicilie solcavano i mari di tutto il mondo e la sua modernissima flotta, costruita interamente nei cantieri navali meridionali, era seconda solo a quella Inglese.
Nel 1860 contava oltre 9.000 bastimenti e nel 1818 era stata varata la prima nave a vapore italiana.
Le industrie tessili e metallurgiche si svilupparono in tutto il Regno (solo quella di Pietrarsa dava lavoro ad oltre mille operai a cui si aggiungevano i settemila dell’indotto).
Nel Regno delle Due Sicilie la disoccupazione era praticamente inesistente e così l’emigrazione (per tornare a questa situazione bisognerà attendere gli anni trenta del ‘900).
Gli sportelli bancari, altro segno di sviluppo economico, erano diffusi in ogni paese. E’ qui che videro la luce i primi assegni.
La Sicilia, la Campania ed il basso Lazio erano ricchissimi di reperti archeologici etruschi, greci e romani che affiancati da musei e biblioteche diedero un impulso alla costruzione di alberghi e pensioni per accogliere i numerosissimi visitatori.
Sorsero così le prime agenzie turistiche italiane.
Carlo III di Borbone fondò l’Accademia di Ercolano che diede l’avvio agli scavi archeologici di Pompei ed Ercolano.
Oggi Pompei è una delle città più visitate al mondo.
La sanità non era da meno, con oltre 9mila medici usciti dalle Università meridionali che operavano in ospedali e ospizi sparsi in tutto il territorio.
Il Regno delle Due Sicilie poteva vantare la più bassa mortalità infantile d’Italia.
Le strade erano sicure e la mafia, che soprattutto oggi affligge il sud e non solo, non esisteva neppure come parola.
Dal punto di vista amministrativo, il Regno del Sud godeva ottima salute, non a caso la Borsa di Parigi, allora la più grande al mondo, quotava il Regno al 120 per cento, ossia la più alta di tutti i Paesi.
Nella conferenza internazionale di Parigi nel 1856 fu assegnato al Regno delle Due Sicilie il premio di terzo paese del mondo, dopo Inghilterra e Francia, per lo sviluppo industriale.
Come mai allora Garibaldi con soli mille uomini riuscì ad abbattere un Regno così ben organizzato e sostenuto dal suo popolo?
Per dare risposta a questa domanda dobbiamo prima capire chi fece realmente L’Unità d’Italia.
A partire dai fratelli Bandiera, che sbarcati a Cosenza il 16 giugno 1844 per organizzare la sollevazione popolare furono invece accolti dai forconi dei contadini, tutti i tentativi di insurrezione popolare, dalla Repubblica romana del 1849 di Mazzini ai moti carbonari, ebbero risultati effimeri perchè il popolo era del tutto assente e disinteressato (a parte qualche malessere che sfociava in deboli rivolte).
Al nord, dominato dagli austriaci, l’insofferenza era invece marcata, ma per motivi economici e non certo per idealismo patriottico.
Di Italia Unita si parlava solo nei ristretti circoli intellettuali liberali e nei palazzi della politica piemontese.
Il minuscolo regno dei Savoia era infatti smanioso di allargare i suoi confini e di contare sullo scacchiere europeo.
La prima e unica guerra risorgimentale condotta in prima persona dai piemontesi contro l’Austria – comunque affiancati da regolari e volontari di altri stati italiani, tra i quali ben 16 mila napoletani guidati da Guglielmo Pepe – si trasformò in un disastro per le truppe sabaude.
La seconda guerra d’indipendenza che portò all’annessione della Lombardia fu vinta grazie all’apporto della Francia di Napoleone III che a Magenta il 4 giugno 1859 sconfisse gli austriaci costringendoli alla resa.
Al generale francese Patrice De Mac Mahon, artefice della vittoria, a Magenta è stato – giustamente – dedicato un monumento.
La terza guerra per la conquista del Veneto fu vinta grazia agli accordi con la Prussia di Bismarck.
La condotta delle truppe sabaude fu deludente e ancor di più quella della marina sonoramente battuta dagli austriaci nella battaglia di Lissa.
Anche la tanto mitizzata presa di Roma avvenne grazie agli stranieri e non certo per il valore dei soldati piemontesi.
I bersaglieri del generale La Marmora poterono infatti attraversare trionfanti la Breccia di Porta Pia e sconfiggere i pochi soldati svizzeri posti a protezione del Papa solo perchè seppero approfittare dei rovesci militari della Francia contro la Germania che costrinsero Napoleone III nel 1870 ritirare le sue truppe a difesa dello Stato Pontificio.
Le Guerre d’Indipendenza furono pertanto vinte più dall’abile diplomazia di Cavour che dal sangue italiano e, cosa ancor più deprimente, senza alcun coinvolgimento popolare.
A Parte le gloriose cinque giornate di Milano, fatto rimasto sostanzialmente isolato.
Riunito sotto la corona Sabauda quasi tutto il nord, i Savoia volsero lo sguardo al ricco e prospero Regno del Sud contro il quale attivarono, ancor una volta, la loro spregiudicata diplomazia per ottenere il sostegno dell’Inghilterra.
L’Inghilterra, che vedeva del Regno delle Due Sicilie un pericolosissimo concorrente marittimo, fu ben felice di assecondare le mire espansionistiche piemontesi.
Si attivarono sopratutto i circoli massonici inglesi, a cui erano affiliati i padri del risorgimento da Mazzini a Garibaldi e lo stesso Cavour, per fornire quegli enormi finanziamenti necessari per corrompere generali e ammiragli borbonici e spingerli al tradimento.
Una cifra enorme fu stanziata a tal scopo da Albert Pike, Gran Maestro Venerabile della massoneria di Londra, e da Lord Palmerson Primo Ministro della Regina Vittoria.
Ma erano veramente mille i garibaldini? Certamente.
Ma ogni giorno sbarcavano sulle coste siciliane migliaia di soldati piemontesi congedati il giorno prima e protetti dalla flotta Inglese dell’ammiraglio Mundy, a questi si unirono i soldati borbonici passati al nemico per denaro insieme ai loro generali Landi e Anguissola.
Da mille che erano i garibaldini divennero in pochissimi giorni oltre 20.000, una vera e propria armata d’invasione sotto mentite spoglie.
Infatti non vi fu alcuna dichiarazione di guerra.
Il 13 febbraio 1861 cadeva la fortezza di Gaeta, ultimo baluardo borbonico. Per tre mesi, tanto durò l’assedio dell’isola, la città fu martoriata dai bombardamenti navali.
Eroico fu Francesco II, il giovane Re napoletano, ed eroica fu la sua consorte Regina Sofia e l’intera popolazione che si strinse attorno ai loro sovrani nella strenua difesa della loro libertà .
Ignobile fu invece il comportamento del generale piemontese Cialdini che non esitò un istante a scagliare oltre 160 mila bombe per massacrare l’intera popolazione su ordine di Cavour.
Con la capitolazione di Gaeta finì il glorioso Regno delle Due Sicilie che aveva fatto dell’Italia meridionale uno Stato autonomo ed indipendente, prospero e moderno.
E da qual giorno iniziò l’inesorabile declino del sud reso possibile dalla incapacità e disinteresse dello Stato unitario prima e post fascista poi.
Nel 1860 — e qui arriviamo al vero motivo che spinse lo statarello piemontese a inventarsi l’Unità d’Italia — il debito pubblico del Piemonte ammontava alla somma di oltre un miliardo di lire di allora, una voragine spaventosa che il piccolo Stato Sabaudo con i suoi 4 milioni di abitanti mai e poi mai sarebbe riuscito a colmare per l’arretratezza della sua economia montana.
Nel 1861, quando avvenne l’unificazione del Nord con il sud, il Patrimonio aureo dell’Italia Unita era di 668 milioni di lire oro.
Ebbene di questi ben 443 proveniva da Regno delle Due Sicilie e solo 8 alla Lombardia (il resto dagli altri stati annessi).
Questa enorme massa di denaro proveniente dal sud permise di rimpinguare le disastrate casse del Regno di Savoia e a dare vigore alla sua asfittica economia.
Appena sbarcato in Sicilia il primo obiettivo di Garibaldi fu…la zecca di Palermo per impossessarsi dei 5 milioni di ducati in oro depositati.
Nei dieci anni successivi i piemontese effettuarono un vera e propria opera di spogliazione.
Svuotarono le casse comunali, quelle delle banche, saccheggiarono le Chiese e smontarono i macchinari delle fabbriche per rimontarli al nord. Agevolati in questo dai molti notabili meridionali subito accasati, per denaro e potere, alla corte del nuovo sovrano.
Nelle casse piemontesi finirono inoltre gli enormi proventi dalla vendita dei beni ecclesiastici confiscati e del demanio borbonico.
Lasciando per sempre il suo Regno Francesco II disse profeticamente: “il nord non lascerà ai meridionali nemmeno gli occhi per piangere”.
Quello che il giovane Re napoletano non poteva prevedere era l’ondata repressiva, i massacri di contadini, la fucilazione dei renitenti alla leva, i villaggi bruciati, le brutali violenze con tanto di esposizione di teste mozzate ad opera della soldataglia piemontese che per dieci anni avrebbero martoriato il suo ex-Regno.
Spiace evidenziarlo, ma a macchiarsi le mani di sangue innocente furono in gran parte i bersaglieri.
Alcuni giornali stranieri (la censura del governo al riguardo era rigorosa) pubblicarono delle cifre terrificanti nonostante fossero sottostimate: nel solo primo anno di occupazione vi furono 8.968 fucilati, 13.529 arrestati in gran parte deportati nei campi di concentramento e “rieducazione” al nord, 6 paesi dati alle fiamme, 12 chiese saccheggiate.
Complessivamente si parla di un milione di contadini uccisi e decine di villaggi rasi al suolo.
La chiusura per decreto di un numero imprecisato di scuole e di Chiese. (Vittorio Gleijeses: La Storia di Napoli, Napoli 1981 – Isala Sales: Leghisti e sudisti, Laterza Editore 1993 — Antonio Ciano: I Savoia ed il massacro del sud, ed. Granmelo, Roma 1996).
Antonio Gramsci, nato in Sardegna ma originario di Gaeta, parlando della questione meridionale ebbe a dire”…lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori compiacenti tentarono di infamare con il marchio di briganti”.
I briganti per l’appunto…tutti i figli maschi erano obbligati, pena la fucilazione, a prestare il servizio militare per sparare ai loro fratelli del sud.
Per chi si rifiutava non restava altra via che quella dei monti, braccati con l’infamante etichetta di “briganti”.
Tanta ignominia ai danni del sud ha provocato delle profonde ferite che ancora oggi stentato a rimarginarsi, alimentate in questo dalle posizioni di supponenza etnica e di antimeridionalismo del partito di Bossi.
Per tentare di unire veramente l’Italia, per superare i contrasti con la Chiesa e per sradicare il fenomeno mafioso bisognerà attendere l’avvento del Fascismo: il Concordato del ’29 pose fine al contenzioso con la Chiesa di Roma, il grande programma di opere pubbliche e di bonifica diede lavoro ai giovani meridionali e la politica repressiva del Regime, con il Prefetto Mori, costrinse la mafia ad emigrare in America (per poi tornare al seguito delle truppe di liberazione).
Oggi festeggiamo il centocinquantesimo anniversario della proclamazione del Regno d’Italia (e non dell’unità d’Italia, come viene erroneamente detto, che avverrà solo dopo la Prima Guerra mondiale e con l’annessione di Fiume del ’24).
Brindiamo pure, caro Presidente della Repubblica, ma non dimentichiamoci della Storia, se volgiamo guardare al futuro.
Nonostante tutto: Viva L’Italia, la nostra Patria!
Gianfredo Ruggiero
presidente del Circolo Culturale Excalibur
Varese
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Marzo 17th, 2011 Riccardo Fucile
QUERELATI DAL RESPONSABILE DELLE POLITICHE ENERGETICHE DEL CARROCCIO, I GIORNALISTI SONO STATI ASSOLTI PERCHE’ IL FATTO NON SUSSISTE…REPORT AVEVA RIFERITO DI UNA LETTERA DEL DEPUTATO AL RESPONSABILE DELLA SOCIETA’ CHE SI OCCUPA DELLA DISMISSIONE DELLE VECCHIE CENTRALI NUCLEARI IN CUI SI LAMENTAVA CHE NON FOSSERO STATE CHIAMATE SOCIETA’ DELLA ZONA…DOPO QUALCHE SETTIMANA VENNERO STANZIATI 200.000 EURO A FAVORE DI UNA SOCIETA’ CON CUI POLLEDRI AVEVA RAPPORTI
Il tribunale di Piacenza ha assolto perche’ il fatto non sussiste, il giornalista di Report Sigfrido Ranucci, che era accusato di diffamazione, e la conduttrice Milena Gabanelli, cui era contestato l’omesso controllo, che erano stati querelati dal parlamentare della Lega Nord Massimo Polledri, per una puntata del 2 novembre 2008 sulla Sogin e sul nucleare a Caorso (Piacenza).
L’intera vicenda giudiziaria ha come fulcro una lettera del gennaio 2004 a cui si fece riferimento durante la trasmissione televisiva e indirizzata dall’onorevole Massimo Polledri (allora responsabile per le politiche energetiche della Lega Nord) al generale Carlo Jean, allora commissario straordinario della Sogin (la societa’ che si occupa della dismissione del nucleare in Italia).
Missiva indirizzata anche al ministro Giulio Tremonti, a Umberto Bossi e a due sottosegretari.
Il parlamentare scrive a Jean lamentandosi che non sono stati investiti soldi con societa’ di comunicazione presenti sul territorio.
Report dimostro’ come pochi mesi dopo vennero stanziati 200.000 euro alla Integra Solution di Forli’, societa’ con la quale il parlamentare piacentino risulta aver avuto rapporti.
Una circostanza per la quale Polledri si senti’ diffamato.
Ipotesi, pero’, respinta dal tribunale piacentino.
La decisione del giudice Adele Savastano e’ arrivata al termine di un’udienza durata circa un ora e mezza, ma dopo una camera di consiglio brevissima (10 minuti).
Presenti in aula il pubblico ministero Ornella Chicca, Polledri come parte civile (assistito dall’avvocato Guido Gulieri) e un pool di avvocati della Rai a difesa dei giornalisti di Report, guidato da Caterina Malavenda.
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Marzo 17th, 2011 Riccardo Fucile
LA FERRARIO ERA STATA TOLTA DAL TG1 DA MINZOLINI PER RAGIONI “POLITICHE”…IL RICORSO HA DATO RAGIONE ALLA GIORNALISTA CHE AVREBBE DOVUTO QUINDI ESSERE REINTEGRATA, MA IL DIRETTORE FA IL FURBETTO… ALTRA CAUSA IN VISTA PER LA RAI
Ricollocata alle cinque del mattino, in «un ruolo già occupato» e senza nessuna possibilità di conduzione.
Tiziana Ferrario annuncia una nuova battaglia legale contro il direttore del Tg1, Augusto Minzolini.
Soprattutto dopo che quest’ultimo ha deciso di mandarla all’edizione dell’alba del telegiornale, senza parlarne con la diretta interessata e «senza tenere conto delle due decisioni del tribunale».
Da lunedì 14 marzo, Minzolini ha assegnato ufficialmente la giornalista «nell’ambito della redazione Uno Mattina del Tg1 con la qualifica di caporedattore» (dove già ci sono un caporedattore e un caporedattore centrale).
Una mansione che, secondo il direttore, «costituisce una promozione». Mentre per la Ferrario no.
È per questo che dopo la comunicazione ufficiale, la giornalista gli ha risposto attraverso una lettera aperta inviata a tutti i colleghi.
Minzolini «ancora una volta non ha rispettato l’ordinanza dei giudici», scrive il volto noto del Tg1, «e non ha concordato con me il mio utilizzo all’interno della redazione».
Nel frattempo, continua, «eseguirò per senso di disciplina la decisione del direttore».
Ma avverte anche che farà valere i suoi diritti in ogni sede, «anche rispetto agli insulti ricevuti da Minzolini in passato e dopo la nuova ordinanza che, ribadisco, sono pronta a mettere a disposizione di tutti per porre fine alle strumentalizzazioni di chi ama la disinformazione».
Il Comitato di redazione del telegiornale si è schierato al fianco della giornalista e ha lamentato il rifiuto del direttore a un incontro sulla questione. «Il provvedimento è stato adottato d’imperio, senza alcuna consultazione della collega», hanno scritto Alessandro Gaeta e Alessandra Mancuso.
«Il sapore della decisione del direttore appare punitivo e non rispettoso del percorso professionale della collega che, comunque, ha già il trattamento da caporedattore dal 1998».
Il Cdr ha chiesto al direttore anche quali saranno le nuove mansioni della Ferrario, sottolineando che «il posto di line assegnato alla collega, nella pianta organica della redazione del Mattino, di fatto non esiste, essendoci già un caporedattore (Damosso) e un caporedattore centrale (Mingoli)».
Lui, Minzolini, non si scompone più di tanto.
Parla di situazione «grottesca», ricorda che «la Ferrario è stata in video per 28 anni, tre generazioni di conduttori».
«Avevo già fatto alla collega tre proposte importanti sul suo ritorno al telegiornale», racconta.
«Le avevo chiesto di fare la super-inviata per andare a coprire gli eventi più importanti del momento, dalla Russia alla Libia, ma ha declinato. Poi le avevo proposto di fare la corrispondente da Madrid, ma mi ha risposto che non poteva. Alla fine le ho chiesto di andare a fare il caporedattore a Milano, ma ha detto di no».
«A quel punto — continua il direttore — ho deciso in modo unilaterale, perchè non si può continuare con questo tira e molla. La Ferrario non può ricorrere a un diritto di veto che non capisco da dove gli arrivi».
La diretta interessata, però, nega tutto e dice che le tre proposte non le sono mai state fatte al momento della sua rimozione (30 marzo 2010). Una rimozione ha descritto come «mai concordata».
Tiziana Ferrario ha dovuto lasciare la conduzione del Tg1 il 30 marzo 2010. Da lì è iniziata una battaglia processuale.
Il 28 dicembre scorso il Tribunale di Roma, sezione Lavoro, le ha dato ragione e ha ordinato alla Rai di reintegrare la giornalista nelle mansioni di conduttrice del Tg1 delle 20 e di inviata speciale per i grandi fatti.
Il giudice aveva parlato di «grave lesione della sua professionalità per motivi di discriminazione politica».
Dopo il ricorso della Rai, è arrivato il rigetto, sempre del Tribunale, lo scorso 7 marzo.
La Ferrario, ha ribadito il giudice, deve tornare in video.
Leonard Berberi
(da “Il Corriere della Sera“)
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