Luglio 26th, 2013 Riccardo Fucile
VENTICINQUE ANNI FA GLI ARRESTI GRAZIE AL SUO PENTIMENTO: “MI CHIAMANO TRADITORE, MA IO GIRO A TESTA ALTA”
Sono passati venticinque anni da quell’estate in cui un colpo di scena riaprì le indagini sull’omicidio del commissario Luigi Calabresi, ucciso a Milano il 17 maggio 1972. Accadde un fatto più unico che raro: un uomo libero, incensurato e non sospettato di alcunchè si presentò dai carabinieri per dire: sedici anni fa ho ucciso un uomo.
Il suo nome è Leonardo Marino. Quando partecipò, come autista, all’agguato al commissario, aveva 26 anni; quando si costituì 42; oggi ne ha 67.
Dopo qualche titubanza, in quel luglio di venticinque anni fa Marino fece i nomi anche del complice, Ovidio Bompressi, e dei due mandanti, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani.
Tutti ex militanti di Lotta Continua. Gli arresti scattarono il 28 luglio 1988. Marino è stato condannato a undici anni (poi prescritto); Sofri, Pietrostefani e Bompressi a ventidue.
La confessione di uno degli imputati pareva sufficiente a spazzare via qualsiasi dubbio: ma il Paese si divise ugualmente.
Per anni Marino è stato investito da una campagna tesa a screditarlo. Si disse che si era inventato tutto; che aveva preso soldi dai carabinieri; che il Pci aveva ordito un complotto per regolare vecchi conti con Lotta Continua.
Si disse che Marino voleva riscattarsi (economicamente) da un’esistenza grama, visto che vendeva le cràªpes a una bancarella di Bocca di Magra.
Oggi comunque è ancora lì, a Bocca di Magra, a vendere cràªpes. Arriva all’appuntamento con una Citroà«n C3.
Marino, che cosa ricorda di quel luglio di venticinque anni fa?
«Cerco di non ricordare. Tre giorni fa è venuto un signore e mi ha chiesto: “È lei Marino?”. Ho risposto di sì, e lui: “Allora voglio darle la mano”. Ma la maggior parte della gente che passa di qui non sa niente. E a me va bene così».
Per una volta, le chiediamo di ricordare.
«Andai per primo dal prete di Bocca di Magra, don Regolo. Poi dal senatore Bertone del Pci, perchè per me il partito era importante. Da lì nacquero le leggende sul complotto del Pci, alimentate anche dal fatto che pure il mio difensore, l’avvocato Gianfranco Maris, era un ex senatore comunista. Ma Maris era stato chiamato come difensore d’ufficio da Pomarici, il pm che mi interrogava. Era estate, a Milano non c’era nessuno. Pomarici aprì la porta e il primo che incontrò in corridoio fu Maris».
Andiamo avanti con Bertone: che cosa le disse?
«Di andare dai carabinieri».
E lei?
«Andai dal maresciallo del paese, Ameglia».
Dove, a quanto pare, lei fu trattenuto a lungo.
«Lì nacque un’altra leggenda: quella di Marino imbeccato dai carabinieri. La verità è semplice: che cosa volete che ne sapesse il maresciallo di Ameglia dell’omicidio Calabresi? Era roba più grossa di lui. Per questo chiamò i suoi superiori, i quali poi mandarono il colonnello Bonaventura dell’antiterrorismo».
Che la tenne lì un po’ in caserma. Perchè?
«Se vai dai carabinieri a confessare un reato, per giunta così grave, è ovvio che prendono informazioni sul tuo conto. Scoprirono presto che a Torino c’era un fascicolo su di me per il mio passato in Lotta Continua. Cercarono di capire se ero credibile, dopo di che mi portarono a Milano in Procura».
Gli ex di Lotta Continua insinuarono che lei era stato pagato per parlare.
«Intanto, non si capisce che interesse avrebbero avuto i carabinieri a costruire false accuse contro un movimento che non esisteva più da oltre dieci anni. Secondo, se avessi messo in piedi una storia del genere per soldi, mi sarei fatto pagare bene. E invece come vede sono sempre qui come venticinque anni fa: a fare cràªpes fino alle due di notte».
Non ha avuto altri vantaggi?
«E quali? Avrei potuto chiedere la protezione come collaboratore di giustizia, e ho rifiutato. Avrei potuto cambiare nome come Peci e Barbone, e non l’ho fatto».
Rifarebbe quello che ha fatto venticinque anni fa, viste le insinuazioni, i sospetti?
«Mi sta chiedendo se mi sono pentito di essermi pentito? No. Adesso sono me stesso. Certo: qualcuno mi dà del traditore. Ma io posso andare in giro a testa alta».
Si aspettava da parte degli ex compagni di Lotta Continua una simile campagna contro di lei?
«Me l’aspettavo. È il loro stile. Hanno fatto con me quello che avevano fatto con Calabresi».
Quanto tempo è stato in carcere?
«Un paio di mesi a Opera. Poi un paio d’anni agli arresti domiciliari».
Da quanto tempo non vede più i suoi tre ex complici?
«Sofri e Bompressi dall’ultimo processo, nel 2000. Pietrostefani era già latitante all’estero da tempo».
Che opinione ha di loro?
«Ognuno fa i conti con la propria coscienza».
A chi dei tre si sente più legato?
«A Bompressi. Era uno come me. Uno di quelli che quando tiravano una pietra non nascondevano la mano».
Quanti le credono, tra gli ex di Lotta Continua?
«Al di là della propaganda, tutti sanno che ho raccontato la verità . Solo pochi però hanno il coraggio di esporsi. L’ha fatto Casalegno, l’ha fatto Mughini. Ma gli altri dicono: chi me lo fa fare?».
Sofri al processo ha negato tutto, anche le rapine.
«L’avvocato Maris mi diceva: saranno condannati dalle loro stesse parole. Hanno negato anche di fronte all’evidenza, come le pistole rapinate all’armeria Leone di Torino e trovate in possesso di militanti di Lotta Continua. Credo che Sofri volesse dare una visione totalmente immacolata di Lotta Continua».
Marino, lei ha detto che Sofri le confermò il mandato a uccidere Calabresi a Pisa, dopo un comizio. Non ha nessun dubbio su quel colloquio?
«Mai avuto dubbi. Le parole esatte non le posso ricordare. Ma certe cose si possono capire solo tra chi è stato in un certo ambiente. Io avevo chiesto a Pietrostefani garanzie per la mia famiglia nel caso fossero andate male le cose, e volevo rassicurazioni da Sofri. Loro dicono: a Pisa non ci fu il tempo per parlarsi, si era sotto il palco di un comizio. Ma lui sapeva già tutto, gli bastò un attimo per darmi la conferma. Non c’è possibilità di equivoco. Non si dicono certe cose a chi deve andare a distribuire dei volantini».
Non ha mai pensato che in realtà fu Pietrostefani a decidere l’omicidio, e che Sofri subì la decisione?
«Questo non lo posso sapere. Sicuramente “Pietro” era più propenso a passare alla lotta armata. Però ripeto: non lo posso sapere».
Sofri aveva un grande ascendente su di lei?
«Ce l’aveva su tutti noi».
È vero che ha chiamato il suo primo figlio Adriano in onore di Sofri e il secondo Giorgio in onore di Pietrostefani?
«Adriano sì, è per Sofri. Giorgio un po’ per Pietrostefani e un po’ per un altro ex di Lotta Continua, Giorgio Merlo di Torino».
Spera ancora che qualcun altro confessi?
«Lo spero ma non ci credo. La loro scelta l’hanno fatta».
Perchè pensa che non confesseranno mai?
«Per troppo orgoglio».
Non crede che qualcuno avrebbe diritto alla verità ?
«La verità è stata stabilita da ben sette processi, più quello di revisione a Venezia, concesso per motivi che non stavano nè in cielo nè in terra».
Calabresi fu ucciso solo da voi quattro?
«Sono sicuro che ci furono dei complici d’appoggio, ma non lo posso dire perchè non so i loro nomi».
Quando è finita la sbornia ideologica di quegli anni?
«È venuta meno in modo travagliato e prolungato. Ci furono anni di euforia: pensavamo di fare la rivoluzione. Poi c’è stato, man mano, un tirarsi indietro. Lotta Continua alla fine si è sciolta. Io ho pensato: ma che cosa ho fatto fino ad ora? Quello che mi hanno detto per anni erano tutte balle? Il potere agli operai, l’esaltazione di Mao e del Che… Tutto finito? Allora c’è stato un lento e progressivo ripensamento di tutta la mia vita. Io, noi, abbiamo avuto l’impressione di una generazione persa per colpa di pseudo-intellettuali che predicavano cose assurde».
Quando, nell’estate 1988…
«Quando ho confessato ero già distaccato da Sofri da un pezzo, se è questo che vuol dire. Posso aggiungere una cosa?»
Certo
«Vorrei che lei scrivesse che io non avevo alcuna voglia di fare questa intervista. Ho accettato solo perchè in qualche modo devo ancora farmi perdonare dalla famiglia Calabresi. Ma chiedo il diritto a vivere una vita normale. Faccio fatica, ogni volta, a parlare di queste cose».
Michele Brambilla
(da “La Stampa“)
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Luglio 26th, 2013 Riccardo Fucile
DAL SOMMERSO COME AMMORTIZZATORE SOCIALE TEORIZZATO DA BERLUSCONI SIAMO PASSATI AL SOMMERSO COME REGOLA DI SOPRAVVIVENZA DI FASSINA
Per fortuna che questa volta, al posto di Giulio Tremonti e Maurizio Sacconi, ci sono Fabrizio
Saccomanni ed Enrico Giovannini a gestire la politica economica e quella del lavoro.
Altrimenti non ci stupiremmo di leggere nei prossimi giorni circolari come quelle del 2009, che chiedevano esplicitamente agli ispettori del lavoro di ridurre i controlli nelle aziende perchè «la criticità del momento contingente rafforza la scelta di investire su di un’azione di vigilanza selettiva e qualitativa, diretta a limitare ostacoli al sistema produttivo ».
In altre parole, lo Stato che decide consapevolmente di abdicare dalla lotta all’evasione per garantire una sopravvivenza nell’ombra a molte piccole imprese che altrimenti sarebbero costrette a chiudere i battenti, gonfiando le file della disoccupazione.
È fin troppo ovvio che l’evasione fiscale garantisca in molti casi la sopravvivenza a imprese che non riescono a competere nella legalità e a lavoratori autonomi che, pagando le tasse, avrebbero redditi netti al di sotto di soglie di povertà , anche assoluta. Ma quel che Fassina non ha detto, ed è un’omissione grave da parte di un rappresentante del ministero delle Finanze, è che questa sopravvivenza è una forma di “mors tua vita mea”, è una scelta di politica economica che opera una selezione avversa nel nostro mondo delle imprese.
La sopravvivenza mediante evasione rende, infatti, ancora più insostenibile la pressione fiscale per le imprese che potrebbero, se meno tartassate, creare posti di lavoro e reddito, portandoci fuori dalla recessione.
L’economia sommersa, l’insieme di attività svolte senza pagare tasse e contributi sociali, conta tra un sesto e un quarto del nostro prodotto interno lordo, a seconda della stime.
Vi sono delle regioni, come la Calabria, dove secondo l’Agenzia delle Entrate fino al 94 per cento dell’imponibile Irap viene sottratto al fisco.
È una piaga nazionale, un fardello che pesa sulla parte più avanzata del nostro tessuto produttivo, localizzata soprattutto nel Nord del paese, costringendola a pagare anche le tasse degli altri (potrebbero essere di un quinto più basse se tutti le pagassero). Allontana la soluzione dei problemi del Mezzogiorno.
Perchè l’illegalità alimenta altra illegalità ben più grave: è proprio sullo smercio delle produzioni del sommerso economico che spesso vive e vegeta la criminalità organizzata, come ci ha spiegato con rara efficacia Roberto Saviano.
Il sommerso viene storicamente tollerato in Italia. Altrimenti non si spiegherebbe perchè sia sopravvissuto alle banche dati sempre più ricche su cui può contare l’attività ispettiva.
Non si spiegherebbe neanche il sovradimensionamento del lavoro autonomo in Italia, una condizione da cui è più facile evadere le tasse.
Si fanno relativamente pochi controlli sui posti di lavoro nonostante questi siano molto efficaci nell’identificare le aziende che non pagano tasse e contributi. Mediamente un controllo su due porta al riscontro di frodi fiscali o contributive e la base imponibile mediamente recuperata per ogni azienda ispezionata dagli Ispettorati del Lavoro, dall’Inps, dall’Inail e dall’Enpals è attorno ai 55.000 euro, ben di più di quanto costino unitariamente queste ispezioni.
Se ne fanno relativamente poche perchè sono molto impopolari fra i piccoli imprenditori e perchè si teme che la regolarizzazione imponga ad alcune aziende, soprattutto al Sud, di chiudere i battenti, mettendo sulla strada non pochi lavoratori.
È comprensibile che non si voglia forzare alla chiusura imprese in un momento come questo.
Ma perchè dobbiamo farne pagare lo scotto altra.le aziende, anche queste piccole per lo più, che sono in regola?
Non sarebbe meglio ridurre la pressione fiscale sul lavoro per tutte le imprese e, al tempo stesso, rafforzare i controlli?
La verità non detta da Fassina e da chi ieri lo ha applaudito è che chi oggi vuole abolire le tasse sulla casa, anzichè quelle sul lavoro, e vuole tollerare maggiormente l’evasione, ha scelto di far pagare di più le tasse a chi le ha sempre pagate.
È una scelta di politica economica conseguente, che ha accomunato i governi di centro-destra, che hanno in gran parte gestito la politica economica in Italia negli ultimi 15 anni.
Ieri abbiamo avuto da parte di un sottosegretario aspirante segretario del Pd, un sorprendente segnale di continuità con quelle politiche.
Se questo non è l’orientamento del governo nella sua collegialità , bene che dia un segnale ben diverso, con misure che rafforzino i controlli e, al tempo stesso, incoraggino l’emersione.
Ad esempio, un incentivo condizionato all’impiego, sotto forma di sussidio all’occupazione (anzichè alla disoccupazione) ocredito di imposta per chi non è incapiente, avrebbe proprio questa funzione.
Ridurrebbe il costo del lavoro e incentiverebbe l’emersione, condizione indispensabile per ricevere il contributo pubblico.
I costi di questo intervento sarebbero relativamente limitati e potrebbero essere coperti attingendo al bacino, mal speso, di fondi per le politiche attive del lavoro, tra cui rientrano anche le tante fallite (e ipocrite) misure per l’emersione varate in anni in cui si è concesso deliberatamente maggiore respiro all’evasione.
Tito Boeri
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Luglio 26th, 2013 Riccardo Fucile
SE SI VUOL APRIRE UN DIALOGO CON I PICCOLI NON SI PUO’ DIPENDERE DALLA CGIL
Ieri cominciando la sua giornata di lavoro da vice-ministro Stefano Fassina non avrebbe mai pensato che si sarebbe conclusa con una solenne stroncatura da parte del segretario della Cgil, Susanna Camusso.
Se c’è stato infatti in questi mesi un politico di punta del Pd attento a coltivare i rapporti con il sindacato è stato Fassina ma evidentemente Camusso è come quegli stopper d’area di rigore che quando devono randellare non stanno attenti a distinguere tra palla e gambe.
Il vice-ministro di buon mattino si era recato a un’assemblea della Confcommercio – gli stessi che avevano fischiato Flavio Zanonato – e con un pizzico di empatia aveva riconosciuto che non tutti gli evasori sono uguali, ma bisogna distinguere tra l’egoismo dei ricchi e chi evade per far sopravvivere la sua azienda nel commercio o nell’artigianato.
Buon senso, verrebbe da commentare ma Camusso non l’ha pensata così e ha emesso il suo verdetto: «Fassina ha commesso un drammatico errore politico».
Per carità , l’allievo prediletto di Vincenzo Visco di errori politici ne fa tanti, una buona parte per eccesso di generosità .
Ha sostenuto l’ipotesi di un governo del cambiamento Bersani-Grillo e ancora qualche giorno fa ha dato via libera a un emendamento del cinquestelle Pisano che istituiva il famigerato Durt e aumentava gli adempimenti burocratici dei Piccoli. Capita.
Il vero guaio di tutta questa vicenda è che però dimostra ancora una volta lo strabismo del Pd, che a differenza di quello di Venere non è una virtù.
Se si vuole aprire un canale di dialogo con i Piccoli, approfittando delle evidenti difficoltà della Lega, bisogna essere conseguenti e non dipendere dal giudizio della Cgil.
Se si mette in cima all’agenda, come è giusto, la lotta all’evasione fiscale bisogna calibrare gli strumenti per evitare di fare di tutt’erba un fascio e soprattutto di parlare di nuove tasse nel momento in cui la pressione fiscale è a livelli record.
Insomma è evidente che nel corpo della società italiana ci sono contraddizioni che vengono da lontano, in buona sostanza dal compromesso democristiano (deroga all’efficienza per i pubblici dipendenti in cambio di deroghe fiscali per gli autonomi). Per scomporle prima e riaggregarle poi ci vuole visione politica e polso fermo.
Due qualità che sembrano scarseggiare.
Dario Di Vico
(da “il Corriere della Sera“)
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Luglio 26th, 2013 Riccardo Fucile
I FEDELISSIMI: “NON FAREMO NOI LA GUERRA”
A spargere ottimismo ci pensa l’avvocato Franco Coppi, il principe del foro che Silvio
Berlusconi ha voluto a capo del suo pool di avvocati per vincere la partita più difficile, quella della Cassazione.
Quella prevista per il 30 luglio, ma che secondo boatos di palazzo insistenti, potrebbe slittare alle prossime settimane, e magari depotenziarsi passo dopo passo grazie proprio alle decisioni di rinvii di parti del processo, anche parziali, da parte della Corte.
«Per ora – dice il legale dell’ex premier – non ci sono novità », ma «questa è una causa nella quale abbiamo dei validi argomenti e speriamo e confidiamo di riuscire a convincere la Corte della non configurabilità del reato per cui Berlusconi è stato condannato».
Ma, a parte il dovuto ottimismo del legale, dall’entourage berlusconiano filtra pochissimo su quello che succederà martedì (ancora esiste l’ipotesi che il collegio difensivo chieda l’annullamento della prescrizione e dunque lo slittamento della sentenza), e soprattutto su quello che potrebbe succedere nel caso in cui arrivasse la condanna, con annessa interdizione dai pubblici uffici per 5 anni.
La strategia mediatica è dichiarata: non far trapelare nulla delle reali intenzioni del Cavaliere e anche del suo partito, tenere bassa la tensione, sospendere il tempo, se possibile.
E infatti, da quando mercoledì pomeriggio Berlusconi è tornato a Roma, nessun vertice ufficiale è stato organizzato, ma solo incontri sparsi, ristretti, top secret.
Più volte è stata vista entrare a palazzo Grazioli Daniela Santanchè, e altri big, da Gianni Letta in giù, si sono avvicendati.
Apparentemente, però, nessuno sa nulla di nulla.
«Non abbiamo novità , vedremo quello che succederà » è il refrain dei pidiellini.
L’unica cosa che filtra è che il Cavaliere starebbe muovendosi con «una forza sovrumana». Convinto che «la verità è dalla mia parte, non possono condannarmi, non può il mondo credere che chi come me ha pagato il Fisco per miliardi, poi corrompa per pochi milioni di euro».
Nello stesso tempo, l’esperienza gli ha dimostrato che le sue verità non vengono giudicate tali dai magistrati.
E però, giura chi lo ha incontrato, una qualche forma di ottimismo, magari anche solo quello della volontà , si sta diffondendo.
E comunque, lungi da lui qualsiasi voglia di lasciarsi andare all’abbandono: «Pensa al futuro – assicurano – come se le sue battaglie fossero appena iniziate.
Lavora alacremente a Forza Italia, è eccitato dall’apertura della nuova sede, vuole vedere foto, video, progetti, lavora come un pazzo».
Ieri sera, pochi e selezionati ospiti sono stati invitati a cena per guardare assieme il film sulla storia di Forza Italia voluto e creato da Francesco Giro.
È il segnale che, anche in caso di condanna, la strada del voto anticipato è segnata?
Nessuno lo conferma, ma tantomeno lo esclude.
Certo è che, dicono i duri da Miccichè alla Santanchè a Brunetta, il Paese «non starebbe a guardare, e il punto non sarebbe la salvaguardia del governo ma quella della democrazia».
E una deriva del genere, continua a chiedersi Berlusconi con i suoi, a chi gioverebbe?
E così, l’analisi serale di chi con Berlusconi ha parlato è che «i rischi arrivano da altri, da gruppi editoriali ostili e dai grillini. Noi non faremo la guerra. A meno che non arrivino attacchi clamorosi. Sul fronte politico o su quello giudiziario».
Paola Di Caro
(da “il Corriere della Sera”)
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Luglio 26th, 2013 Riccardo Fucile
L’ASSOCIAZIONE DEI NOTAI: “SOFFOCATE DALLA STRETTA SUI FINANZIAMENTI”… LA MISURA NON E’ SERVITA A NULLA
Dopo quello sulle start up, un altro dei provvedimenti simbolo del governo Monti per i giovani rischia di rimanere incompiuto.
L’Associazione sindacale dei notai della Lombardia punta i riflettori sulle società a un euro per gli under 35, affossate sul nascere dalla difficoltà di accedere al credito.
Il rapporto diffuso oggi evidenzia che il 60% delle 12.973 nuove aziende, tra srl semplificate e a capitale ridotto iscritte nel registro delle imprese al 31 maggio 2013, è inattivo ed “è quindi ragionevole sollevare il dubbio che molte siano scatole vuole che stentano a partire anche a causa della bassa capitalizzazione e della conseguente difficoltà a trovare finanziamenti”.
“A quasi un anno dalla loro entrata in vigore le nuove tipologie di srl debuttano per rilanciare economia e occupazione, ma i risultati destano non poche perplessità sulla reale efficacia della normativa che le ha introdotte”, spiega il dossier, sottolineando che al 31 marzo 2013 il 90% delle società costituite ha dichiarato di non avere personale.
E che, quanto alla capitalizzazione, le società costituite con un euro di capitale sociale sono il 17% del totale, il 45% delle nuove srl è stato costituito con meno di 500 euro di capitale sociale e il 19% delle società ha un capitale sociale compreso tra i 500 ed i 900 €.
“L’analisi e i numeri dimostrano come queste società non risultano ancora funzionali ai propositi di creare occupazione, rilanciare l’economia o attrarre nuovi capitali dall’estero”, ha dichiarato Domenico Chiofalo, presidente di Federnotai Lombardia, segnalando che “occorre eliminare le ombre e le perplessità che ancora persistono con l’attuale normativa”. Mentre Enrico Sironi, consigliere nazionale del Notariato, ha precisato che “al di là della gratuità dell’intervento del notaio non sono al momento previste altre agevolazioni nella filiera”.
Sironi ha poi spiegato che “gli imprenditori restano soffocati da tempi autorizzativi decisamente superiori agli standard europei, da fisco e oneri contributivi eccezionalmente alti e da fonti di finanziamento molto ridotte”.
Occorre quindi “migliorare gli strumenti a disposizione e siamo pronti come interlocutore tecnico a contribuire alla soluzione dei problemi, in un percorso di collaborazione con il decisore politico nel comune interesse del Paese”.
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Luglio 26th, 2013 Riccardo Fucile
FRANCESCHINI: “VOTINO SOLO GLI ISCRITTI” E I RENZIANI INSORGONO: VOGLIONO CHE VOTINO ANCHE QUELLI DEL PDL.. CONGRESSO A FINE NOVEMBRE
Congresso l’ultima domenica di novembre, ma con quali regole? In casa Pd è il giorno della
verità . In direzione va in scena lo scontro tra l’attuale segreteria e i renziani.
Sulla data le polemiche delle ultime settimane sembrano rientrare. «Il tempo del congresso è ora», dice Epifani.
«Lo faremo l’ultima domenica di novembre», annuncia Franceschini, «ma ora c’è bisogno di definire l’accordo sulle regole». E qui sorgono i guai.
La proposta di Epifani prevede primarie aperte di coalizione per la scelta del candidato premier, platea più ristretta invece per l’elezione del nuovo segretario del partito.
Inoltre Epifani ha genericamente spiegato che la presentazione delle candidature per la segreteria dovrebbe avvenire «dopo i congressi locali».
Il segretario finisce di parlare e subito cominciano le fibrillazioni alla direzione del Pd.
I renziani premono affinchè il nuovo leader del partito sia eletto da una platea più larga di quella degli iscritti al Pd.
Anche Gianni Cuperlo è critico e chiede che le candidature vengano presentate prima dell’inizio del percorso congressuale.
Epifani inoltre prevede la separazione tra segretario e candidato premier.
Franceschini parla in direzione e chiede che siano “gli aderenti” a votare per il segretario del partito, nel momento in cui la figura viene distinta da quella del candidato premier.
«Le regole sono di competenza dell’assemblea, ma la mia idea è questa: una norma statutaria per le primarie per il candidato premier, aperte, senza albo. Di conseguenza, credo giusto che il segretario sia eletto dagli aderenti, nel modo più coinvolgente possibile».
(da “La Stampa”)
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Luglio 26th, 2013 Riccardo Fucile
A BRESCIA IN PROVINCIA PASSA LA PROPOSTA CON IL VOTO DI PDL E FDI, QUELLI CHE PARLANO DI PATRIA, TRICOLORE E UNITA’ NAZIONALE
Un referendum per chiedere l’indipendenza della Lombardia.
Lo reclama una mozione approvata idal Consiglio provinciale di Brescia.
La proposta, à§a va sans dire, è arrivata dal gruppo della Lega Nord, che in un momento di profonda crisi di consensi sceglie di tornare a cavalcare i vecchi cavalli di battaglia, sventolando ancora una volta la bandiera della secessione (seppur per via referendaria), forse nel tentativo di ravvivare qualche tizzone ardente rimasto nascosto sotto la fitta coltre di cenere che si è posata sul movimento, consumato dalle lotte intestine e ormai incapace di dialogare con il proprio territorio.
Al documento è arrivato anche il voto favorevole del Pdl e di Fratelli d’Italia.
“Si tratta di una data storica per la nostra terra. Per la prima volta un ente istituzionale si esprime in modo favorevole alla promozione di un referendum popolare attraverso cui i cittadini lombardi possano liberamente esprimersi in merito all’indipendenza della regione”. Le parole e i toni trionfali sono quelli di Fabio Rolfi, consigliere regionale della Lega Nord e segretario provinciale bresciano del Carroccio.
Rolfi, che con la Lega a Brescia ha da poco perso le elezioni amministrative vinte da Emilio
Del Bono (Pd), oltre a ringraziare chi ha “capito l’importanza della questione” ha anche stigmatizzato il comportamento di chi, come i consiglieri del Partito democratico, ha “scelto di dichiararsi contrario”, dimostrando in questo modo “di essere prima burocrati di partito e poi lombardi”.
In una cosa Rolfi ha senz’altro ragione: è la prima volta che un’istituzione lombarda approva una mozione che di fatto si dichiara favorevole all’indipendenza della regione, calpestando il principio dell’Unità nazionale.
La mozione approvata dal consiglio provinciale Bresciano afferma che è “facoltà del popolo lombardo di invocare e rivendicare il diritto alla verifica referendaria, in modi e forme legali e democratiche, dell’atto di annessione della Lombardia all’ordinamento statutale italiano a seguito delle guerre risorgimentali”, appellandosi inoltre al diritto all’autodeterminazione dei popoli (elencando un’ampia casistica).
Diego Peli, capogruppo del Pd in consiglio provinciale, risponde con una battuta: “La patente di lombardi non ce la danno certo loro” e poi entra nel vivo della questione: “La mozione in Provincia è una pura mossa politica che tra l’altro cozza con tutte le scelte fatte fino ad oggi dalla Lega, che ha condotto la campagna elettorale parlando di macroregione del nord, per anni ha parlato di Padania e di secessione, oggi chiede un referendum per l’autodeterminazione della Lombardia. Ogni 15 giorni cambiano idea”.
Se la Lega non desta più stupore, è indubbio che non si comprende come possano aver votato a favore sia il Pdl che Fratelli d’talia: non era La Russa il ministro della Difesa che difendeva fino a ieri il tricolore e l’unità nazionale, non era la Meloni che organizzava e partecipava alle feste tricolori?
E il neo acquisto Alemanno cosa ne pensa?
Sono queste le basi su cui vogliono ricostruire la destra in Italia?
Alessandro Madron
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Luglio 26th, 2013 Riccardo Fucile
DOPO IL CASO ABLYAZOV DA PANZA ERA PARTITO IL VIA LIBERA PER LA RIORGANIZZAZIONE DEL DIPARTIMENTO DI PS, ORA IL DIETROFRONT: SAREBBE STATO “INVIATO PER SBAGLIO”
C’è un mezzo giallo che va ad aggiungersi alla già intricata vicenda del caso Ablyazov. 
Ovvero quello di una nota inviata «per sbaglio» dal Viminale sulla riorganizzazione del Dipartimento di Pubblica sicurezza.
L’annuncio dell’errore arriva dallo stesso Viminale che chiede di «non tener conto e di annullare» il comunicato sulla riorganizzazione del Dipartimento di pubblica sicurezza in quanto «erroneamente partito».
La nota partita, appunto, per errore, era questa: «Ridefinizione delle deleghe ai vice capi, auditing interno, sistema di informazioni ‘centralizzato».
Sarebbero le linee principali della riorganizzazione del Dipartimento della Pubblica Sicurezza decisa dal capo della Polizia Alessandro Pansa dopo l’esplosione del caso Shalabayeva.
Poi il «dietrofront»
Non si sa se ridere o piangere…
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Luglio 26th, 2013 Riccardo Fucile
IL MINISTERO DELLE BUONE INTENZIONI CHE PROMETTE MA NON TAGLIA LA SPESA
Da quando è entrato in carica il governo di Enrico Letta non ha lesinato annunci.
Il ministro Fabrizio Saccomanni, in particolare, sembra presiedere uno di quei dicasteri che si trovano nei libri di Harry Potter.
Potremmo chiamarlo il Ministero delle Buone Intenzioni: privatizzeremo qualcosa, toglieremo l’Imu, non aumenteremo l’Iva, ridurremo la spesa, distribuiremo cioccolata e così via.
Il nodo cruciale però è uno solo: tagliare la spesa pubblica.
Ce lo continuano a dire tutti, il Fondo Monetario, la Ue, l’Ocse, e da ultimo Peter Praet, capoeconomista della Bce i quali, che ci piaccia o no, hanno più influenza sugli investitori nostrani ed internazionali di Vendola o Fassina: questo vuol dire che finchè non si vedranno passi decisi in quella direzione continueranno a permanere dubbi sulla solvibilità del nostro Paese, lo spread non diminuirà e gli imprenditori stranieri non varcheranno le Alpi.
Inoltre, senza lanciarci in diatribe stile Krugman-Resto del Mondo sugli effetti benefici o malefici dell’eccessiva spesa pubblica, per l’Italia la finanza allegra dal lato delle uscite negli ultimi 20 anni non ha certo portato fortuna, anzi.
A questo punto scattano i meccanismi giustificazionisti di chi afferma però che dire di decurtare le spese è giusto, ma insomma, alla fine proprio non si può toccare niente.
Il simbolo di questo fallimento politico ed intellettuale è probabilmente rappresentato dall’ex ministro Pietro Giarda il quale sembra aver passato molti anni ad esercitarsi con la spending review per giungere ad un nulla di fatto.
Un’altra affermazione che si sente spesso è che se non fosse per gli interessi sul debito la nostra spesa pubblica sarebbe uguale alla media degli altri Paesi europei.
Orbene, l’Europa non è un bell’esempio di crescita e peraltro gli unici che hanno tassi di sviluppo ragionevoli sono nazioni che han tagliato le spese come Germania e Svezia, e comunque gli interessi sul debito esistono e non spariranno solo lamentandosene.
Eppure, in un bilancio statale che prevede 810 miliardi di uscite c’è sicuramente molto da tagliare da subito. Se pensassimo ad una riduzione per il 2014 equivalente all’1% del Pil si libererebbero risorse pari a 16 miliardi.
Da dove cominciare?
In primis dai sussidi alle imprese che ogni anno ammontano a circa 33-35 miliardi di euro.
Secondo lo studio di Giavazzi-Schivardi, commissionato dal governo Monti, circa 10 miliardi sono immediatamente eliminabili, in quanto forniti ad imprese che operano senza oneri di servizio pubblico.
In realtà si potrebbe agire anche su molto del resto: i pesanti contributi alle imprese di trasporto, ad esempio, derivano dalla mancanza di concorrenza, prezzi irrealistici del servizio e inefficienza.
Per farla breve, ammettiamo di non poter eliminare subito tutti i 10 miliardi in quanto molti escono dai rivoli delle amministrazioni locali e diamoci come obiettivo 6,6 miliardi, i 2/3.
Se poi il governo tagliasse l’Irap di 10 miliardi, misura molto più utile di altre, risparmierebbe incredibilmente 3 miliardi. Il 30% del gettito è infatti di provenienza delle pubbliche amministrazioni anch’esse soggette alla tassa.
Se vengono approvati gli interventi in materia di eliminazione dei finanziamenti ai partiti politici e ai loro giornali, riduzione dei parlamentari e dei loro stipendi, delle spese delle Camere, degli organi istituzionali (inclusi ambasciate e rappresentanze estere delle Regioni), si possono risparmiare tranquillamente 400 milioni.
Le stime (ultima quella di Andrea Giuricin per l’Istituto Bruno Leoni) dei benefici sull’eliminazione delle province si aggirano sui 2 miliardi, ma prevedendo che per fine del 2014 non si arrivi alla fine dell’iter e ci siano costi di transizione attestiamoci ad 1 miliardo.
Secondo i calcoli del giornalista economico Cobianchi ci sono ancora 3127 “enti inutili” che ci costano 7 miliardi l’anno e 7.000 società controllate da enti locali che solo di amministratori (24.000), revisori dei conti et similia incidono per 2,5 miliardi. Basterebbe fondere il 25% di tali società (e da qui a fine 2014 si può fare, basta la volontà politica) e accorpare o eliminare un quarto degli enti inutili e risparmieremmo, magari eliminando nel frattempo la Motorizzazione civile che fa più o meno le stesse cose dell’Aci, altri 2,5 miliardi.
Procedendo alla vendita di beni pubblici, imprese ed immobili, per 20 miliardi, risparmieremmo 1 miliardo di interessi (anche se lo Stato riceverebbe meno dividendi) e con ogni probabilità ne avrebbe un benefico effetto lo spread, in quanto il debito pubblico italiano verrebbe considerato più sostenibile.
Ricordiamo che lo 0,1% di tasso di interesse in meno equivale a 2 miliardi di euro l’anno.
Ceteris paribus, la cessione di beni combinata a uno spread minore dello 0,1/0,15% sono circa altri 2,5 miliardi tendenziali.
Ecco, siamo arrivati a 16 miliardi senza nemmeno cominciare a razionalizzare la spesa per acquisti delle Pubbliche amministrazioni, la sanità , i dipendenti pubblici (alcuni dei quali godono di ampi privilegi) o accorpare le migliaia di inutili comuni sotto i 5000 abitanti (sono quasi 6000!).
Le pensioni, poi, rappresentano ancora il 16% del Pil, la riforma Fornero è un palliativo che anche nel futuro le porterà a livelli di incidenza sul Pil molto alti. Dimentichiamoci, poi, i falsi invalidi e tutto quanto rappresenta lotta a sprechi e corruzione che dovrebbe essere intrapreso da qualsiasi governo di buon senso.
Se si cominciassero ad emanare provvedimenti seri in questi settori qualche effetto benefico ci sarebbe nel 2014, il resto negli anni a venire.
Ridurre la spesa, risparmiando sui costi di intermediazione e lasciando direttamente in mano i soldi a imprese e cittadini si può, basta volerlo.
E nemmeno c’è bisogno del Ministero della Magia.
Alessandro De Nicola
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