Luglio 5th, 2013 Riccardo Fucile
IL TRIBUNALE RIVELA: “RICONSEGNATE CON UN BLITZ DI 50 UOMINI DELLA DIGOS AL DITTATORE DEL KAZAKISTAN NAZARBAYEV”… CHE RUOLO HA AVUTO ALFANO NELL’OPERAZIONE GESTITA DAL MINISTERO DEGLI INTERNI, INVECE CHE DA QUELLO DEGLI ESTERI E DELLA GIUSTIZIA, NEL FORNIRE IN OSTAGGIO AD UN DITTATORE, AMICO DI BERLUSCONI, LA FAMIGLIA DEL PRINCIPALE OPPOSITORE AL REGIME?
Ora una sentenza del tribunale di Roma lo dice chiaramente: non c’era nessuna irregolarità
nel passaporto della moglie di Mukhtar Ablyazov, principale oppositore del regime dittatoriale di Nursultan Nazarbayev in Kazakistan, paese ricco di materie prime e strategico per gli interessi dell’Eni.
Eppure la donna è stata estradata dall’Italia. In tutta fretta, senza attendere verifiche sul documento.
Tanto da far gridare gli avvocati difensori “alla extraordinary rendition, ossia cattura illegale”.
Le ultime novità sulla vicenda dell’estradizione di una donna e di una bambina di sei anni, prelevate contro la loro volontà nella loro residenza di Casal Palocco (Roma) e rispedite in tutta fretta il 31 maggio in quel Kazakistan dove Ablyazov è il principale oppositore del regime, aprono risvolti politici che toccano direttamente il governo. Anche perchè nella sentenza i giudici scrivono che la “velocità con cui si è provveduto al rimpatrio”, in una situazione così delicata, “lascia perplessi”.
Tra i vari documenti c’è anche la nota verbale dell’ambasciata kazaka, in cui si avvisava della presenza dell’oppositore politico Ablyazov a Roma.
Questa nota, il 28 maggio è stata inoltrata direttamente alla Questura di Roma (che fa capo al ministero degli Interni), e non al dicastero degli Esteri o, a livello procedurale, a quello della Giustizia.
E proprio dalla questura è partito il blitz notturno della Digos (una cinquantina di uomini armati, raccontano gli avvocati), che la notte del 29 maggio ha prelevato Alma Shalabayeva, moglie di Ablyazov.
A dimostrazione di uno scontro in atto tra il dicastero degli Esteri, che avrebbe dovuto non solo essere informato ma anche occuparsi della vicenda, e il Viminale, che — raccontano alcune fonti — dalla Farnesina accusano di aver gestito in proprio la vicenda.
All’epoca dei fatti, le prime dichiarazioni furono del ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri: “Mi sono subito informata, le procedure sono state perfette, tutto in regola e secondo legge” (cosa che come vedremo il 25 giugno il Tribunale del riesame ha smentito) e poi del ministro degli Interni Angelino Alfano, che “ha preso atto della vicenda”.
Assordante è stato invece il silenzio sulla vicenda del ministro degli Esteri Bonino, che solo giorni dopo in un’intervista a Il Messaggero definì l’incidente “anomalo”.
A quanto risulta, alla Farnesina ritengono infatti essere di essere stati scavalcati nella vicenda dal ministero degli Interni, guidato da Angelino Alfano, vicepremier, segretario del Pdl e uomo fidato di Silvio Berlusconi, grande amico del dittatore kazaco.
Tutto nel silenzio del premier Enrico Letta, che questa mattina non ha risposto a chi gli chiedeva informazioni in merito, salvo poi, in serata, pubblicare uno scarno comunicato: “Rispetto a quanto apparso sulla stampa circa la vicenda della cittadina kazaka Alma Shalabayeva, il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha immediatamente chiesto di avviare una verifica interna agli organi di Governo che ricostruisca i fatti ed evidenzi eventuali profili di criticità ”.
Inoltre, tra i vari documenti visionati, il fattoquotidiano.it ha potuto vedere l’ordinanza del Tribunale del riesame di Roma del 25 giugno che ha stabilito l’immediata la restituzione alla famiglia dei beni sequestrati nelle perquisizioni avvenute a fine maggio nella villa di Casal Palocco.
Tra questi il passaporto della Repubblica Centroafricana mostrato dalla donna agli inquirenti e ritenuto falso — il casus belli della deportazione — 50mila euro in contanti, una memory card e altri beni.
A proposito del passaporto, il Tribunale del riesame scrive che, a seguito dei documenti presentati dagli avvocati di difesa dello studio legale Olivo-Vassalli, “il passaporto in possesso dell’indagata non è falso”.
E aggiunge poi una considerazione: “lascia perplessi la velocità con cui si è proceduto al rimpatrio in Kazakistan della indagata e della bambina, congiunti di un rifugiato politico, in presenza di atti dai quali emergevano quantomeno seri dubbi sulla falsità del documento”.
E a sottolineare l’aspetto politico della vicenda ci ha pensato lo stesso Ablyazov in un’intervista al quotidiano La Stampa .
“Mi appello a Enrico Letta affinchè faccia piena luce sulla deportazione di mia moglie e figlia da Roma in Kazakhstan, dove ora sono in ostaggio di Nursultan Nazarbayev”, ha detto Ablyazov, aggiungendo poi “E’ un fatto senza precedenti, avvenuto perchè il dittatore del Kazakistan voleva due ostaggi contro il suo maggiore oppositore politico. (…) Ciò che abbiamo compreso ci porta a credere che sia stato un blitz del ministero dell’Interno in collaborazione con agenti di una dittatura ex sovietica. Quelli che in Italia avrebbero potuto bloccare il rapimento sono stati esclusi dall’operazione. Il governo italiano deve spingere il ministero dell’Interno a svelare la verità ponendo fine alla protezione dei responsabili di questa vicenda”.
L’intera vicenda era stata raccontata da ilfattoquotidiano.it, che aveva anche riportato un vecchio articolo del Daily Telegraph del 2010 dove era spiegato come il Kazakistan avesse minacciato la Gran Bretagna che, nel caso fosse stato concesso asilo politico ad Ablyazov, da anni rifugiato a Londra, avrebbero chiuso i contratti con le compagnie britanniche.
Da qui non era stato difficile ipotizzare perchè l’Italia avesse deciso di consegnare la moglie la figlia di Ablyazov, facendo sì che fossero esposte, a detta degli avvocati, “all’elevatissimo rischio trattamenti disumani, analoghi a quelli cui fu sottoposto il marito in patria”.
Il Kazakistan è una terra ricchissima di risorse naturali, e uno dei principali partner commerciali del regime è l’azienda parastatale italiana Eni.
Attiva nel paese dal 1992, Eni ha stretto accordi di cooperazione.
Gli ultimi sono del 2012. Si tratta delle estrazioni di gas e petrolio nell’immenso giacimento di Karachaganak (5 miliardi di barili di riserve) e le trivellazioni a Kashagan (dove s’ipotizzano 13 miliardi di barili).
Luca Piasapia
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Luglio 5th, 2013 Riccardo Fucile
IL CAVALIERE UNICO LEADER OCCIDENTALE A TESSERE LE LODI DEL REGIME…. BERLUSCONI INVITO’ GLI ITALIANI AD ANDARE IN VACANZA IN KAZAKISTAN
Salabayeva e Alua, moglie e figlia dell’oppositore kazako Mukhtar Ablyazov, sono ora nelle mani del dittatore Nursultan Nazarbayev.
Dopo che lo scorso 29 maggio il ministro degli Interni e segretario del Pdl, Angelino Alfano, ha mandato una cinquantina di uomini armati della Digos a prendere le due donne, che sono state poi espulse dall’Italia, accusate di avere passaporti falsi. Un’accusa che è stata poi smentita dal tribunale di Roma, secondo cui l’espulsione non andava autorizzata perchè i documenti erano in regola.
Adesso la parola spetta a Nazarbayev: un vecchio amico dell’Italia e di Silvio Berlusconi.
Il 1 ottobre 2010 il Cavaliere fu infatti accolto a braccia aperte dal dittatore quando raggiunse Astana, capitale del Kazakistan, per il vertice Ocse.
Nulla di cui stupirsi visto che, come ha detto lo stesso Berlusconi, Nursultan è “un caro amico”.
L’ex premier, ultimo dei 68 tra capi di Stato e governo ad arrivare nella capitale kazaka, fu ricevuto con un saluto molto caloroso da parte del dittatore.
“Ho visto dei sondaggi realizzati da un’autorità indipendente che ti hanno assegnato il 92% di stima e di amore dal tuo popolo”, disse Berlusconi rivolgendosi al leader kazako, sottolineando che “è un consenso che non può che fondarsi sui fatti” e invitando tutti ad “andare in vacanza in Kazakistan”.
Non solo.
Un anno prima, nel 2009, Nazarbayev giunse in Italia con una folta delegazione di ministri per un incontro tra le due Nazioni.
Al termine del bilaterale, il Cavaliere si complimentò per l’impressionante crescita demografica del Paese.
“Credo che si possa veramente sviluppare una vasta gamma di collaborazione“, disse allora Berlusconi, “con un Paese che ha grandi risorse naturali e una grande crescita demografica”.
Una Nazione che, aggiunse con un sorriso davanti a Nazarbayev, “dimostra la grande vitalità di tutti i maschi kazachistani”.
Nella stessa occasione, Berlusconi non riuscì a trattenere anche la “grande invidia” per il fatto che il suo ospite fosse riuscito a costruire “in otto anni una città da un milione di abitanti”.
Un modello che il Cavaliere disse di voler prendere come riferimento per ricostruire l’Aquila, ammettendo in tono scherzoso che si trattava di una “missione complicata, visti gli ostacoli burocratici che si frappongono in Italia”.
E in quell’occasione il Cavaliere si spinse anche oltre, spiegando di aver visitato in Kazakistan “una diga a forma di fiore da cui mettendo una mano sul pulsante si illumina una città ” e concludendo con un’altra battuta: “Ovviamente ho pensato di fare lo stesso in Sardegna“.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Luglio 5th, 2013 Riccardo Fucile
LA PRINCIPALE ACCUSA AL ROTTAMATORE: “CAMBIA SPESSO IDEA”
«L’idea del correntone anti-Renzi è una follia. Io con Renzi ho parlato tante volte. Ma è una
persona che ha l’abitudine di cambiare spesso idea e anche di fare la vittima». E comunque, «che sia chiaro a tutti che non permetteremo a nessuno di far cadere il governo» .
Mercoledì sera, Roma, quartiere Testaccio, ristorante Antico Forno – tra l’altro a pochi metri dalla casa di Enrico Letta – prenotato per una trentina di persone.
Amici e compagni, vecchi e nuovi.
E lui, Massimo D’Alema, il politico che rispetto ai «tavoli» rimane ancora fedele alla sua vecchia regola, «capotavola è dove mi siedo io».
È in quella sede che il presidente di ItalianiEuropei lascia intendere ai suoi che la base del suo dialogo con Renzi – che avrebbe dovuto aspettare un giro e candidarsi alle primarie per la leadership del centrosinistra – di fatto non c’è più.
Perchè il sindaco di Firenze, che questo dialogo l’aveva reso pubblico omettendo il nome di D’Alema («I capicorrente vengono a sussurarti all’orecchio di aspettare un giro»), nella versione dalemiana, è ormai un ragazzo che cambia spesso idea.
Al tavolo del ristorante di Testaccio c’è anche un dalemiano con un piede fuori dall’emisfero del Lìder Maximo.
Come Nicola Latorre, le cui simpatie renziane sono in continua ascesa, convinto che «o Matteo si candida adesso alla segreteria o non avrà una seconda possibilità ».
La serata è all’insegna del dialogo e della riflessione, e quindi D’Alema ascolta e dialoga con tutti.
Ma le sue colonne d’Ercole sono fissate. «Il governo non si tocca in nessun caso».
L’eco della cena dei dalemiani arriva ieri pomeriggio al Nazareno, a quella che doveva essere un’iniziativa dei fedelissimi di Bersani destinata a aprire i primi varchi per la candidatura alla segreteria di Stefano Fassina.
E invece, come dopo un colpo di scena che finisce per spiazzare tutti, la riunione dell’area «Fare il Pd» si trasforma nel punto d’incontro di tutti i «governisti».
Di tutti quelli che, per proteggere l’esecutivo dalla tensioni congressuali, hanno come unico obiettivo quello di evitare le condizioni perchè il sindaco di Firenze scenda in campo.
I ministri in quota del Pd si presentano tutti.
Ci sono Dario Franceschini e Flavio Zanonato, Andrea Orlando e Maria Chiara Carrozza. Manca solo il premier.
Ma il messaggio da portare alla «ditta» è chiarissimo.
«La verifica all’interno della maggioranza è andata benissimo», confida Franceschini ai suoi, che per una parte hanno disertato l’evento. «Persino Brunetta», è l’entusiasta rivendicazione del ministro dei Rapporti col Parlamento, «durante la riunione ha detto che il governo deve durare cinque anni. Adesso vogliamo far casino noi? ».
La risposta alla domanda retorica è nel fuoco di fila pro governo che si sente in tutti gli interventi, a cominciare da quelli degli ex popolari.
E Renzi è il convitato di pietra a cui tutti i messaggi sono indirizzati.
«Il nostro modello di partito è quello di David Serra e Flavio Briatore? », chiede ironicamente Beppe Fioroni, convinto che «le regole del congresso non possono essere costruite contro Letta, altro che Renzi».
E si fa vedere anche Franco Marini: «Questo governo sta facendo di più di quello che pensavamo possibile».
E quando tocca a Franceschini salire sul podio, ecco che il neo-ministro contesta quella frase sui «piccoli passi» che il sindaco di Firenze aveva detto durante l’intervista alla Faz: «Questa sfida la stiamo affrontando benissimo. In un momento del genere, che cosa possiamo fare se non piccoli passi? Dovremmo fare grandi annunci? Persino se fosse tra noi De Gasperi – è la chiosa franceschiniana – «si sarebbe mosso nello stesso modo di questo governo».
Una risposta anche a Bersani, che qualche minuto prima era tornato evocare il governo di cambiamento.
Segno che le tensioni, anche nel fronte anti-renziano, ci sono ancora, eccome. D’Alema, nel frattempo, aveva abbandonato l’incontro lanciando dietro di sè poche parole: «Non c’è un correntone anti-renziano. Renzi ha sbagliato a non esserci, gioca un po’ a fare la vittima».
La convinzione generale, quando il sipario cala, è che adesso bisognerà solo capire se il sindaco di Firenze scenda in campo o no.
Nel secondo caso, le iscrizioni al congresso saranno rivoluzionate.
E anche il «no» di Epifani, che continua a negare il suo interessamento alla riconferma, potrebbe essere rivisto
Tommaso Labate
(da “il Corriere della Sera”)
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Luglio 5th, 2013 Riccardo Fucile
ORA LE PARTI TORNANO DAL GIP
Il giudice non si convince e non archivia l’inchiesta per mafia nei confronti dell’ex presidente del Senato Renato Schifani: udienza dunque fissata per il 23 luglio, quando le parti – la Procura che ha chiesto l’archiviazione e lo stesso attuale capogruppo del Pdl al Senato – saranno convocate davanti al Gip Piergiorgio Morosini.
Che ascolterà le ragioni che hanno indotto i pm Nino Di Matteo e Paolo Guido a formulare la richiesta e le eventuali osservazioni dei legali di Schifani, chiamato in causa da quattro pentiti e invischiato in un’indagine aperta quando occupava la seconda carica dello Stato.
Per evitare fughe di notizie (che ovviamente c’erano state lo stesso) l’ufficio diretto da Francesco Messineo aveva iscritto l’allora presidente del Senato con uno pseudonimo curioso, «Schioperatu»
Nel giorno in cui la corte d’assise di Palermo respinge le eccezioni di incompetenza territoriale e funzionale nel processo sulla trattativa Stato-mafia, stabilendo dunque che il dibattimento rimanga nel capoluogo siciliano, a Schifani viene notificato il provvedimento del Gip Morosini, poco convinto dalla decisione di chiudere la vicenda con un’archiviazione, chiesta, prima della partenza per il Guatemala, dall’ex procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia. Nonostante vi fossero una serie di elementi a carico dell’indagato, avevano scritto gli inquirenti, mancavano riscontri certi, oggettivi e individualizzanti.
Non erano sufficientemente provate, in particolare, le accuse del pentito di Villabate, Francesco Campanella, che aveva parlato della vicinanza di Schifani al boss di Villabate, Nino Mandalà , e dei presunti favori che l’esponente politico avrebbe fatto, quando era avvocato e consulente del Comune a cinque chilometri da Palermo, sulle vicende del piano regolatore del paese.
Sullo stesso fronte, quello dei piani regolatori, un altro collaborante, Innocenzo Lo Sicco, ex costruttore, aveva affermato che Schifani sarebbe riuscito a «salvare» un palazzo abusivo, nel centro di Palermo, facendo approvare, apposta per quell’edificio, una sanatoria edilizia nazionale.
L’indagine, già stata archiviata una prima volta, era stata riaperta nel 2010, a seguito delle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza.
Riccardo Arena
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Luglio 5th, 2013 Riccardo Fucile
DUE ANNI DI VERGOGNOSI RINVII, ORA SI PARLA DELLA PRIMAVERA 2014 … LE STATUE SONO NELLA SEDE DEL CONSIGLIO REGIONALE, MA NESSUNO LO SA
Sono ancora pietosamente adagiati sul dorso, in una sala di palazzo Campanella a Reggio
Calabria.
Si trovano in quella posizione dal 23 dicembre 2009.
E 1.291 giorni cominciano a essere davvero troppi, anche per due statue.
Se poi quelle due statue sono i Bronzi di Riace, e la prospettiva è che rimangano lì almeno per altri otto mesi, giudicate voi.
Il Museo della Magna Grecia, dove sono stati esposti per ventotto anni nella pressochè totale indifferenza, è chiuso dalla vigilia di Natale di tre anni e mezzo fa causa restauri.
Doveva riaprire un anno dopo, in tempo per le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia.
Ma come sempre i lavori si sono rivelati interminabili, fra problemi tecnici, pastoie burocratiche e la solita inevitabile carenza di soldi.
Causata, manco a dirlo, dalla lievitazione abnorme dei costi: da 10 a 33 milioni di euro.
L’ultimo appalto da 5 milioni per l’allestimento delle sale con i fondi europei, che alla fine sono saltati fuori, doveva essere chiuso il 6 giugno scorso. Invece è slittato al 15 luglio.
E siccome il bando stabilisce 180 giorni dalla data di consegna dei lavori al vincitore della gara, ecco che se tutto andrà per il verso giusto ben difficilmente i Bronzi potranno tornare al loro posto prima della primavera 2014 inoltrata.
Nel frattempo restano dunque nel Consiglio regionale.
Dove si apprestano a trascorrere un quarantunesimo compleanno dal loro ritrovamento, avvenuto il 16 agosto del 1972 nelle acque di Riace a opera del sub dilettante Stefano Mariottini, piuttosto triste.
Vero è che si possono ammirare gratis, ovviamente supini.
Ma a patto di sapere che si trovano in quel posto.
Pensate forse che la città di Reggio Calabria sia disseminata di indicazioni su come raggiungere il luogo dove sono esposti? Niente affatto.
Dell’esistenza dei Bronzi di Riace non si trova traccia nemmeno nella home page del sito Internet del Consiglio regionale che pure li ospita.
Bisogna cliccare sul link della «visita virtuale» al palazzo Campanella, quindi entrare nella pagina del «Salone Federica Monteleone», cui è stato dato il nome di una sfortunata studentessa sedicenne morta nel gennaio 2007 per un errore medico, per apprendere che «l’aula attualmente ospita il laboratorio di restauro dei Bronzi di Riace». Stop.
Non una foto. Non una riga di spiegazione. Come se la presenza di quelle meraviglie dell’arte classica senza paragoni nei ritrovamenti archeologici di tutte le epoche storiche, non fosse niente più che un trascurabile dettaglio.
Del resto, basta dare un’occhiata ai dati del ministero dei Beni culturali per avere idea dell’attenzione che veniva riservata ai Bronzi di Riace anche quando erano esposti nelle sale del museo ora chiuso.
Le cifre dei visitatori paganti durante gli ultimi tre anni di apertura lasciano letteralmente di stucco: erano 61.805 nel 2007, 50.085 nel 2008, per scendere a 36.136 nel 2009.
Ovvero, un ventisettesimo delle persone che erano accorse a vedere i Bronzi a Firenze, trent’anni prima. Incasso del 2009, poco più di 132 mila euro: una miseria. Ma difesa con le barricate dalla città tutte le volte che qualcuno ha provato a ipotizzare anche il semplice trasloco temporaneo, naturalmente a pagamento, dei suoi inestimabili tesori fuori da Reggio Calabria.
Basta ricordare come dieci anni fa il progetto dell’allora governatore calabrese Giuseppe Chiaravalloti di realizzare copie delle due statue da mandare in giro per il mondo fu contrastato da un comitato «contro il trasferimento e la clonazione dei Bronzi di Riace» attraverso un referendum popolare che vinse con 30.564 «no» contro appena 186 «sì».
Da allora le cose sono andate oggettivamente di male in peggio, come dicono i numeri: colpa delle amministrazioni locali, del ministero, chissà .
Fatto sta che oggi un analogo «comitato per la valorizzazione e la tutela dei Bronzi di Riace» implora di riaprire il Museo per rimetterli in piedi al più presto.
Due sculture di importanza planetaria scandalosamente dimenticate per anni in una città che ha un disperato bisogno di sviluppo.
Pensate alla Francia, alla Germania o alla Gran Bretagna: in qualunque altro Paese civile una situazione del genere non avrebbe potuto che suscitare scandalo e provocare immediate reazioni.
Ma non qui, dove il silenzio assordante delle istituzioni e della politica è stata la risposta alle denunce dell’opinione pubblica.
Prime fra tutte, quelle di Antonietta Catanese, che sul Quotidiano della Calabria ha dedicato a questa vicenda pagine di fuoco.
L’ultima puntata della storia infinita riguarda la cosiddetta «fase 2» del restauro del Museo della Magna Grecia.
Si tratta di un progetto che risale a qualche anno fa e prevede l’ampliamento sotterraneo degli spazi. Autore, l’architetto Nicola Di Battista.
Per realizzarlo si sarebbero resi disponibili altri 10 milioni di fondi europei, ma l’associazione Amici del Museo si è messa di traverso: le loro contestazioni riguardano il rischio di pregiudicare eventuali resti della necropoli ellenistica che si trovano sotto la costruzione.
Senza poi contare i problemi sollevati dal Comune di Reggio a proposito della viabilità . Eppure le chiacchiere stanno a zero.
Quei denari vanno tassativamente spesi entro il 2015, diversamente saranno perduti. Ma purtroppo è un film già visto, a dispetto dell’orribile primato nazionale della disoccupazione giovanile. In Calabria è arrivata al 53,5 per cento.
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera“)
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Luglio 5th, 2013 Riccardo Fucile
LA NUOVA MAPPA DEGLI ATENEI DOVE STUDIARE COSTA DI PIU’
Studenti universitari “tartassati” dalle tasse come nel film di Totò.
In appena otto anni, gli iscritti negli atenei statali si sono assottigliati mentre le tasse universitarie sono cresciute del 50 per cento.
Con picchi, per alcuni atenei, di oltre il 100 per cento.
Il salasso emerge dai dati sui contributi degli studenti pubblicati dal Miur.
Un fenomeno, più volte denunciato dalle associazioni studentesche, che sarebbe anche all’origine del calo di matricole registrato in Italia.
Pagare mille e più euro all’anno per fare studiare un figlio all’università può diventare insostenibile per una famiglia.
Bastano alcuni esempi: dal 2004 al 2012 l’università del Salento ha aumentato le tasse del 167 per cento mentre quella di Reggio Calabria del 119 per cento.
Ma la stangata non riguarda solo i piccoli atenei.
Tra i grandi, spicca l’università di Palermo che ha raddoppiato i contributi (+110 per cento) e la Federico II di Napoli che oggi registra un aumento del 94 per cento.
Mentre l’ateneo più grande d’Europa, La Sapienza di Roma, si è contenuto: il carico per studenti e le famiglie è salito del 57 per cento
Sul fronte opposto, ci sono le università virtuose, tra cui Firenze, che ha ritoccato del 4,7 per cento appena il balzello e il Politecnico di Torino, più 14 per cento.
Mentre l’università pubblica più esosa in assoluto è il Politecnico di Milano, con una media di quasi mille e 700 euro.
Al confronto, gli 842 euro a studente del Politecnico di Torino e i 509 del Politecnico di Bari sono poca cosa.
«Un ragazzo – dice Marco Mancini, presidente dei rettori italiani – decide di non iscriversi per due motivi: l’incremento delle tasse universitarie, di gran lunga più alto rispetto a quello degli stipendi delle famiglie, e un diritto allo studio a dir poco claudicante ».
Su questo punto il nostro Paese ha la maglia nera.
«In Italia – continua Mancini – spendiamo una cifra ridicola: 260 milioni all’anno. In Francia sono un miliardo e 600 milioni, la Germania 2 miliardi. Ma di cosa stiamo parlando?».
L’aumento delle tasse – si giustificano gli atenei – è dovuto ai tagli imposti dall’ex ministro all’Istruzione Mariastella Gelmini.
«A partire dal 2008-2009, il sistema universitario italiano è stato colpito da un taglio di circa un miliardo di euro (su 7,45 circa) del Fondo di finanziamento ordinario. E non mi stupisce – conclude il presidente della Crui – se le tasse siano state incrementate. Credo che, costi quel che costi, l’ultima cosa da fare è aumentarle ancora».
Le tasse poi sono solo una parte della spesa per ottenere una laurea.
«Bisogna tenere conto di tutti i contributi extra, dai i test d’ingresso alla laurea», denuncia Michele Orezzi, portavoce dell’Unione degli universitari.
A questi occorre sommare affitti e mensa per i fuorisede, trasporti e libri.
Anche i giudici amministrativi si sono accorti che le tasse universitarie sono diventate troppo onerose.
Qualche mese fa il Tar della Lombardia ha condannato l’ateneo di Pavia – che aveva superato, nel 2012, il limite di tassazione studentesca in rapporto al finanziamento statale – a restituire oltre due milioni di euro di contributi non dovuti.
Dividendo l’intera contribuzione studentesca del 2004 (più di un miliardo e mezzo) per il numero di iscritti, otto anni fa ogni ragazzo pagava mediamente 632 euro di tasse.
Una cifra che nel 2012 è lievitata fino 947 euro.
Un dato indicativo, certo, perchè non tiene conto degli studenti esonerati.
Ma dà la misura di quanto costi studiare oggi.
«È indispensabile – conclude il rappresentante dell’Udu – che il governo e il ministro Carrozza pongano argini all’aumento indiscriminato delle tasse universitarie: già ora sono le terze più alte d’Europa ».
Salvo Intravaia
(da “La Repubblica”)
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Luglio 5th, 2013 Riccardo Fucile
UN MILIARDO ALLA REGIONE LAZIO, 500.000 EURO AL PIEMONTE, 1,5 MILIARDI AI COMUNI
Quando un paio di settimane fa il telefono è suonato nella sua piccola impresa edile di Ivrea,
Gianluca Actis Perino non avrebbe mai immaginato che dall’altra parte del filo lo stava cercando il ministro dell’Economia. Fabrizio Saccomanni aveva un paio di domande per lui.
Perino è amministratore unico della Sicet, un’azienda edile di 15 dipendenti (cinque meno di due anni fa) che dopo molti mesi è riuscita a farsi pagare dalla provincia di Torino 720 mila euro di crediti scaduti per la manutenzione di due licei.
Saccomanni aveva letto quel mattino un articolo sulla Stampa in cui l’imprenditore spiegava le sue difficoltà e l’ha fatto cercare.
Ma più che congratularsi, chiuso nel suo ufficio di Via XX Settembre a Roma, il ministro voleva capire: quanto è difficile trasferire concretamente una somma dai conti del Tesoro fino a quello di un uomo che, spiega Perino, deve scegliere se comprare un nuovo camion per l’impresa «o dare da mangiare ai figli»?
I dati, di per sè, fanno pensare sia quasi impossibile.
È almeno da febbraio che il governo, allora guidato da Mario Monti, promette di pagare almeno 20 miliardi di debiti commerciali arretrati entro quest’anno.
Sei mesi più tardi la contabilità esatta dei progressi è disarmante: il 27 giugno scorso il Tesoro ha trasferito alla regione Lazio 924 milioni, con i quali la giunta in teoria dovrebbe iniziare a pagare le imprese creditrici entro 30 giorni; l’altro ieri poi dai conti di Via XX Settembre sono partiti altri 448 milioni di «anticipazione di liquidità » per il Piemonte.
«In corso » sono anche dei pagamenti di circa 500 milioni dal Tesoro agli altri ministeri perchè questi a loro volta saldino i propri creditori, mentre la Cassa depositi e prestiti ha trasferito 1562 milioni a 1500 comuni che ne hanno fatto richiesta.
In tutto, giunti già a metà del 2013, si tratta di poco più di tre miliardi sui venti da saldare.
Ma per ora sono solo bonifici partiti da certi conti dell’amministrazione pubblica verso altri conti di altri rami dell’amministrazione pubblica.
Alle imprese, di quei tre miliardi, è arrivata appena una frazione di entità per ora ignota.
Lo Stato ritiene di avere circa 90 miliardi di debiti commerciali arretrati (un quadro più preciso si dovrebbe avere solo in settembre), ma non ha la minima idea di quanto sia già stato versato al creditore finale nel settore privato.
La telefonata di Saccomanni a Ivrea, e il suo impegno evidente nel saldare i debiti alle imprese, suggeriscono che alla radice del problema non c’è la riluttanza del governo. Sembra un fenomeno più complesso: una colluttazione dell’amministrazione statale con se stessa per arrivare, prima o poi, all’obiettivo enunciato.
Basta dare un’occhiata al calendario degli incontri del Tesoro con le Regioni per capire quanto il processo possa essere tortuoso.
I tecnici del governo hanno incontrato quelli della Calabria, del Molise, della Liguria e della Toscana a maggio per i debiti contratti fuori dal settore sanitario.
Ma siamo a luglio e i trasferimenti di denaro fra burocrazie non sono ancora avvenuti. La Calabria e la Toscana non hanno ancora presentato un «piano dei pagamenti», al Molise e alla Liguria manca anche una «norma di copertura». Quasi tutte le altre giunte sembrano essere addirittura ancora più indietro.
Non è chiaro il motivo per cui una Regione debba passare un atto di legge («norma di copertura») semplicemente perchè è in ritardo nel saldare i fornitori.
Wolfgang Munchau, sul Financial Times, ha provocatoriamente scritto che legiferare per saldare il dovuto è un gesto da amministrazione insolvente: deve modificare il quadro di legge per fare semplicemente ciò che (altrove) sarebbe normale.
Nè è chiaro a cosa serva un «piano dei pagamenti», come se il calendario dei giorni di ritardo, nel Mezzogiorno a volte più di mille, non facesse già fede abbastanza.
Ma, appunto, forse proprio questo strumento è ciò che manca. In certi momenti Saccomanni deve sentirsi come in una lotta contro i mulini a vento.
L’altro giorno persino il presidente Giorgio Napolitano si è spinto a dare al ministro tecnico il suo sostegno esplicito, un gesto inusuale in mezzo alle baruffe fra i partiti e fra i rami della burocrazia pubblica.
Perchè anche il capo dello Stato senz’altro lo sa: più difficile che pagare 20 miliardi di arretrati in un solo anno, c’è solo pagare venti miliardi nella seconda metà dell’anno che ormai resta.
Federico Fubini
(da “La Repubblica”)
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Luglio 5th, 2013 Riccardo Fucile
IL CAPO RELAZIONI ESTERNE PREANNUNCIO’ IL SUO GESTO ALL’AMMINISTRATORE FABRIZIO VIOLA: “E’ URGENTE, DOMANI POTREBBE ESSERE TROPPO TARDI”… DUE GIORNI PRIMA DI TOGLIERSI LA VITA: “VORREI GARANZIE DI NON ESSERE TRAVOLTO DA QUESTA COSA”
“Stasera mi suicido, sul serio. Aiutatemi!!!! ”. David Rossi aveva scritto all’amministratore delegato, Fabrizio Viola, prima di scegliere la via peggiore per uscire dalla vicenda del Monte dei Paschi di Siena. Rossi, capo della comunicazione di Rocca Salimbeni, mercoledì 6 marzo alle ore 20 circa ha aperto la finestra del suo ufficio e si è gettato nel vuoto.
Un gesto su cui pensava da lunedì. Quando, alle otto e 13 minuti, scrive a Viola, in quei giorni a Dubai. Una mail fin troppo chiara, già dall’oggetto: aiuto, “help”.
Un messaggio di posta inviato per conoscenza anche a un’altra figura di vertice della banca.
Una mail alla quale però nessuno inizialmente risponde.
Ma poco dopo le 13, Rossi rinnova la sua preoccupazione: “Ti posso mandare una mail su quel tema di stamani? È urgente. Domani potrebbe già essere troppo tardi”.
E inizia così un drammatico scambio di mail, agli atti dell’inchiesta sul suicidio di Rossi aperta dalla Procura di Siena, in cui vengono ricostruiti gli ultimi giorni di vita dell’ex braccio destro di Giuseppe Mussari.
E, soprattutto, lo stato d’animo in cui Rossi era ormai costretto a vivere.
David sente la pressione addosso.
Pochi giorni prima, il 19 febbraio, ha subito la perquisizione in casa e in ufficio, i giornali scrivono che lui è ritenuto il trait d’union tra i vecchi vertici, Mussari e Alessandro Vigni, per accordarsi sulle versioni da fornire agli inquirenti.
E, come se non bastasse, viene poi accusato di essere il responsabile della fuga di notizie sull’azione di responsabilità decisa dal Consiglio di amministrazione della banca il 28 febbraio contro gli ex vertici di Mps, Nomura e Deutsch Bank.
Notizia che appare su due quotidiani il giorno successivo e della quale, ricostruiscono gli inquirenti, Rossi non era stato messo al corrente.
Tant’è che aveva confidato ad alcuni familiari di sentirsi ormai escluso dalle informazioni sensibili della banca.
Tre giorni dopo, su denuncia presentata da Viola, la Procura avvia un’indagine per insider trading, finalizzata a individuare il responsabile della fuga di notizie.
Il cinque marzo per questo vengono perquisiti abitazioni e uffici di due componenti del Cda: Michele Briamonte e Lorenzo Gorgoni. Rossi no.
Mercoledì sei marzo l’agenzia di stampa Reuters alle ore 18.49, a mercati chiusi, pubblica il take sulla quantificazione del danno: “Mps, danni da 700 milioni a Nomura, 500 a Deutsche, in solido con Mussari e Vigni”. Rossi alle 19 comunica alla moglie: “Tra mezz’ora sono a casa”.
Ma qui, ipotizzano gli inquirenti, inizia l’ora fa presente le preoccupazioni relative al suo possibile coinvolgimento nelle inchieste, il timore che le voci che avvelenano Siena e Rocca Salimbeni sul suo conto possano aver trovato terreno fertile in Procura. Scrive a Viola l’intenzione di voler parlare con i magistrati, per sapere cosa vogliono. “Mi hanno inquadrato male”, scrive, tra l’altro
E ancora, sempre nella stessa corposa mail: “Vorrei garanzie di non essere travolto da questa cosa, per questo lo devo fare subito, prima di domani”.
Sono le 14 e 12 di lunedì 4 marzo.
Dopo dodici minuti arriva la risposta di Viola: “La cosa è delicata. Non so e non voglio sapere cosa succederà domani. Lasciami riflettere”.
Rossi insiste, sente la necessità di parlare con gli inquirenti. Ha bisogno di rassicurazioni da parte dell’amministratore delegato. E riceve però un consiglio: di alzare il telefono e chiamare la Procura.
Viola è stato sentito dagli inquirenti anche in merito a questo scambio di mail.
E ieri, contattato telefonicamente dal Fatto Quotidiano, ha risposte per mezzo dell’ufficio stampa che in quei giorni era in vacanza con i figli a Dubai.
David era a Siena. E non chiederà più aiuto a nessuno, stando a quanto ricostruito dagli atti. E, forse deluso dalle risposte ricevute, si scusa anche con Viola.
I due giorni successivi, secondo quanto ricostruito agli atti dagli inquirenti, David vivrà in “costante tensione”, “aveva paura — riferisce uno dei testimoni sentiti — di essere persino arrestato”
L’inchiesta, aperta contro ignoti per istigazione al suicidio, era inizialmente stata affidata al pm Nicola Marini, magistrato di turno la sera di mercoledì sei marzo.
Ma gli sviluppi l’hanno intrecciata all’indagine “madre” sul Monte dei Paschi di Siena e a quella per insider trading, ed è divenuta di competenza anche degli inquirenti titolari degli altri fascicoli: Aldo Natalini, Antonino Nastasi e Giuseppe Grosso.
Lo scambio di mail, insieme ad altro materiale e nuove testimonianze raccolte solo nell’ultimo mese, hanno dato un nuovo impulso alle indagini.
Il procedimento aperto per istigazione al suicidio sta ora andando verso l’archiviazione.
Davide Vecchi
argomento: Giustizia | Commenta »
Luglio 5th, 2013 Riccardo Fucile
LA LEGA NON INCANTA PIU’, NEMMENO NEI SUOI LUOGHI SIMBOLO
A Cassano Magnago, il comune del varesotto che ha dato i natali a Umberto Bossi, la serata
dedicata al senatur è andata quasi deserta.
Giovedì sera sotto la grande tensostruttura dell’area feste si contavano a malapena un centinaio di persone, la gran parte intervenute solo per approfittare della possibilità di ballare il liscio.
Terminata la musica, infatti, il tendone si è ulteriormente svuotato, lasciando lo stanco Bossi a lanciare proclami di rinascita davanti ad una ventina di militanti affezionati, in un’atmosfera decadente, da fine dell’impero.
Bossi ha promesso il ritorno della Lega forte, ha annunciato “una sorpresa che alle prossime elezioni vi lascerà di stucco”, ma senza svelarne i contorni.
Ha parlato di Ius Soli, ricordando come solo la legge Bossi Fini abbia permesso al nostro paese di “evitare l’invasione da parte di cento milioni di immigrati”.
A chi si aspettava le solite bordate contro il suo successore Roberto Maroni, Bossi ha risposto picche: “Voi giornalisti site qui solo per dire che la Lega è divisa, ma questa sera non dico niente”
Alessandro Madron
(da “il Fatto Quotidiano”)
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