Luglio 20th, 2013 Riccardo Fucile
RESTA COORDINATORE IN SICILIA MA HA PERSO LE ELEZIONI, RESTA SEGRETARIO MA LA SANTANCHE’ GLI HA SFILATO IL PDL, E’ ANCORA DELFINO MA SENZA PIU’ IL QUID…LA FRASE DI PREVITI: “SE GLI MOZZI UN’ORECCHIA, LUI TI PORGE L’ALTRA”
Resta, ma dimezzato. E non solo come ministro.
Ridono infatti di lui i mezzi amici che l’hanno difeso e lo disprezzano i mezzi nemici che l’hanno salvato.
E per la polizia è come il generale Cadorna che, dopo Caporetto, scaricò le responsabilità del suo tragico comando sui poveri soldati (morti): «La viltà dei nostri reparti ha permesso al nemico …».
Pure i kazaki lo considerano ormai un dilettante incapace di gestire le conseguenze delle proprie azioni. Anche per loro Angelino Alfano ha fatto il lavoro a metà . Il dimezzamento è il suo destino.
«Alfano salvato, Alfano cucinato» dicevano dunque, ieri mattina, i berlusconiani, e non solo i falchi.
La mascella serrata, le grandi mani che ancora più del solito non sapeva dove mettere, il ministro dimezzato ha ascoltato il dibattito con i nervi infiammati, impasticcandosi di quelle caramelle alla menta prescritte da Berlusconi, il quale generosamente gli ha perdonato la calvizie: «Il mio povero Angelino ci ha provato, ma in lui il trapianto attecchisce solo a metà » racconta il Cavaliere, per metà tenero e per metà malizioso. La storia del loro rapporto ancillare riempie gli archivi dei giornali: l’innamoramento
catodico di Alfano, la sua prima investitura con una telefonata, «finalmente ho trovato chi mi sostituirà in tv», e poi l’incarico di segretario tuttofare di Bonaiuti sino al rovesciamento dei ruoli, il ministero della giustizia, il famigerato “lodo Alfano”…. Schifani lo battezzò: «l’alfan prodige».
Nel Pdl con lui sono spietati e al giudizio di Previti, «se gli mozzi un’orecchia, lui ti porge l’altra», un ministro in carica aggiunge il seguente certificato di dabbenaggine politica: «La cosa più drammatica è che ha visto il turbinio di kazaki attorno al suo tavolo, ma non ha capito. Non è come Scajola, lui davvero non sapeva, perchè non sa mai nulla».
E così il ministro dimezzato pativa le finte difese più dell’elemosina del voto nemico.
Insomma ha vissuto molto male la mezza vittoria che è stata anche un mezzo funerale politico.
Ma come capita spesso nella paradossale, attuale politica italiana, gli è arrivata addosso la calda solidarietà sincera di Emma Bonino, il ministro degli Esteri che, ieri mattina in aula, quando Alfano è stato finalmente assolto, si è alzata e gli ha stretto la mano e i miei occhi hanno faticato a credere che davvero fosse lei a guidare quella mano piccola e magra che, solitamente contratta come per effetto di una sostanza morale restringente, ieri mattina si espandeva nella realpolitik come per effetto di una sostanza amorale ampliante.
La donna- maremoto della politica italiana, quella fiera signora che diceva un giorno «ho imparato da Marco a fare e a pagare di persona le cose che si pretendono dagli altri», ieri metteva la sua mano nella mano di Alfano e non nella mano di quella donna deportata, Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente Ablyazov.
La Bonino non è insorta prima e non è volata ad Astana dopo, e non ha neppure mandato lì qualcuno di sua fiducia, non ha chiesto pubblicamente all’amico di Putin e del dittatore kazako Nazarbaev, a Berlusconi che tornava dalla Russia, di passare a prendere quella donna e riportarla nel Paese che non l’aveva protetta…
Certo non ha la stesse responsabilità politiche di Alfano, ma in quella stretta di mano ha messo in gioco molto di più. Alfano è li grazie al padrinato di Berlusconi, la Bonino c’è per la sua bella radicalità , perche è stata la nostra coscienza civile, la passione e la tensione dei nervi d’Italia, la voce che faceva ballare le magnifiche parole radicali.
Se a qualcuno interessasse studiare l’evoluzione più moderna del teatro dell’assurdo, se esistesse un premio teatral-politico intitolato a Ionesco, bisognerebbe certamente assegnarlo a quella stretta di mano che non era di solidarietà , ma di complicità .
E forse l’amore della Bonino risarcisce Alfano degli scherni del suo Pdl.
Come ha spiegato il falco Verdini a Berlusconi: «Se il Pd non l’avesse salvato sarebbe stato meglio perchè sarebbe caduto questo governo che ti vuole accompagnare in cella tendendoti per mano».
Ma poi ha completato il pensiero la pitonessa Santanchè: « E però, se gli avessero imposto le dimissioni, saremmo stati costretti a difenderlo davvero. E Alfano sarebbe diventato il nostro santo martire».
La storia italiana è piena di ministri dimezzati, la Dc li proteggeva costringendoli a dimissioni che diventavano immissioni a nuovo incarico.
Così fu per Cossiga, per Lattanzi, per Andreotti…
Sempre i dimezzati diventano infatti uomini senza pace, fuori posto anche quando, troppo tardi, lasceranno il posto, come Scajola che, proprio com’è ora accaduto ad Alfano, fu blindato dal governo Berlusconi e salvato da una mozione individuale che voleva sfiduciarlo perchè aveva detto che Marco Biagi, ucciso dalle Br, era «un rompicoglioni ».
E fu un insulto che, pronunziato da Scajola, faceva onore alla memoria del professore assassinato dai terroristi, perchè «il rompi», nel vocabolario di Scajola, indicava l’intellettuale di tenace concetto, il competente che non cedeva, il tecnico che non attaccava l’asino dove voleva il padrone, che rivoleva le consulenze che gli spettavano e pretendeva d’essere protetto da una scorta che Scajola gli negava, e mai si stancava di spiegare, di scrivere, di mandare mail.
Scajola fu salvato e dimezzato. Ma non durò.
E invece dalla prima nomina di coordinatore in Sicilia, all’ultima di ministro degli Interni, Alfano si è abituato al gusto e all’ideologia delle mezze porzioni politiche che rinvia alle mezze maniche, alla mezze calzette, ai mezzi uomini di Sciascia.
Come se fosse ingombrato dalla propria interezza, Alfano raddoppia le cariche ma ne dimezza la funzione.
Resta infatti coordinatore anche se in Sicilia perse le elezioni.
E’ ancora delfino, ma Berlusconi gli ha tolto il quid.
E’ segretario, ma la Santanchè gli ha sfilato il partito, al punto che non c’è quasi mai alle riunioni ristrette convocate da Berlusconi. Verdini, la pitonessa e Capezzone sì.
Il mezzo segretario no: «Alfano fa tutto per non fare nulla».
E al Viminale, per spiegarmi la differenza tra l’autorità di un ministro e il potere di un mezzo ministro, ora mi raccontano sprezzanti quanta polizia e quanti prefetti vennero coinvolti a fine giugno quando un ragazzino fregò la bicicletta di Alfano, a San Leone, la bella spiaggia di Agrigento.
Beffando la scorta e le auto blu, il povero ragazzo era riuscito a fuggire, persino con più destrezza dei suoi antesignani “ladri di biciclette” celebrati da De Sica.
«Vale più di tremila euro» aveva dichiarato Alfano, affranto e ferito nei suoi affetti più cari (più delle famose scarpe di D’Alema ma un po’ meno della bici del neosindaco di Roma Ignazio Marino).
Secondo le agenzie di stampa, Alfano si «è subito trasformato in un perfetto detective» e in mezza giornata «ha ritrovato la bicicletta».
In realtà , ha coinvolto l’Intelligence di Agrigento, i Ros, la capitaneria, i Nocs, i confidenti e forse persino gli uomini di panza.
E il ladruncolo scappava e quelli urlavano.
Il ragazzo ovviamente è stato preso. Ebbene, questa “smorfia” della legalità , questa parodia della polizia che arresta il pericoloso delinquente (e speriamo che qualcuno gli paghi un avvocato) fa il paio con il blitz kazako, è la stessa arroganza rovesciata, la stessa ferocia, lo stesso Alfano riflesso nello specchio di Alice.
Francesco Merlo
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Luglio 20th, 2013 Riccardo Fucile
DA BRESCIA A LECCO BEN 36 MINUTI IN PIU’, SI ALLONTANANO VENEZIA E TRIESTE
Ventiquattro minuti in più tra Pescara e Roma, trentasei tra Lecco e Brescia e oltre un’ora e mezza tra Taranto e Reggio Calabria.
Sette minuti in meno tra Milano e Ancona, trentatrè tra Napoli e Roma, via due ore e passa tra Firenze e Bologna.
Corre a due velocità l’Italia dei treni e cavalca i binari come fossero una fisarmonica: con tempi di percorrenza strizzatissimi lungo l’alta velocità oppure molto più dilatati di quarant’anni fa sulle altre tratte.
Sì, avete capito bene. Succede, per esempio, tra Messina e Palermo, dove oggi l’Intercity va a 74 chilometri all’ora e per raggiungere la destinazione ci mette ventinove minuti in più rispetto al Rapido del 1975.
Che rapido, in confronto, era davvero: andava a 95 all’ora.
Ma succede anche tra Brescia e Cremona, dove per fare 51 chilometri all’Espresso bastavano quarantuno minuti, contro i cinquantatrè che servono oggi al regionale più scattante.
Per scoprire lo stacco basta fare un confronto tra le pagine ingiallite di un orario ferroviario Pozzo datato 1975 e quello attuale.
«Sembra assurdo, eh? Anzichè andare più forte si va più piano».
Ride in modo amaro Cesare Carbonari, 71 anni, sedici trascorsi a fare avanti e indietro ogni giorno sulla Torino-Milano e oggi nel coordinamento dei ventuno comitati pendolari del Piemonte. «Abbiamo sì l’alta velocità , ma nelle stazioni si arriva con le vecchie linee tradizionali e in entrata o in uscita si creano ingorghi, si allungano i tempi».
E se anche non tutte le tratte di oggi, avverte Trenitalia, sono paragonabili a quelle di allora, perchè con più cambi o fermate, rimane il fatto che trentotto anni dopo un pendolare che da Roccasecca va ad Avezzano ci mette quattordici minuti in più; un turista sciatore che da Calalzo fa una puntatina su Venezia, otto; un impiegato che da Varese va a lavorare a Milano, due.
E un villeggiante che da Torino ricerca un po’ d’aria di mare per arrivare a Savona impiega quattordici minuti in più: due 2 ore e 11 contro un’ora e 57 di fine anni Settanta.
«E pensare che per velocizzare quella tratta ultimamente hanno soppresso alcune fermate, per guadagnare tempo» riflette il signor Francesco, ferroviere da oltre trent’anni.
«Si immagina il disservizio? Chi vive a Moncalieri o a Trofarello, paesotti belli grandi con migliaia di abitanti, per andarsene in spiaggia deve prima passare per Torino». Uno spostamento da lumaca, rispetto ai tempi agili dell’alta velocità che ha tagliato tre ore di viaggio tra Milano e Roma, quarantaquattro minuti tra Milano e Torino.
«Andrebbe fatto un piano nazionale dei trasporti, lo chiediamo da anni» continua Carbonari.
«Non solo sulle infrastrutture, ma anche sui materiali rotabili moderni, che consentano tra una stazione e l’altra di andare più veloce: ci sono più fermate, per salire e scendere dalle vetture con i gradini si perde tanto tempo. Come faccio a recuperare minuti se a trainare sono vecchi locomotori che vanno a 120 invece che a 160? Siamo utenti d’oro, paghiamo centinaia di euro l’anno, invece si investe solo per l’alta velocità ». «Sulla rete c’è poca manutenzione » fa eco il ferroviere Francesco, «ma costa tanto e va a finire che si fanno andare i treni più lenti. Poi si rompono e sopprimono la corsa».
Vincenzo Foti e Cristiana Salvagni
(da “La Repubblica“)
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Luglio 20th, 2013 Riccardo Fucile
UNA VITA DIVISA TRA LAVORO E FAMIGLIA
Il numero di badanti assunte nel nostro paese è pari a circa 1 milione e 700 mila. L’80% sono prevalentemente donne tra i 35 e i 50 anni.
La maggior parte provengono da paesi come Bielorussia, Moldavia, Romania e Ucraina.
In 10 anni la loro presenza è raddoppiato e se la crescita resterà pressochè invariata entro il 2030 il numero potrà sfiorare i 2 milioni e 300 mila.
Un viaggio in autobus da Verona a Minsk mi ha permesso di conoscere un po’ di più la loro “vita a distanza” fra Italia e Bielorussia.
Sul bus che da Napoli arriva a Minsk (capitale Bielorussa) nelle parole di Nadya e Yilenia l’eco della difficoltà di vivere una “vita da badante” e una “vita a distanza”. Loro come tante sono mamme, mogli, figlie e zie a distanza. Spesso dipinte secondo immaginari poco veritieri, la loro vita è scissa da necessità (lavoro) e virtù (rimanere la donna della loro famiglia lontana).
Come molte loro colleghe, anche Nadya e Yilenia finito il lavoro “vicino” dedicano molte ore a quello “lontano”, educando i figli lasciati nel paese di origine, facendo compagnia al marito e cercando di mantenere un equilibrio famigliare che dia continuamente ossigeno e forza alla scelta migratoria fatta.
Skype è il mezzo che garantisce di trasmettere passione e amore oltre i confini che le separano.
Lo utilizzano per condividere — e cito le loro parole — un “pasto a distanza” con i mariti, per educare i figli controllandone compiti, pagelle scolastiche, ascoltandone i bisogni e accompagnando senza sosta la loro crescita.
Sono sorelle quando parlano con i fratelli, sono zie quando la domenica si uniscono in preghiera con la famiglia riunita, sono compagne di vita quando ricordano — ogni giorno — ai mariti dove e perchè stanno vivendo.
Nella parola “badante” vi sono molteplici sfaccettature.
Oltrepassando l’immaginario collettivo del termine, il lavoro si suddivide in categorie precise: badanti che convivono ma lavorano part-time, altre che convivono operando a tempo pieno, “neobadanti” con compiti generali e badanti professionali che offrono un pacchetto assistenziale e casalingo completo.
Gli stipendi variano a seconda della tipologia e sono utili per comprendere le sfaccettature di questa professione.
A seconda delle esigenze economiche e dei limiti conflittuali di coppia (quando si tratta di una convivenza con il dipendente), la scelta viene abitualmente fatta con il marito prima di partire.
Il capitale sociale in Italia e le agenzie addette sono i tramiti che connettono le nostre case con quelle delle future collaboratrici.
D’inverno ne parte uno, d’estate invece sono due i pullman che riaccompagnano un numero infinito di donne nelle loro case bielorusse.
Raramente ci sono posti liberi, le tappe sulla rotta sono tedesche e polacche.
Altre vie verso paesi differenti non variano molto in numeri e significati.
All’arrivo sperano di non essere accolte direttamente dai mariti e dai figli. Per le badanti, che come quelle che ho incontrato, non fanno ritorno da anni, vedere dal finestrino l’avvicinarsi di posti cari confonde i sentimenti, facendo percepire l’emozione troppa e vana al tempo stesso.
La voglia di rincontrare chi ti aspetta da molto alimenta l’imbarazzo di un abbraccio, colmo di timori vissuti e futuri.
Ad attendere Nadya c’era il marito, una stretta di mano e due baci fra i due, poi il cammino silenzioso verso la macchina.
Le famiglie italiane che emettono domanda in questo bacino occupazionale sono circa 2 milioni e 500 mila (dati Censis 2011).
Sempre dalla stessa fonte si evince che la disponibilità media di assunzione sta lentamente diminuendo.
Il motivo principale è la crisi, così dicono.
I dati statistici informano inoltre che la spesa media di una famiglia italiana per assunzione si aggira attorno ai 700 euro mensili e, soprattutto al nord, le assunzioni hanno avuto un leggero calo.
Chi colma questo primo vuoto assistenziale?
Da una parte si riduce il lavoro per adempiere alla causa famigliare, dall’altra l’incalzante disoccupazione porta le persone ad arginare le spese occupandosi del mestiere che una volta faceva la badante.
Nonostante ci siano le prime battute d’arresto — non contando per altro il welfare informale che in questo campo incide notevolmente sui dati ufficiali —, il fenomeno resta ed è comunque in crescita.
Concludo passando il microfono alla storia per farci raccontare alcune vite di migranti italiane che dal nord-est, dal centro-sud e fino agli anni ’30, partivano per trovare occupazione come governanti in Egitto.
Meglio conosciute come “le Alessandrine” (per via della meta che era la città di Alessandria), questo interessante scorcio novecentesco è un ulteriore aiuto a riflettere che è tempo di conoscere da altre prospettive quell’universo femminile, italiano o meno poco importa, in grado di essere “donna a distanza” e “badante alla necessità ”.
Francesca Bottari
(da “Unimondo.org”)
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Luglio 20th, 2013 Riccardo Fucile
IN ITALIA SONO 830.000, DI CUI IL 90% STRANIERE
Sempre più sommerso, nonostante le regolarizzazioni.
Ecco come sta evolvendo il mestiere di collaboratrice domestica e di assistente familiare.
Una professione sempre più indispensabile (saranno 4,3 milioni gli anziani non autosufficienti in Italia tra 20 anni), che però stenta ad essere “riconosciuta”.
Le “badanti” irregolari, secondo le ultime stime, rappresentano la metà degli sprovvisti di permesso di soggiorno in Italia: 216 mila su 540 mila nel 2010.
È quanto emerge da “Badare non basta” di Sergio Pasquinelli e Giselda Rosmini, ricercatori Irs (Istituto ricerche sociali).
“Ci si auspica che il governo metta mano anche alla regolamentazione dell’assistenza domestica, perchè la crescita dell’irregolarità è preoccupante”, osserva Sergio Pasquinelli.
In Italia le badanti sono 830 mila, di cui il 90 per cento straniere.
Nel giro degli ultimi due anni si sono persi almeno 100mila posti di lavoro, segno che la crisi colpisce anche l’assistenza domestica, soprattutto tra le operatrici non italiane.
Il 57,3 per cento viene deal’est Europa (Ucraina, Moldavia e Romania), una su tre viene dal Sudamerica (Perù ed Ecuador in particoalre) e le italiane sono una su dieci.
“Per le straniere il lavoro da badanti è considerato un trampolino per provare a raggiungere posizioni più stabili”, commmenta Sergio Pasqunielli, dell’Irs. L’ascensore sociale, con la crisi, s’è inceppato: è ormai sempre più difficile passare dall’assistenza domestica a quella in ospedale, tanto che l’ultima tendenza, soprattutto per le badanti est europee, è quella di ritornare in patria.
Diminuiscono anche le badanti che convivono con gli assistiti: “Se gestito bene, il lavoro a ore fa guadagnare quanto chi convive con l’anziano — nota Pasquinelli -. In più in questo modo si conserva una certa indipendenza, è possibile fare domanda di ricongiungimento familiare e cercare altri lavori”.
Perchè quella della badante, appunto, è considerata solo una professione temporanea.
Nella ricerca svolta da Pasquinelli per il libro, il 23,2 per cento delle 320 intervistate ha scelto questa professione perchè la più facile da trovare, mentre il 16,8 ha fatto questa scelta per piacere.
Forse anche per questo, soprattutto tra le straniere, corsi di aggiornamento e formazione sono percepiti come un disturbo, una perdita di tempo e di denaro.
Il 36,5 per cento degli intervistati non è disponibile a fare corsi, mentre il 41 per cento è disponibile solo se gratuito.
“La disponibilità aumenta se i corsi sono brevi, non più di 70 80 ore e aprono a carriere più stabili”, precisa Pasquinelli, tra i curatori di “Badare non basta”.
In aumento anche il numero di badanti italiane.
Di nuovo, la grande responsabile è la crisi, che porta i familiari a diventare assistenti per evitare di pagare stipendi ad altri.
Così ci sono zone d’Italia dove la percentuale di badanti italiane arriva anche al 20 per cento, soprattutto al sud.
Un capitolo del volume di Pasquinelli e Rosmini è dedicato alla diffusione europea del fenomeno.
(da “Redattore Sociale“)
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Luglio 20th, 2013 Riccardo Fucile
ANGELO GARBIN, CONSIGLIERE COMUNALE DI CAVARZERE POSTA SU FB UNA FRASE INDEGNA CONTRO L’EX ESPONENTE DEL CARROCCIO CHE ISTIGAVA ALLO STUPRO NEI CONFRONTI DELLA KYENGE… LA BOLDRINI “PAROLE VOLGARI, SQUALLIDO MASCHILISMO”
Sembra un effetto domino, solo che non è un gioco ma una specie di guerra a chi la dice più grossa.
L’ultimo in ordine di tempo è un consigliere Sel: ”Mollate la Valandro con venti negri” dice Angelo Romano Garbin, eletto a Cavarzere (Venezia), che su Facebook in un post, poi cancellato, proponeva la sua personale punizione per la ex leghista Dolores Valandro, condannata dal Tribunale di Padova, per un suo post dove istigava alla violenza sessuale contro la ministra per l’Integrazione Cecilie Kyenge.
Garbin, 70enne consigliere comunale di Sel noto in zona come El Maestron, sul suo profilo ha scritto, in dialetto: “Ma varda che rassa de femena…la saria da molare in on recinto cò na ventina de negri assatanà e nesuno che la iuta e stare a vedare la sua reassion”.
La frase di Garbin è stata cancellata dal social network, ma la vicenda è finita in consiglio comunale dove il tutto è stato chiuso con un ordine del giorno che condanna la violenza verbale sulle donne e il razzismo, votato dalla maggioranza di centrosinistra.
Garbin, da parte sua, si è astenuto, non ha preso la parola, ma pare che non si sia scusato.
Gli organismi provinciali di Sinistra Ecologia Libertà di Venezia hanno imediatamente avviato le procedure di espulsione dal partito.
”Le dichiarazioni di Angelo Romano Garbin postate su Facebook rivolte a Dolores Valandro sono inaccettabili. Alla inaudita e colpevole violenza espressa dalla Valandro verso la ministra Kyenge, il consigliere di Cavarzere risponde con altrettanta violenza, con parole che sono segno della peggiore cultura machista. Sono affermazioni — afferma Alessandro Zan, deputato veneto di Sinistra Ecologia e Libertà — inaccettabili. Non si può essere complici in questo modo della degenerazione del confronto politico, usando un linguaggio e una comunicazione che offendono la civiltà , la democrazia, la politica e soprattutto le donne”
Immediata la condanna da parte del presidente della Camera, Laura Boldrini: “Vanno censurate nel modo più netto le parole volgari con le quali un consigliere Sel del Comune di Cavarzere si è rivolto all’esponente leghista Dolores Valandro”.
“Il pregiudizio non ha colore — afferma il presidente della Camera — come non lo ha il più squallido maschilismo, tanto più insopportabili quando provengono da forze politiche che delle questioni di genere e della lotta al razzismo fanno una loro bandiera. La politica — ammonisce — non potrà ritrovare ruolo e credibilità finchè non saprà recuperare sobrietà e liberare il suo linguaggio da questi eccessi, sempre più intollerabili“.
Interviene anche il segretario della Lega Maroni: «Offendere i leghisti si può, ecco la solita doppia morale della sinistra boldrinian-vendoliana e di certi giornalisti»., ma gli risponde per le rime Vendola: «Caro Maroni noi non perdoniamo a nessuno le volgarità razziste e sessiste. Voi invece con quelle ci costruite la politica e le vostre carriere..».
Nessuno innfatti ha provveduto a espellere Calderoli e Borghezio.
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Luglio 20th, 2013 Riccardo Fucile
NON SI SPOSTA DA NAPOLI LA “COMPRAVENDITA DEI SENATORI”, SI APRE UN ALTRO FRONTE A MILANO…E DA BARI NOVITà€ SU TARANTINI
E dire che era così contento che Angelino Alfano avesse scampato la sfiducia.
Gli era persino corso incontro, con un sorriso festoso, per congratularsi e salutare insieme “un’altra vittoria del Pdl”.
“Dobbiamo festeggiare — aveva detto Berlusconi al suo segretario vicepremier — perchè abbiamo appena dimostrato che se cade questo governo non sarà certo per colpa nostra, ma per colpa del Pd”.
Poi, un Cavaliere insolitamente taciturno si è diretto, con Schifani e Ghedini, verso la buvette di Palazzo Madama, confidando tutte le sue preoccupazioni sulla prossima sentenza Mediaset.
E proprio in quel momento, ecco arrivare da Napoli la prima di una serie di notizie che hanno reso la sua giornata da politicamente positiva a nera, nerissima, a livello personale. Cioè giudiziario.
Era da poco passato mezzogiorno quando un Ghedini più pallido del solito gli ha sussurrato in un orecchio che gli atti dell’inchiesta sul caso De Gregorio — parliamo dell’indagine sulla “compravendita” dei senatori — resteranno a Napoli e non verranno trasferiti a Roma, come richiesto proprio da lui e Longo.
Il sorriso del Cavaliere — che in questo caso è accusato di corruzione — si è subito spento.
E l’umore è tornato pessimo, con i tuoni e i lampi di un improvviso nubifragio a far da scenografia a un Berlusconi cupo, tornato a vedere il fantasma di un complotto dei magistraticontro di lui.
“Mi raccomando — ha tentato di esorcizzare — ricordatevi che mi piacciono le arance…”.
Neanche il tempo di finire la frase che da Milano è arrivato il secondo, tragico siluro di giornata: i suoi amici Emilio Fede, Lele Mora e “l’adorata” Nicole Minetti sono stati condannati, nel processo Ruby 2, a pene esemplari, sette anni per i primi due e cinque per la terza.
Raccontano che Berlusconi, in macchina verso Palazzo Grazioli con accanto l’immancabile Maria Rosaria Rossi, abbia chiesto di chiamare subito Fede (“Lo sapevo che sarebbe finita così — gli ha detto — condannano me e quindi hanno condannato anche te…”), ma poi proprio la Rossi l’ha avvertito che il peggio, in realtà , era altro.
Che cioè il giudice del Ruby bis non molla e, anzi, ha rilanciato.
Decidendo di trasmettere gli atti del processo al pm per valutare eventuali nuove ipotesi di reato a suo carico in relazione alle indagini difensive.
Nel mirino, stavolta, ci sono anche Ghedini e Longo. Brutta faccenda.
Come molto brutta, alla fine, gli è sembrata anche la questione di Napoli. Per l’incompetenza territoriale invocata su quel pasticcio della presunta compravendita di senatori, per essere giudicato a Roma, invece, non è servito puntare sulla condotta di De Gregorio, passato dall’Idv al centrodestra, e sull’articolo 68 della Costituzione, sulla libertà di voto e di mandato dei parlamentari.
Niente, i giudici hanno respinto tutto, tutto inammissibile.
Anche lì, insomma, il capitolo resta aperto.
GIORNATA NERA, nerissima per Berlusconi. Nuova tempesta in arrivo. Stavolta da Bari.
I giudici che lo indagano sulle famose feste con signore allegre alla corte di Tarantini hanno chiuso le indagini. E hanno stabilito che sì, il Cavaliere indusse “Gianpi” a mentire, mutando per di più lo scenario originario: Berlusconi agì da solo, molto prima che in scena entrasse Valter Lavitola, che infatti viene accusato di aver concorso al reato, ma solo dal 2010 in poi, “mantenendo ferma la volontà di Tarantini” a mentire, facendogli “pervenire periodiche rimesse di denaro” e mantenendo quel “deposito da 500 mila euro” da tenere a disposizione di Gianpi.
Per il resto, cioè fino al 2009, Berlusconi fece tutto da solo: spinse Gianpi a mentire “con offerte e promesse di denaro”, “assicurandogli a proprie spese la difesa”, “procurandogli un nuovo posto di lavoro” e un “prestito da 500 mila euro”.
Il reato ipotizzato è di “intralcio alla giustizia”, assai più grave di quello inizialmente contestato di induzione a mentire.
Ecco: da Milano a Bari la personale linea difensiva di Berlusconi viene messa sotto accusa.
E tutto — da Bari a Milano passando per Napoli — viene giù in poche ore. Donne, affari e linea da tenere dinanzi ai pm.
Gianpi, secondo l’accusa, “negava che Berlusconi avesse corrisposto a donne — appositamente reclutate da Tarantini per partecipare a cene e incontri — compensi in cambio di prestazioni sessuali”.
Ma soprattutto: taceva “il reale contenuto dell’incontro svoltosi tra Berlusconi e Tarantini dopo la mezzanotte del 13 novembre 2008”.
Le intercettazioni dimostrano che quella sera Berlusconi contattò Tarantini al telefono per dirgli: “Sono in macchina con il sottosegretario Bertolaso… ecco te lo passerei così vi mettete d’accordo direttamente”.
Le informative della Guardia di finanza raccontano che i due, poi, si accordano per un incontro, fissato alle 15 del giorno dopo, e anche sui risvolti di questa vicenda, spinto da Berlusconi, Tarantini avrebbe mentito.
Infatti il procuratore aggiunto, Pasquale Drago, precisa che Gianpi ha “taciuto la reale portata dell’interessamento di Berlusconi”, in suo favore, “con riferimento ai progetti di affari da concretizzare, mediante procedure illegittime, con i responsabili di Protezione civile e società di Finmeccanica”.
Gli affari non andarono in porto.
Ma il naufragio andato in scena ieri, Berlusconi, ancora non poteva immaginarlo.
Antonio Massari e Sara Nicoli
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Luglio 20th, 2013 Riccardo Fucile
GRASSO: “NON SONO AMMESSI RIFERIMENTI AL CAPO DELLO STATO”…PUO’ FARLO SOLO LETTA, GLI ALTRI POSSONO USARE SOLO LE CONSONANTI DEL PENTAGRAMMA TRATTO DAL CODICE FISCALE
Primo comandamento della nuova Monarchia del Napolitanistan: “Non nominare il nome di Napolitano invano, anzi non nominarlo proprio”.
L’ha dettato ieri Sua Eccellenza Piero Grasso, il garrulo presidente del Senato, probabilmente in preda ai postumi di un’overdose da caponatina, zittendo il capogruppo di 5Stelle Nicola Morra che aveva osato l’inosabile con questa frase temeraria: “Ieri è intervenuto nel dibattito politico chi sta sul Colle…”.
Alla parola “Colle” il solitamente sonnacchioso, ma sempre ridanciano Grasso è scattato come la rana di Galvani: “Non sono ammessi riferimenti al capo dello Stato, lasciamolo fuori da quest’aula”.
E quello, recidivo: “Il nostro presidente della Repubblica”. Ma l’Eccellenza è tornato a monitarlo: “L’ho invitata a lasciarlo fuori. Lei non può citarlo”.
Chissà in quale incunabolo il Grasso Ridens ha trovato il divieto di citare il Presidente della Repubblica nell’aula del Parlamento che l’ha eletto: forse negli stessi testi sacri, più misteriosi dei manoscritti di Qumran, che il Presidente consulta prima di dare ordini a governo, Parlamento, partiti, stampa e magistrati.
Il guaio è che poco prima il capo dello Stato era stato citato dal presunto premier Letta per fare da scudo al cosiddetto vicepremier Alfano, detto anche l’Estraneo o l’Insaputo perchè non sa neppure dov’è Viminale e in attesa che lo scopra il suo ufficio è occupato da diplomatici e funzionari kazaki che ordinano sequestri di donne e bambine.
Ma curiosamente, quando il Nipote ha citato il Presidente, Grasso è rimasto dolcemente assopito sullo scranno dorato, con aria beata.
Dal che si deduce che il I Comandamento vale solo quando si cita Napolitano per criticarlo: nominarlo per leccarlo si può, anzi si deve.
Un po’ come nella tradizione ebraica, che considera la divinità talmente sacra da essere impronunciabile.
Di qui il tetragramma YHVH, innominabile se non nella versione Adonai, peraltro riservata alle preghiere.
Ricapitolando: oltrechè divino, dunque infallibile, incriticabile, inindagabile, imperseguibile, impunibile, inarrestabile e inintercettabile, anzi diciamo pure inascoltabile anche se parla con un inquisito, Re Giorgio è anche ineffabile.
Qualora lo si volesse invocare, purchè con la dovuta devozione, il capo coperto o almeno velato, si dovranno usare le consonanti del pentagramma tratto dal codice fiscale: NPLTN.
Egli poi effonde le sue taumaturgiche virtù soprannaturali su chi gode della sua sacra protezione rendendolo, per balsamico contagio, egli stesso insindacabile.
Per esempio NRC LTT e NGLN LFN.
Inutile proporre mozioni di sfiducia o azzardare critiche: santi subito.
Alle disposizioni della nuova teocrazia si erano già attenuti nei loro editoriali di ieri Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica , e Claudio Sardo, affondatore dell’Unità . Essendo critici col vicepremier LFN al punto da ipotizzarne financo le dimissioni, avrebbero dovuto criticare anche NPLTN che le aveva escluse nel Supermonito del Ventaglio, bevendosi le balle di LFN, elogiando il governo LTT per il suo proverbiale “spirito d’iniziativa” e incolpando per l’affare kazako i kazaki.
Invece si sono portati avanti col lavoro e NPLTN non l’hanno neppure nominato. Come se non avesse mai parlato.
Resta da capire se la curiosa omissione si debba a una loro iniziativa congiunta di autocensura, o a una mossa precauzionale delle rispettive redazioni.
Le quali, temendo che i due partissero in quarta contro il Presidente con effetti destabilizzanti sui mercati internazionali, potrebbero aver chiuso il Fondatore e l’Affondatore in una camera iperbarica, privandoli di tutti i canali di approvvigionamento informativo: niente tv, niente web, niente agenzie.
E lasciandoli ignari del Supermonito del Ventaglio.
Se le cose stessero così, sarebbe auspicabile un nuovo blitz congiunto italo-kazako per liberarli.
L’Onu dica qualcosa: Scalfari e Sardo devono sapere.
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Luglio 20th, 2013 Riccardo Fucile
FUNZIONARI E DIRIGENTI DA CUI È PASSATA LA PRATICA, NESSUNO SAPEVA MA HANNO AGITO
I primi giorni del mese di maggio Amit Forlit, titolare dell’agenzia investigativa con sede a Tel Aviv, ha incontrato a Roma Paolo Sabbadini, senior advisor per due banche di investimento di cui una (Cukierman&Co.) con sede unica in Israele, per chiedergli se conosceva qualcuno di fidato a cui conferire un incarico investigativo: trovare, su richiesta delle autorità del Kazakistan, Muktar Ablyazov.
Lo riferisce lo stesso Sabbadini il 29 maggio agli uomini della Digos, quindi poche ore dopo il blitz a Casal Palocco e mentre Alma Shalabayeva è ancora detenuta al Cie. Gli agenti sono dunque messi a conoscenza che l’incarico agli uomini dell’agenzia investigativa Sira, a cui il 18 maggio Forlit dà formale mandato di rintracciare il dissidente, arriva dalle autorità del Kazakistan.
Gli uomini dell’agenzia di investigazione incaricata di trovare Ablyazov sanno dai primi giorni del mese che è un ricercato. E lo individuano a Casal Palocco “il 16 e 17 maggio”, riferisce Mario Trotta, carabiniere in pensione, a verbale.
Perchè se sapeva che era un ricercato non lo ha comunicato alle autorità come avrebbe dovuto?
Sentito dal Fatto Quotidiano, Trotta risponde: “Perchè non ne ero a conoscenza”. Eppure i verbali dicono altro.
Questa è solo una delle tante incongruenze di questa particolare caccia all’uomo finita con la consegna di moglie e figlia di Ablyazov al Paese da cui è fuggito perchè perseguitato.
Uno dei tanti passaggi ancora oscuri, zeppo di mancanze di comunicazioni e contraddizioni che emergono dagli atti allegati al-l’inchiesta affidata al pubblico ministero, Eugenio Albamonte.
Ma i buchi della vicenda emergono anche dai documenti allegati alla relazione del capo della Polizia, Alessandro Pansa, illustrata da Angelino Alfano in Parlamento.
A cominciare dal questore, Fulvio Della Rocca, sentito il 15 luglio.
Dopo aver ricostruito i giorni del blitz a Casal Palocco e del rimpatrio di Alma e della figlia di 6 anni, Della Rocca spiega di essere stato informato “dell’avvenuta espulsione e delle varie procedure utilizzate per la sua realizzazione da Improta solo in un momento successivo alla sua realizzazione”.
E conclude: “Personalmente non ho contattato direttamente il Dipartimento nelle varie fasi perchè consapevole che lo stesso era direttamente informato”.
“Il ministero è stato informato”
Anche il vice capo vicario della Polizia, Alessandro Marangoni, dichiara di non aver saputo nulla delle due donne: “La sera del 28 il prefetto Valeri mi comunicò che aveva ricevuto dall’ambasciatore del Kazakistan a Roma, mandatogli dal prefetto Procaccini (capo gabinetto del ministro Alfano, ndr) una notizia precisa sulla localizzazione di un pericoloso latitante kazako. (…) Il giorno dopo mi informò che le ricerche avevano dato esito negativo e che di ciò era stata data notizia al Gabinetto del ministro. Della vicenda non ho più sentito parlare”.
Quando poi, ricorda, “il primo pomeriggio di domenica 2 giugno il capo della polizia mi chiese notizie sull’espulsione delle due donne kazake. Io, non avendo alcuna informazione su di esse, presuntivamentericondussiallavicenda del latitante kazako”. Anche il capo della Direzione centrale anticrimine, Gaetano Chiusolo, sentito nell’ambito dell’indagine interna avviata dal Viminale e affidata a Pansa, ha riferito di non sapere nulla del rimpatrio di Alma avvenuto in appena due giorni.
Ma ricorda il particolare del secondo blitz, il 29 maggio. “Nella mattinata ho ricevuto una telefonata del prefetto Valeri che mi riferiva che l’ambasciatore kazako, con il quale si trovava nella stanza del capo di Gabinetto (Procaccini, ndr), sosteneva che il latitante potesse essere ancora nella villa e che lo stesso disponeva di ulteriori informazioni. (…). Successivamente vengo informato dell’esito negativo di tali ricerche e non ho più notizie della vicenda, se non quando incominciano le polemiche sugli organi di stampa”.
C’è poi il verbale del capo della Criminalpol, Francesco Cirillo: “Il funzionario Gennaro Capoluongo mi comunicava che già era stata informata la Questura di Roma e che le attività erano già state avviate per verificare la posizione del cittadino straniero”, scrive Cirillo ricostruendo quando accaduto il 28 maggio.
“Della presenza della moglie del ricercato e della figlia ho appreso solo successivamente”.
Va sottolineato che, sempre da quanto risulta agli atti che il Fatto ha potuto leggere, Capoluongo è il funzionario che poi riceverà informazioni dettagliate dall’Inghilterra sullo status di rifugiato di Ablyazov, ma solo il 6 giugno e solo a seguito di interessamento diretto da parte del ministero degl iEsteri attraverso l’ambasciata italiana a Londra.
“Non avevamo nessun dubbio, andavano espulse”
In quei giorni nelle stanze della Questura il dissidente è considerato un pericoloso criminale internazionale, come spacciato dall’ambasciatore del Kazakistan.
E come scrive il pomeriggio del 31 maggio in un fax che invia alla Procura della Repubblica alle ore 15.33 il capo dell’ufficio immigrazione Maurizio Improta per rispondere alla richiesta, avanzata dal pm, di sentire Alma a spontanee dichiarazioni. Ma il funzionario risponde che non serve: deve essere rimpatriata.
E infatti la donna, insieme alla figlia, sono già a Ciampino accompagnate dall’agente Laura Scipioni, su incarico di Improta.
Il funzionario, sentito da Pansa al fine del-l’indagine interna, ha dichiarato: “Durante tutto il procedimento, l’occasionalità del volo diretto e il rapporto con i diplomatici, tipico di gran parte delle espulsioni che vengono effettuate nel mio ufficio, non mi hanno fatto sorgere alcun dubbio nè sulla legittimità dell’operato nè sulla particolare rilevanza dell’episodio. Ero del tutto consapevole che si trattava della moglie, irregolare sul territorio nazionale, di un pericoloso latitante straniero”.
Perchè all’ufficio immigrazione, di fatto, sono arrivate informazioni non corrette che in realtà altri uffici avevano.
Non sono arrivate o non sono state fatte arrivare?
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Luglio 20th, 2013 Riccardo Fucile
“HO INSEGNATO IO A ROBERTO A USARE LE POSATE E A SBUCCIARE LE BANANE PRIMA DI INGOIARLE INTERE. E BISOGNA CAPIRE LE DIFFICOLTA’ DELL’HOMO PADANUS, COSTRETTO A VIVERE IN UNA REGIONE CHE NEMMENO ESISTE”
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
«Io zono Wala Paipan quarto, principe ereditario del Regno degli Oranghi,
attualmente con zede vacante a cauza della diztruzione ziztematica delle forezte dell’Asia meridionale e delle grandi izole e penizole zottoztanti.
Mi zcuzo per l’italiano imperfetto, noi oranghi ci ezprimiamo normalmente in zetico, un idioma arboreo che lazcia evidenti tracce anche quando uziamo le altre lingue. A meno che voi pozziate darmi un aiuto inzerendo il voztro correttore automatico, grazie…. Così va decisamente meglio.
«Vi scrivo in merito alla appassionante questione etnica sollevata da un emerito rappresentante del vostro Paese, il vicepresidente del Senato Calderoli, che ho l’onore di avere personalmente conosciuto durante una sua visita ufficiale nel Borneo. Gli ho insegnato a mangiare con le posate e a sbucciare le banane prima di ingoiarle intere, e abbiamo molto simpatizzato. Mi occupo per diletto di zoologia (ma il mio vero ramo, al quale sono appeso anche in questo momento, è la botanica) e senza la pretesa di trarre conclusioni definitive posso dirvi quanto segue
Tra i grandi primati , dotati di facoltà diverse ma tutti situati sui gradini più alti della scala evolutiva (in ordine decrescente: l’orango, il gorilla, lo scimpanzè, l’uomo) il solo nei confronti del quale la scienza serba ancora il dubbio di una effettiva inferiorità è homo padanus, una piccola tribù dell’Europa meridionale.
Poichè, come tutti gli esseri senzienti e civili, detesto fare affermazioni discriminanti, mi sento in obbligo di spiegarmi meglio.
Mentre noi oranghi sappiamo di essere oranghi, i gorilla di essere gorilla, i francesi di essere francesi, i congolesi di essere congolesi, homo padanus è convinto di appartenere a una specie inesistente: appunto il padano.
In psicoanalisi, diremmo che si è di fronte al classico fantasma paranoico.
Un antropologo preferirebbe parlare di simulazione etnico-culturale, con pochissimi precedenti nella storia: il più noto riguarda gli elefanti di Annibale che, dopo un mese di attraversamento delle Alpi, sostenevano di essere maestri di sci della Val di Fassa. Noi oranghi preferiamo pensare, secondo i dettami della nostra cultura olistica e della nostra natura cordiale, che i padani siano semplicemente “compagni che sbagliano”, cioè scimmie proprio come noi, come gli italiani, come i congolesi, però inconsapevoli della loro identità e del loro destino, che è comune a quello di tutte le grandi scimmie
Noi grandi scimmie siamo destinate a condividere lo stesso habitat. Anche se la specie meno intelligente tra noi, l’uomo, è impegnata soprattutto a distruggerlo.
Ho visto delle fotografie della terra dove vivono i sedicenti e secredenti padani. Consiste in una serie ininterrotta di rotatorie stradali e capannoni. A perdita d’occhio. La sola specie vegetale tutelata è il cipresso dell’Arizona, una orribile aghifoglia bluastra, dall’aspetto plasticoso, che viene usata per fare tristi siepi di tristi villette.
Il padano tipico, dunque, nasce e cresce tra una siepe di cipressi dell’Arizona e una rotatoria stradale: come fa a diventare normale?
Prima di criticare l’aspetto fisico, effettivamente impressionante, del signor Calderoli o del signor Borghezio, riflettete sulle spaventose condizioni ambientali nelle quali sono cresciuti.
Perfino io, che ho portamento regale, braccia in grado di sradicare un albero, genitali enormi, la bocca larga più di un metro e un folto pelame color ruggine che adorna tutto il corpo, se fossi vissuto tra quelle rotonde stradali e quei capannoni sarei ridotto come loro: un fantoccio pallido e sovrappeso con un forte complesso di inferiorità nei confronti delle altre scimmie.
Vi invito, in conclusione, a non discriminarli.
Non è di disprezzo che hanno bisogno, ma di soccorso e di cure.
A voi il tipico saluto augurale degli oranghi: zoa-zuu-zeka. Che vuol dire: a ognuno il suo albero, purchè non sia un cipresso dell’Arizona».
Michele Serra
(da “L’Espresso“)
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