Luglio 29th, 2013 Riccardo Fucile
STESSA SORTE PER UN ASSESSORE LEGHISTA DI MONTAGNANA E ZAIA NE CHIEDE L’ESPULSIONE IMMEDIATA… E’ ORA CHE LA LEGGE VENGA APPLICATA A CHI PENSA DI GODERE DI IMPUNITA’ NELL’ISTIGARE ALL’ODIO RAZZIALE SUL WEB
Sul suo profilo facebook aveva insultato e minacciato l’uso delle armi contro il ministro per l’Integrazione, Cecile Kyenge.
Per questa ragione un 61enne veronese è stato denunciato dalla Digos della Questura scaligera.
La sua casa è stata perquisita, ma non sono state trovate armi. L’uomo è stato, invece, denunciato a piede libero.
La ministra è attesa a Verona il 4 agosto all’inaugurazione di “African Summer School” e In vista del suo arrivo la polizia sta svolgendo servizi di prevenzione.
“PRONTO A USARE ARMI” –
Sul proprio profilo di Facebook, l’uomo, secondo quanto riscontrato dalla Digos, il 26 luglio aveva “postato” un messaggio in cui dichiarava di essere pronti ad accogliere la “ministra negra” con delle armi.
Questa mattina, inoltre, sempre sullo stesso account del social network, “condividendo” una foto raffigurante la ministra seguita dalla frase “Kyenge? No grazie!”, era stato inserito un ulteriore messaggio offensivo e minaccioso.
“DENUNCIATO PER MINACCE E DIFFAMAZIONE” –
La polizia, coordinata dalla Procura della Repubblica scaligera, ha rintracciato sul luogo di lavoro l’indagato, perquisendolo.
Gli è stato inoltre trovato addosso l’Iphone utilizzato per scrivere sul web le minacce contro la ministra.
L’uomo, alla presenza del suo legale, ha giustificato il proprio gesto collegandolo ad un recente furto nella sua abitazione che avrebbe detto essere stato compiuto da cittadini extracomunitari.
Avendo ammesso le proprie colpe e non avendo trovato armi nella sua abitazione, per lui è scattata la denuncia a piede libero per diffamazione e minacce pluriaggravate, anche dalla discriminazione razziale.
ALTRI INSULTI DA UN ASSESSORE LEGHISTA –
Un altro caso di insulti alla ministra è stato denunciato, sempre in Veneto, dalla deputata del Pd, Giulia Narduolo.
“La foto della ministra con la scritta sopra ‘Dino dammi un Crodino’ a richiamare il gorilla di una pubblicità televisiva”.
E’ il post – scrive la parlamentare democratica – che Andrea Draghi, assessore leghista alla sicurezza del Comune di Montagnana e consigliere provinciale, avrebbe postato qualche giorno fa sulla sua pagina Facebook. “Cecile Kyenge subisce un’altra volgare e becera aggressione e dopo agli oranghi e alle scimmie, viene paragonata ad un gorilla”, ha commentato Narduolo.
LA CONDANNA DI ZAIA –
Condanna immediata da parte del governatore del Veneto Luca Zaia. “Se confermato – ha detto Zaia, – è da condannare senza se e senza nella maniera più assoluta. Questo signore si scusi e tolga la foto dal suo profilo Facebook. Il partito prenda immediatamente le distanze e i provvedimenti del caso”.
“Questo fatto – ha aggiunto – lo considero più grave degli altri perchè avviene dopo una serie di fatti e polemiche che avrebbero dovuto far capire anche a chi finge di non capire che queste offese appaiono intollerabili e sono estranee al confronto e alla dialettica politica”.
(da “La Repubblica”)
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Luglio 29th, 2013 Riccardo Fucile
INDAGINE SULLE OMISSIONI NELL’ESPULSIONE…LA TESI RIDICOLA DI LETTA SUI NOSTRI SERVIZI SEGRETI
La Procura di Roma ha aperto un fascicolo intestato “atti relativi a”, ossia senza ipotesi di reato nè indagati, sulle presunte omissioni legate all’espulsione di Alma Shalabayeva.
L’inchiesta è stata avviata sulla base della relazione del presidente del Tribunale di Roma, Mario Bresciano sul rimpatrio forzato della moglie del dissidente kazako Ablyazov.
LA RELAZIONE DI BRESCIANO
Il documento è arrivata oggi all’attenzione del Procuratore capo Giuseppe Pignatone e del pm Eugenio Albamonte.
Il presidente del Tribunale era stato incaricato dal ministro Cancellieri di indagare sull’operato svolto dal giudice di Pace, Stefania Lavore, che convalidò il 31 maggio scorso il trattenimento al Cie di Ponte Galeria di Shalabayeva.
“FRETTA INSOLITA ED ANOMALA”
Bresciano nella relazione non aveva rilevato anomalie nell’operato del giudice di pace. Mentre sottolineava che il comportamento della polizia come animato da una “fretta insolita ed anomala”, aggiungendo che il giudice “è stata tratta in inganno perchè ci sono omissioni nell’attività della polizia e atti che mancano”.
ACQUISITE LE CARTE
Il pm Eugenio Albamonte ha incaricato la squadra mobile di acquisire le carte relative al caso, presso la Prefettura, l’Ufficio stranieri della Questura di Roma e l’Ufficio del giudice di pace.
Il fascicolo si aggiunge a quello aperto per falso e ricettazione in relazione alla presunta documentazione contraffatta presentata dalla donna.
Il caso ha già provocato le dimissioni del capo di Gabinetto del ministro dell’Interno, Giuseppe Procaccini. E forti tensioni all’interno del governo, con una mozione di sfiducia, respinta, al titolare del Viminale, Angelino Alfano,
LETTERA DEL PREMIER AL COPASIR
Della vicenda si sta occupando anche il Copasir, che ha ascoltato il sottosegretario Minniti e ha ricevuto contestualmente una lettera del premier Enrico Letta.
“I servizi segreti non hanno saputo -scrive il presidente del Consiglio – della presenza di Mukhtar Ablyazov e di sua moglie in Italia, nè dell’espulsione della donna. Non erano tenuti a saperlo in quanto il dissidente kazako non rappresentava un pericolo per la sicurezza nazionale”.
Tesi assai originale, visto che se non sono in grado di tutelare un dissidente politico da parte di regimi totalitari cosa ci stiano a fare i Servizi segreti non si sa.
Il non saper nulla è l’anticamera per consentire a qualsiasi regime totalitario di eliminare nel nostro Paese gli avversari politici?
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Luglio 29th, 2013 Riccardo Fucile
TRADITO L’ESITO DELLA CONSULTAZIONE DEL 26 MAGGIO: CITTADINI PRESI PER IL CULO… E IN CONSIGLIO COMUNALE SCOPPIA LA BAGARRE
Come volevasi dimostrare a Bologna, un ordine del giorno targato Pd salva i finanziamenti pubblici alle materne private, nonostante l’esito del referendum del 26 maggio.
Ma durante la discussione, in consiglio comunale è scoppiata la bagarre: “Che fine ha fatto il nostro voto?” hanno urlato alcuni manifestanti, entrati in aula con in mano striscioni sia contro i soldi alle scuole private, sia contro il rincaro dei bus.
“Avete tradito il vostro elettorato, non rappresentate più nessuno”, ha detto un giovane rivolgendosi ai consiglieri dei Democratici.
Poco tenera anche la consigliera di Sel, Cathy La Torre, che ha definito l’asse Pd-Pdl “uno schiaffo ai cittadini”.
Nessun passo indietro però da parte del sindaco Virginio Merola: “Non possiamo fare nostre le ragioni dei promotori del referendum, perchè significherebbe cancellare la legge Berlinguer che istituisce il sistema scolastico integrato pubblico privato” (il che non è peraltro vero perchè non entra nel merito dell’entità dei finanziamenti…n.d.r.)
Alla fine il documento è stato approvato con i voti favorevoli di Pd, Pdl e Lega Nord
Giulia Zaccariello
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Luglio 29th, 2013 Riccardo Fucile
VOLUTE DAL FASCISMO PER SOSTENERE LE FAMIGLIE MENO AGIATE, POI SIMBOLO DEGLI ANNI DEL BOOM, SONO QUASI TUTTE SCOMPARSE… POCHI COMUNI RIESCONO A MANTENERLE, AL LORO POSTO I “CENTRI ESTIVI”
Una foto piena di bambini in fila, con pantaloncini corti tutti uguali, sguardi da piccoli teppisti in vacanza e una spiaggia — o un prato di montagna, poco cambia — sullo sfondo.
Eccola qui l’immagine a cui tutti pensiamo quando si parla di colonie estive.
E la foto, nelle nostre menti, è quasi invariabilmente in bianco e nero, riporta a ricordi d’infanzia un po’ sbiaditi. Non potrebbe essere altrimenti: anche le colonie estive, come tante altre tradizioni, si stanno trasformando in una rarità , un residuo del tempo che fu.
Persino la parola sta cadendo in disuso ed è più comune sentir parlare di «centri estivi».
La differenza però non è da poco: se le colonie si svolgevano al mare o in montagna, i centri estivi sono la loro versione urbana e offrono una serie di attività da fare nelle scuole di città , riaperte per l’occasione.
Insomma, addio al fascino della scoperta e della vacanza senza mamma e papà . Il vantaggio è tutto economico, perchè costano meno sia per le famiglie che per i Comuni.
Proprio le difficoltà economiche degli enti locali hanno avuto un ruolo importante nella semi-sparizione delle colonie estive.
Un tempo erano soprattutto i Comuni ad organizzarle e finanziarle, il contributo chiesto alle famiglie era molto ridotto e diventava così una forma di assistenza sociale: una vacanza anche per i figli di chi non poteva permettersi le vacanze.
Ma oggi per gran parte delle amministrazioni il servizio costa ormai troppo e – come detto – è stato rimpiazzato dai centri estivi.
Vale anche per Torino: per i ragazzi tra sei e 11 anni ci sono decine di opportunità in città e una sola «in trasferta» a Loano, sulla riviera ligure.
Non è neppure una colonia, ma una vacanza educativa di 12 giorni, con posti limitati a un gruppetto di 26 ragazzi per ogni turno, 104 in tutta l’estate.
Tra le grandi città l’eccezione è Milano, dove quest’anno il Comune ha messo a disposizione 4 mila posti per le sue «Case Vacanza».
Anche in questo caso nessuno si azzarda più a chiamarle colonie. Per accedere al bando bisognava fare domanda con mesi di anticipo, ma ciònonostante sono arrivate 5239 richieste, in crescita rispetto al 2012.
Anche su questo versante la crisi sembra averci mezzo lo zampino: il prezzo era di soli 168 euro per 12 giorni di soggiorno (o addirittura zero con reddito familiare inferiore a 6500 euro) e per molte famiglie milanesi è stata una vitale soluzione «low-cost» per le vacanze dei figli.
Però, a parte Milano e poche altre isole felici, anche quest’attività è prerogativa sempre meno degli enti pubblici e sempre più di privati, associazioni e parrocchie.
In realtà , quelle che resistono meglio sono soprattutto le colonie organizzate dalle aziende per i figli dei dipendenti: tradizione, questa sì, che non accenna a sparire. Così, continuano ad essere in piena attività colonie vecchie di oltre 70 anni e ospitate da edifici ormai storici, come la colonia Fiat di Marina di Massa, in Toscana, e quella Agip – oggi dell’Eni – a Cesenatico.
In molti casi, invece, il problema è riconvertire le colonie dismesse, strutture in disuso a cui dare nuova vita.
Succede sulle coste dell’Emilia-Romagna, dove le colonie marine sono poco meno di 250 e occupano 1 milione e mezzo di metri quadrati di territorio.
Spiega Paola Gualandi, funzionaria della Regione: «Gran parte di quelle che erano di nostra proprietà sono state vendute e in alcuni casi hanno davvero trovato nuova vita». È il caso della grande colonia marina di Cattolica, che oggi ospita un interessante parco tematico marino: «Le Navi».
Discorso simile per l’ex colonia «Novarese» di Miramare di Rimini, che sta diventando un polo del benessere, con spa e centro talassoterapico.
Stefano Rizzato
(da “La Stampa”)
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Luglio 29th, 2013 Riccardo Fucile
DAL 2009 ACQUISTI DALL’ESTERO PER 47 MILIARDI…. NEL 2013 PASSATE DI MANO GIA’ 42 AZIENDE
Niente paura. Nessuna linea Maginot da erigere a protezione delle nostre aziende.
Tanto meno la volontà di rilanciare il dibattito sulla necessità dell’intervento statale misto a un campanilismo vecchia maniera non più adeguato ai tempi del commercio globale.
Solo una ricognizione sul made in Italy “venduto” agli stranieri nei cinque anni della Grande Crisi tra luoghi comuni da sfatare, insicurezze da dissipare, persino qualche buona notizia nel Belpaese preda degli appetiti degli investitori esteri a caccia di marchi riconosciuti.
Dal 2009 ad oggi sono state acquisite da imprenditori/fondi d’investimento/fondi sovrani 363 aziende italiane per un controvalore di circa 47 miliardi di euro.
Lo studio realizzato dalla società di revisione Kmpg per il Corriere della Sera testimonia come il picco si è avuto nel 2011 quando sono state 109 le operazioni sul mercato italiano, mentre nei primi sei mesi del 2013 si è in linea con gli anni precedenti (42 acquisizioni per un ammontare di 4,1 miliardi di euro) nonostante «la dura recessione economica».
Da Bulgari acquisita dalla holding del lusso Lvmh per 4,3 miliardi di euro (2011) alla Parmalat finita nelle mani francesi di Lactalis per 3,7 miliardi (stesso anno).
Dalla più recente Loro Piana, rilevata all’80% dallo stesso gruppo emanazione dell’imprenditore Bernard Arnault (2013) alla Coin controllata dal fondo inglese di private equity Bc Partners a fronte di una spesa di 906 milioni di euro (sempre nel 2011).
E ancora: la Ducati comprata dalla tedesca Audi del gruppo Volkswagen per 747 milioni (2012) e il gruppo Valentino ora di proprietà di Mayhoola for Investment, società riconducibile allo sceicco Hamad bin Kahlifa al Thani, emiro del Qatar.
L’elenco potrebbe proseguire con Moncler, Ferrè, Bertolli, Orzo Bimbo, Cesare Fiorucci e Ferretti yacht (ora cinese), ma è da smentire lo stereotipo che le acquisizioni da oltrefrontiera siano accelerate da sette trimestri consecutivi di Pil italiano negativo.
In realtà gli investimenti diretti esteri seguono una dinamica speculare alla situazione economica del sistema-Paese di destinazione.
Nel 2007 — l’ultimo anno di crescita sostenuta — le operazioni sul mercato italiano avevano toccato la cifra record di 28,4 miliardi di euro.
Innocenzo Cipolletta, neo-presidente del Fondo Italiano d’Investimento (la società di gestione del risparmio compartecipata dal ministero del Tesoro, da Cdp, Abi, Confindustria e alcune banche-sponsor) è convinto che guardare gli investitori esteri con diffidenza sia un clamoroso errore di valutazione: «Ogni acquisizione è una prospettiva di sviluppo per l’impresa in sè, perchè apre nuovi mercati e suggerisce nuove piattaforme distributive per i prodotti del made in Italy. Semmai dobbiamo preoccuparci del perchè poche aziende italiane comprino oltre-frontiera, ma qui l’accento è da porre sul basso accesso ai capitali di rischio delle nostre imprese, poco interessate a quotarsi in Borsa per il terrore di perdere il controllo della società ». Analisi condivisa da Giuseppe Latorre, partner Kpmg corporate finance.
Punta il dito contro «la nostra ossessione del controllo» e invita a «non dispiacersi per l’eventuale perdita di sovranità ».
Colpisce però come la politica di acquisizione di aziende italiane porti persino a un aumento del numero di addetti, al netto di un eventuale accentramento delle funzioni di staff che invece fuggono altrove.
Secondo uno studio del Politecnico di Milano il numero di lavoratori italiani che lavorano per conto di aziende a ragione sociale estera è di oltre 886mila (dato 2012), in crescita di oltre 30mila unità rispetto al 2005.
Spiega Stefania Trenti, economista dell’ufficio studi di Intesa Sanpaolo, come il nuovo fronte riguarda i servizi professionali: «L’apertura di filiali italiane da parte di grandi studi legali internazionali crea posti di lavoro ad alto valore aggiunto».
Fabio Savelli e Arcangelo Rociola
(da “il Corriere della Sera“)
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Luglio 29th, 2013 Riccardo Fucile
LA RIFORMA DEL CATASTO E’ NECESSARIA, IN BALLO CI SONO 5.400 MILIARDI… E IL TESORETTO DI QUATTRO FAMIGLIE SU CINQUE
Trecentocinquantamila case fantasma: l’equivalente di una città delle dimensioni di Napoli, sconosciute al catasto e scovate solo grazie a una serie di fotografie aeree del territorio nazionale.
Non basta: un milione e seicentomila unità immobiliari che compaiono regolarmente nei faldoni dell’anagrafe immobiliare, ma non nelle dichiarazioni dei redditi presentate dagli italiani.
Come se non avessero un legittimo proprietario.
E ancora: quattro milioni di appartamenti e garage dei quali finora non c’è stato verso di conoscere la reale metratura.
Sono i numeri intorno ai quali si sta giocando in Parlamento una partita che ha una posta in palio di 5.400 miliardi di euro: il patrimonio immobiliare che gli italiani hanno costruito nel tempo, mattone su mattone.
Una cifra stratosferica, pari a poco meno della ricchezza prodotta dall’intero Paese nell’arco di quattro anni, sommerso compreso.
Ma dalla quale nel 2012 è arrivato un gettito fiscale di soli 41,18 miliardi di euro (compresi 12,67 miliardi di imposte sulle compravendite), destinati a salire quest’anno a 43-45 miliardi.
Perchè in materia di immobili il fisco ha costruito un sistema che tra inefficienze e smagliature dà il peggio di sè.
Basti pensare che, mettendo a confronto i dati delle dichiarazioni dei redditi degli italiani con quelle di un’indagine campionaria anonima (e quindi presumibilmente più veritiera) della Banca d’Italia, i rentiers conquistano di gran lunga il primato nazionale dell’evasione, con un tasso dell’83,7 per cento.
Roba da Guinness dei primati.
Soprattutto se si pensa che già beneficiano di una pioggia di detrazioni e deduzioni. Vieri Ceriani, ex sottosegretario e oggi nello staff del ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, che ha passato in rassegna le 720 agevolazioni concesse dallo Stato alle più svariate categorie per un totale di 253 miliardi e 754 milioni di euro, nella sua “Relazione finale” sull’erosione ne ha conteggiate alla voce “casa” per 9,48 miliardi l’anno.
Tutto ciò con buona pace delle direttive dell’Europa per fronteggiare la recessione.
Si legge nel documento “Gli immobili in Italia 2012″, curato dal Dipartimento delle Finanze: «Le raccomandazioni del Consiglio dell’Unione europea e dell’Annual Growth Survey del 2012 si sono concentrate sulla necessità per gli Stati membri di spostare gradualmente l’asse del prelievo dalle imposte sul lavoro e sul capitale, che scoraggiano l’occupazione e deprimono gli investimenti, alle imposte sui consumi e le proprietà ».
Noi abbiamo fatto il contrario: secondo “Fisco equo”, la rivista telematica dell’Associazione per la legalità e l’equità fiscale, nel 2012 l’incidenza di stipendi e pensioni è cresciuta ancora, arrivando al record dell’82 per cento del reddito complessivo dichiarato dagli italiani.
La rivoluzione del catasto immobiliare, inserita nell’articolo 2 della delega fiscale colata a picco con il governo di Mario Monti e oggi tornata a far capolino in parlamento, è la madre di tutte le riforme fiscali.
Se ne discute da trentacinque anni. Ma finora sono state solo parole in libertà .
E non è un caso: il 78 per cento delle famiglie italiane, e dunque degli elettori, è proprietario di un appartamento che, pur con gli alti e bassi del mercato, costituisce il suo vero tesoretto.
Si tratta, dunque, di un terreno minato per i partiti, nessuno dei quali ha voglia di candidarsi al suicidio, tanto meno in un momento in cui l’orizzonte elettorale appare tanto confuso.
Per questo, tutte insieme appassionatamente, le forze della maggioranza hanno concordato su una premessa che è ancor più una promessa: anche se i valori catastali potranno subire incrementi medi del 60 per cento (con punte del 685 per cento a Milano e del 902 a Roma) una rimodulazione dei coefficienti garantirà che la riforma sia a saldo zero per il fisco.
Non servirà insomma a far cassa, ma solo a ridurre le formidabili iniquità attuali, facendo pagare a ciascuno il giusto.
Il che vuol comunque dire ridurre le tasse a chi oggi paga troppo rispetto al bene che possiede e aumentarle a chi gode di un indebito privilegio.
Facendosi così nemici questi ultimi.
E la vicenda dell’Imu sta dimostrando, qualora mai ce ne fosse stato bisogno, quanto gli elettori siano sensibili in tema di fisco sulla casa.
In confronto alla riforma del catasto, la nuova imposta diretta sugli immobili è poco più che un bruscolino.
Un documento di dieci pagine, appena sfornato dal Dipartimento delle finanze e aggiornato al 25 gennaio scorso, rivela che su un gettito complessivo di 23,7 miliardi, quello relativo alla prima casa si è fermato, al netto delle variazioni di aliquote applicabili dai comuni, a 3,4 miliardi, con un incremento di soli 100 milioni rispetto alla vecchia Ici.
E la cifra non cambia granchè (sale a 4 miliardi) se nel conto si mettono anche gli inasprimenti municipali: due sindaci su tre, infatti, si sono ben guardati dallo sfidare le ire dei concittadini-elettori alzando le percentuali (lo stanno facendo ora sulle seconde case, generalmente di proprietà di non residenti, che quindi alle elezioni votano altrove).
Così, alla fine e grazie anche alle detrazioni (200 euro, più 50 per ogni figlio), un quarto dei proprietari non ha scucito un euro e 17,8 milioni si sono dovuti far carico di 225 euro a testa.
Solo il 6,79 per cento ha dovuto mettere mano al portafogli per più di 600 euro.
Non esattamente un terremoto.
Eppure Silvio Berlusconi, cui la capacità di intercettare gli umori della gente non fa certo difetto, continua a ripetere che sull’Imu (e sull’Iva) è disposto a far cadere il governo.
L’agenzia di rating Standard & Poor’s l’ha preso talmente sul serio che, preoccupata per la tenuta dei nostri conti pubblici, martedì 9 luglio ha declassato i titoli di debito italiani. Lui è andato dritto per la sua strada: «Da noi le tasse sulla casa sono molto più alte che in Francia o in Gran Bretagna», ha arringato i clienti di una trattoria del centro di Roma la sera di venerdì 12 luglio.
E chissà dove diavolo avrà preso i dati, se quelli dell’Ocse (pre-Imu e senza le imposte sui trasferimenti di proprietà , d’accordo) davano le imposte sul mattone allo 0,6 per cento in Italia al 2,4 in Francia, al 3,5 in Gran Bretagna e all’1,1 nella media dei paesi avanzati.
Come dimostrano i grafici e le tabelle oggi in Italia il mattone è tassato, verrebbe quasi da dire, a casaccio: se i valori delle case fossero assegnati a sorte sarebbero forse più vicini alla realtà rispetto a quelli attribuiti dal catasto.
In media, un appartamento in via Mario de’ Fiori, nel cuore di Roma, a due passi da piazza di Spagna, che per il fisco ha un valore imponibile di 1.211 euro al metro quadrato, sul mercato costa 10 mila euro al metro, che vuol dire 8,3 volte di più. Questo accade in tutta Italia.
E la differenza tra i due valori si accentua man mano che si sale verso la fascia alta del mercato abitativo.
Già così sarebbe da non crederci.
Ma il bello deve ancora venire: la quotazione reale, quella basata sulle compravendite, non è rilevata da qualche istituto privato, ma dall’Omi, che è l’osservatorio dello stesso catasto.
Non solo.
Il divario non si ferma ai valori assoluti, ma riguarda anche quelli relativi: per restare a Roma, la casa di via Mario de’ Fiori è valutata ai fini fiscali quasi un terzo meno di una analoga nella zona suburbana di via Raffaele Piria, tra via Tiburtina e Ponte Mammolo, a undici chilometri da piazza Venezia.
Una zona che l’ultima pubblicazione in materia dell’Agenzia delle entrate (“Quaderni dell’osservatorio — Appunti di economia immobiliare”) indica tra le quattro di valore più basso della città .
Vai a capire.
Il fatto è che il catasto è nato vecchio. Hanno cominciato a costruirlo nel 1939.
Poi è arrivata pure la guerra. Così ne sono venuti a capo solo nel 1962, quando ancora gli sportelli delle automobili Fiat si aprivano al contrario rispetto a oggi (“a vento”). I comuni sono stati suddivisi per aree censuarie, omogenee sotto il profilo socio-economico e urbanistico.
Gli immobili per categorie (che tengono conto della loro destinazione d’uso) e per classi (basate su parametri come le rifiniture, l’esposizione o il piano).
Con questi elementi si determina la tariffa d’estimo, che moltiplicata per il numero dei vani fornisce la rendita catastale, la base cui si applicano le imposte.
I primi estimi sono stati tarati sugli affitti di mercato del triennio 1937-1939. Poi, in base alla legge, si sarebbe dovuto procedere a un aggiornamento ogni dieci anni.
Ma siamo in Italia. E così, a parte una modesta rivalutazione annuale (o quasi, chè qualche volta è saltata anche quella) per tener conto dell’aumento del costo della vita, c’è stata un’unica revisione, nel 1990, in previsione dell’arrivo dell’Ici.
In quel caso, per calcolare gli estimi (zone censuarie e classi sono rimaste invariate), si è preso come riferimento il livello delle locazioni del biennio 1988-89, quando il regime dell’equo canone aveva fatto scendere in picchiata i valori.
Poi c’è stato solo, nel 1997, un aumento lineare (del 5 per cento) per tutte le rendite. Un’alzata di ingegno capace di far da moltiplicatore alle iniquità che a quel punto si erano già generate.
Nel frattempo, infatti, mentre le case di nuova costruzione venivano accatastate con valori anche di tre o quattro volte superiori a quelle degli anni Sessanta, il quadro abitativo nazionale era completamente cambiato.
Se prima la gente scappava dai fatiscenti edifici dei centri storici, sempre più degradati, da tempo è in corso una migrazione inversa. Anche perchè gran parte degli immobili nel cuore delle città sono stati ristrutturati
Ma quasi sempre chi ha ammodernato il proprio stabile, dotandolo per esempio dell’ascensore, l’ha tenuto nascosto agli uffici competenti, proprio per non doverci pagare più tasse.
E se il comune non l’ha scoperto intimandogli di mettersi in regola, cosa piuttosto rara, l’ha passata in cavalleria.
Così, oggi, secondo i dati del centro-studi Scenari Immobiliari, il 13,8 per cento delle case italiane ha un prezzo superiore ai 500 mila euro.
E il 3,5 per cento sta sopra il milione. Il che vuol dire che un alloggio su sei non è proprio una bicocca.
Al catasto, però, non se ne sono accorti: per loro su 33.807.982 unità immobiliari residenziali solo 35.694, pari allo 0,11 per cento del totale, risultano di tipo signorile: una su mille.
Percentuale che non sale poi di troppo nelle strade più chic delle grandi città , se le case di un qualche pregio sono il 2 per cento nella romana via Mario de’ Fiori, così come a Corso di Porta Ticinese a Milano, una zona un tempo popolare ma oggi ricercatissima. In tutta Asti, 73.973 abitanti che devono passarsela davvero male, se ne conta una sola. E vai a sapere se ci abita il prefetto o il gioielliere alla moda.
Ci sono poi 11 milioni e 700 mila abitazioni di tipo civile. Il resto sarebbero poco più che catapecchie. Oltre dodici milioni sono accatastate come economiche.
Cinque milioni e 700 mila come popolari e quindi, secondo la classificazione effettuata nel primo dopoguerra, dovrebbero essere prive di riscaldamento.
Quasi un milione come ultrapopolari, senza un bagno privato, almeno in teoria. Il riassunto finale sta in un numeretto che indica la discrepanza tra la rendita catastale e il valore di mercato. Con l’Ici era pari a 3,7. Con l’Imu, che ha rivalutato la base imponibile del 60 per cento, è scesa al 2,25 per le abitazioni principali e a 2,42 per tutte le altre.
Potrebbe non sembrare granchè, ma solo a chi non avesse tenuto ben a mente che stiamo parlando di un patrimonio da 5.400 miliardi.
La storia dell’anagrafe immobiliare è punteggiata di mini-riforme rimaste regolarmente sulla carta.
Nel 1998, per esempio, l’allora ministro delle Finanze, Vincenzo Visco, aveva disposto che la rendita venisse calcolata in base ai metri quadri e non più ai vani. Misura mai applicata, benchè oggi il catasto disponga del dato: se l’è dovuto procurare — scannerizzando le piantine degli immobili — per rendere applicabile la Tares, la nuova tassa su rifiuti e servizi.
E migliore fortuna non era toccata, un anno prima, a Franco Bassanini che aveva stabilito il passaggio del Catasto ai comuni, logicamente ritenuti in grado di controllare più da vicino il territorio e dunque scoprire gli abusi. I municipi vedevano la novità come il fumo negli occhi.
Per due motivi. Primo: si sarebbero dovuti far carico, pro quota, del personale del catasto (nel 2006 i dipendenti erano 11 mila e costavano 563 milioni l’anno; oggi sono 9 mila e in nome della spending review sono confluiti con tutta l’Agenzia del territorio nel perimetro delle Entrate, cosicchè non si sa neanche bene per quale cifra gravino sulla comunità ).
Secondo e più importante motivo: le amministrazioni municipali non volevano assumersi l’onere politico di un’operazione che sarebbe stata considerata dai loro elettori come l’anticamera di un rialzo della tassazione immobiliare.
Così, pur rivendicando a parole la competenza catastale, si erano dati di gomito quando la giustizia amministrativa aveva accolto un ricorso della potente lobby della Confedilizia (i proprietari di case: vedere il box a pagina 32), bloccando tutto. Ora se ne parla di nuovo.
Ma i sindaci, che in base alla riforma dovrebbero in futuro raccogliere i dati per determinare le nuove rendite e i valori patrimoniali sulla base delle quotazioni di mercato dell’ultimo triennio e poi determinare i coefficienti, non hanno cambiato idea. Il 14 luglio 2011 il rapporto finale sull’attività del Gruppo di lavoro “Economia non osservata e flussi finanziari”, guidato dall’attuale ministro del Welfare e già numero uno dell’Istat, Enrico Giovannini, denunciava: «Solo lo 0,32 per mille delle unità immobiliari pubblicate sul Portale per i comuni è stato oggetto di variazione della rendita catastale in seguito alle segnalazioni di incoerenza prodotte dai municipi».
Da allora non è cambiato nulla.
Lo dimostra un dato citato dal grande capo dell’Agenzia delle Entrate e di Equitalia, il suo braccio armato per la riscossione.
Il 4 giugno scorso, davanti alla commissione Finanze di Palazzo Madama, Attilio”Artiglio” Befera ha svelato quanti comuni si sono avvalsi di una legge del 2004 (la numero 311 del 31 dicembre) che consentiva loro di riclassare le microzone dove il rapporto tra i valori di mercato e quelli catastali avesse superato il 35 per cento: in nove anni si sono presi la briga di farlo 17 comuni. Su oltre 8 mila. Peccato.
Un documento interno dell’Agenzia dice che per 152.295 appartamenti su un totale di 193.833 presenti nelle microzone comunali riclassate c’è stato un aumento della rendita catastale. Per un totale di 60.158.397 euro e 6 centesimi.
I buchi nelle maglie del Catasto non hanno un costo solo in termini di mancato gettito delle imposte immobiliari dirette.
Ma pesano pure sul bilancio dei servizi sociali.
Lo ha ricordato Befera nella stessa audizione: «Lo strumento selettivo per l’accesso alle prestazioni di welfare viene determinato tenendo conto anche del patrimonio immobiliare valutato su base catastale. Una valutazione iniqua degli immobili trasferisce, dunque, i suoi effetti anche sull’accesso alle prestazioni di welfare». Il riferimento di Mister Tasse è all’Isee, l’autodichiarazione compilata da quel 30 per cento di italiani che chiede l’accesso gratuito (o scontato) a certi servizi: dal ticket sanitario all’assegno di maternità , fino alle tasse universitarie e al bonus elettrico.
In realtà , Befera dice una mezza verità .
Nel senso che, come detto, l’Isee è almeno per ora un’autocertificazione e quindi il catasto (con tutti i suoi limiti) può servire solo a verificare a posteriori i dati patrimoniali inseriti dal contribuente nel modulo.
Solo un deterrente, insomma, la cui efficacia risulta risibile.
Le 132 pagine dell’ultimo rapporto Isee pubblicato dal ministero del Lavoro dimostrano che i contribuenti non sono esattamente intimoriti dalle capacità di controllo dell’amministrazione. «Per quanto riguarda il titolo di godimento dell’abitazione principale nella popolazione Isee la metà dei nuclei familiari è in abitazione di proprietà , una quota, come notato nelle precedenti edizioni, significativamente inferiore a quella dei proprietari nella popolazione complessiva, pari a tre famiglie su quattro». Insomma, i conti non tornano. Non tutti coloro che hanno una casa la denunciano al momento di compilare l’Isee. E quelli che lo fanno la descrivono come una vera e propria baracca.
Il valore immobiliare medio dichiarato, al netto di una franchigia di 51.646 euro, è pari a 14.400 euro. Il totale fa 66 mila euro e spiccioli. Oggi ci si può forse comprare un box auto. In periferia, s’intende. Perchè in Italia il valore medio di un appartamento è arrivato a 181.900 euro.
Nel 2011, in Calabria, la Guardia di Finanza ha messo nel sacco un tizio che chiedeva l’esenzione dal ticket sanitario. Ed era proprietario di novanta immobili.
Il luogo comune dice che in Italia il fisco si accanisce sulla casa e lo fa perchè è più difficile da nascondere rispetto ai redditi.
Due balle in un colpo solo.
Stefano Livadiotti
(da “L’Espresso”)
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Luglio 29th, 2013 Riccardo Fucile
COSI’ SI GIOCHERA’ LA PARTITA DELL’INTERDIZIONE
È tutta una questione di motivazioni: un po’ come un’atleta, anche una sentenza – quando entra sulla pista della Cassazione – passa in giudicato oppure precipita giù dal podio a seconda di quanto cinque componenti della Suprema Corte, giudici solo di legittimità e non più del merito della causa, trovino corretta la tenuta logico-giuridica delle motivazioni che in Appello la sorreggevano.
Nel caso del processo Mediaset, che imputa a Silvio Berlusconi una superstite (alle tante prescrizioni già intervenute) frode fiscale di 7,3 milioni di euro nell’ammortamento nelle dichiarazioni dei redditi Mediaset 2002-2003 di diritti tv negoziati all’estero anni prima con il produttore americano-egiziano Frank Agrama, si parte da una «doppia conforme», cioè da due sentenze di merito che sia in Tribunale sia in Appello hanno inquadrato nello stesso modo la responsabilità dei fatti e l’entità della pena.
LE PENE IN GIOCO
La prima possibilità , statisticamente parlando, è dunque che domani anche la Cassazione possa confermare la condanna a 4 anni di reclusione e 5 di interdizione dai pubblici uffici.
Sul versante della libertà personale, 3 dei 4 anni sarebbero comunque condonati dall’indulto del 2006, e Berlusconi per l’anno residuo non andrebbe mai in carcere: o perchè (come fanno ogni giorno tutti quelli nella sua situazione) chiederebbe al Tribunale di Sorveglianza e senz’altro otterrebbe la misura alternativa al carcere dell’affidamento in prova ai servizi sociali, o perchè (anche qualora per principio non chiedesse questo beneficio) il suo essere ultrasettantenne gli assicurerebbe gli arresti domiciliari pure nel peggiore dei casi.
La pena interdittiva, invece è quella che per 5 anni lo farebbe decadere da parlamentare e, nel caso si tornasse a votare, gli impedirebbe di candidarsi.
La procedura prevede un passaggio in Senato e un voto della giunta delle immunità e dell’aula per prendere atto della sentenza definitiva e dichiarare la decadenza: ma è possibile che nel caso di Berlusconi il suo partito azzardi un mai prima tentato braccio di ferro parlamentare volto a vanificare l’operatività di una sentenza definitiva di interdizione.
DUE TIPI DI ASSOLUZIONE
Nulla tuttavia impedisce che anche una «doppia conforme» venga cassata dalla Suprema Corte nel caso in cui sia accolto uno dei cinquanta motivi di ricorso presentati dai difensori del capo del Pdl, il senatore Niccolò Ghedini e il professor Franco Coppi.
In questo caso, la sorte di Berlusconi dipenderà dal tipo di debolezza che la Cassazione dovesse cogliere nella motivazione d’Appello.
Potrà annullare la condanna ma ordinare un altro processo d’Appello, indicandogli il punto da riconsiderare e da rimotivare meglio, e in questo caso il nuovo Appello e la successiva nuova Cassazione non è detto facciano in tempo a essere celebrati prima della prescrizione nel settembre 2014 dell’ultima imputazione relativa al 2003.
Oppure potrà annullare la condanna senza ordinare un nuovo Appello, dunque con assoluzione secca e totale e definitiva dell’imputato.
Vi spera la difesa di Berlusconi, sostenendo che l’ex premier, non facendo parte di alcun organo amministrativo e non avendo firmato le dichiarazioni dei redditi di Mediaset 2002-2003, non potrebbe tecnicamente rispondere di concorso in un reato il cui autore formale (cioè il funzionario firmatario della dichiarazione dei redditi) non è imputato.
L’altra trincea difensiva si attesta sui proscioglimenti che Berlusconi negli ultimi due anni ha avuto sia a Milano sia a Roma (entrambi confermati in Cassazione) nelle udienze preliminari del «gemello» processo Mediatrade su meccanismi analoghi ma epoche successive.
Specialmente la sentenza preliminare di Roma è cavalcata dalla difesa perchè ravvisò nel coimputato Agrama non un socio occulto di Berlusconi ma «una effettiva attività di intermediazione di pacchetti di diritti», e nella maggiorazione dei prezzi del 50% «un ricarico quantomeno in termini astratti del tutto ragionevole».
Qui si è molto vicini a entrare in valutazioni di merito che alla Cassazione sono precluse, ma la Suprema Corte potrà sempre sindacare se sia corretta la controargomentazione dei giudici di merito milanesi, secondo i quali questi due proscioglimenti Mediatrade «non possono incidere sul giudizio» perchè «attengono a diversi periodi di tempo e a distinti quadri probatori».
Questione di puro diritto è invece la rilevanza penale o meno, dentro il contenitore giuridico della frode fiscale, dei fatti ricostruiti dai giudici di merito: qui accusa e difesa duellano infatti sull’interpretazione o sul travisamento (che si rimproverano a vicenda) della sentenza di Cassazione n. 45056 del 23 dicembre 2010, sulla quale la difesa punta per affermare che il reato non è configurabile nell’ipotesi di «non congruità » di un’operazione realmente effettuata e pagata.
Applicato al caso concreto, la difesa vuole cioè rimarcare che il corrispettivo indicato nelle fatture era assolutamente «reale» nel senso che corrispondeva davvero al prezzo pagato da Mediaset ad Agrama per l’acquisto di quei diritti tv, e che le corrispondenti somme uscivano effettivamente dalle casse di Mediaset senza retrocessioni provate: insomma il valore poteva anche essere non congruo, ma il costo sarebbe stato davvero sostenuto da Mediaset, dunque effettivo e tale da non far configurare il reato.
RINVIO DUBBIO
Solo domani all’ultimo minuto i legali decideranno se provare a chiedere un rinvio dell’udienza, la cui gittata è però una incognita perchè il cambio della data, se oltre pochi giorni, avrebbe il delicato effetto di cambiare anche i giudici.
Attualmente, come da tabella prefissata, sono quelli del primo collegio di turno (fino al 10 agosto) nella sezione feriale, dove il processo Mediaset è stato incardinato in anticipo perchè metà (l’anno 2002) rischiava di prescriversi tra poco: non l’iper prudenziale 1 agosto calcolato dallo spoglio della Cassazione, ma pur sempre il 13 settembre (stima del Corriere) o 26 settembre (stima della difesa).
L’obiettivo di Berlusconi sarebbe, a prescrizione nel frattempo congelata, superare il 15 settembre, fine della sezione feriale e ritorno alla sezione (terza) ordinariamente competente sulle frodi fiscali.
Ma l’impressione è che il rinvio, se chiesto, o sarà molto breve o non sarà .
E in quest’ultimo caso la sentenza, se non già domani sera, arriverebbe mercoledì.
(da “il Corriere della Sera“)
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Luglio 29th, 2013 Riccardo Fucile
L’IDEA DI LASCIARE TUTTE LE SCELTE ALL’ASSEMBLEA NAZIONALE DI SETTEMBRE”
«La nuova direzione? Non è convocata», rispondono a Largo del Nazareno.
Per evitare una conta e non certificare le divisioni nella battaglia delle primarie, la nuova riunione del “parlamentino” potrebbe anche non avere più luogo. Doveva tenersi giovedì.
Il Pd però è ancora paralizzato. Meglio allora evitare la spaccatura. Rimarrebbero gli strascichi della direzione interrotta venerdì, ma lo scontro sulle regole slitterebbe direttamente all’assemblea nazionale già convocata per il 13 e 14 settembre. Guglielmo Epifani, dopo un primo giro di ricognizione tra le anime del partito, si sta orientando verso il rinvio. Iscritti o primarie aperte, distinzione tra segretario e premier, il dibattito che ruota intorno al ruolo di Matteo Renzi: se ne parla dopo la pausa di agosto.
La mediazione del segretario, con l’avallo di Enrico Letta, sarebbe questa. Per mancanza di alternative.
Il confronto tra le parti non registra passi in avanti. «Le regole ci sono, la data pure, i candidati anche. Che aspettiamo?», si chiede il sindaco di Firenze parlando con i suoi fedelissimi. Nessuno lo ha contattato per trovare una via d’uscita.
Ma la sua posizione è fin troppo chiara. Lo stato maggiore del Partito democratico la conosce a memoria. «Io non metto in discussione il governo e lungi da me l’idea di voler cambiare la natura del Pd. Dico solo: sarebbe la prima volta, da quando esiste il centrosinistra, che di fronte a una sconfitta elettorale non si va rapidamente a un congresso. Vogliamo stabilire un nuovo record?». Renzi non è disposto a passi indietro, tantomeno a risolvere i problemi dell’asse governista composto da Franceschini- Epifani-Bersani.
«Ci sono già quattro candidati: Cuperlo, Civati, Pittella e un incerto che sarei io. Tutti sono favorevoli alle regole in vigore. È allucinante non prenderne atto e non partire subito con il congresso».
Gianni Cuperlo conferma la sua linea: «Penso si stia lavorando per un accordo largo sulle regole. Ma se non si trova, dobbiamo rimandare la discussione al congresso. Una conta e una spaccatura non darebbero un’immagine positiva del Pd all’esterno. Abbiamo già visto questo film all’ultima direzione».
I giovani turchi, sostenitori di Cuperlo, condividono le parole del candidato e voterebbero “no” a una regola che lasci solo agli iscritti o agli aderenti il diritto di voto per la segreteria.
Da giorni Pippo Civati sta mobilitando i suoi fan per pretendere primarie vere e congresso subito.
Quindi, Renzi non è lontano dal vero quando disegna un fronte ampio di favorevoli a gazebo aperti a tutti gli elettori. Ma il fronte opposto non molla. Anzi.
Porterà la sua sfida nella commissione per il congresso, l’unica riunione certa convocata per mercoledì. In quella sede potrebbe essere certificato l’annullamento della direzione.
Presto, forse già questa settimana, i bersaniani annunceranno anche il loro candidato alla segreteria «perchè nessuno dei concorrenti in campo ci rappresenta pienamente», spiega Alfredo D’Attorre.
Una figura di riferimento di quell’area, del resto, diventa fondamentale per portare avanti la battaglia delle regole.
Nico Stumpo è un falco di questa corrente: «La nostra posizione non è minoritaria nè in direzione nè in assemblea nazionale. Ed è facilmente spiegabile al popolo del Pd».
Non è quella di blindare le primarie per i soli iscritti. «Voglio una platea molto ampia – dice Stumpo –. Ma se distinguiamo segretario e candidato premier la base elettorale dev’essere diversa».
I contatti tra le parti riprenderanno oggi, in vista della commissione di mercoledì. Ma una soluzione appare lontana.
Per questo, dal fronte anti-Renzi avanza una nuova minaccia.
«Non si vuole cambiare nulla dello Statuto? Beh, allora il percorso tradizionale è lungo – avverte un franceschiniano –. Prima votano gli iscritti, poi i tre candidati vincenti vanno al ballottaggio aperto. I tempi così sono più lunghi e le primarie non si terrebbero più a novembre».
Goffredo De Marchis
(da “la Repubblica“)
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Luglio 29th, 2013 Riccardo Fucile
SOGLIA DI ACCESSO PER IL PREMIO E SBARRAMENTO PIU’ ALTO
Un disegno di legge confezionato da Palazzo Chigi per ripulire il Porcellum almeno dei suoi più evidenti vizi di legittimità costituzionale.
Rendere la legge elettorale «utilizzabile» nel caso in cui la legislatura finisse anzitempo, comunque prima che le riforme istituzionali vadano a compimento (non prima della fine del 2014).
L’iniziativa è stata messa a punto nella massima riservatezza in questi ultimi giorni dal presidente del Consiglio Enrico Letta, dal ministro per le Riforme Gaetano Quagliariello e dal ministro per i Rapporti col Parlamento Dario Franceschini.
Proprio il responsabile delle Riforme non a caso da giorni rilascia interviste in cui si dice possibilista sull’eventuale modifica della legge elettorale «derubricandola » di fatto dal complesso pacchetto delle riforme, sebbene su questo punto il suo partito più volte si è detto pronto alle barricate.
Un peso non indifferente lo ha il Quirinale, che non perde occasione per sollecitare il superamento in tempi celeri del Porcellum.
L’iniziativa che l’esecutivo Letta sta per intraprendere non si può dire che sia stata concordata col Colle, ma di certo non risulterà sgradita
Tuttavia il terreno è minato, l’esito della sortita governativa tutt’altro che scontato, i veti incrociati ne insidiano la riuscita.
Non a caso il premier ha scelto la via del disegno di legge.
Mai avrebbe intrapreso quella del decreto, «impensabile» su un tema così sensibile.
La presentazione del ddl dovrebbe avvenire tra fine settembre e i primi di ottobre. Non a caso.
Obiettivo della missione è quello di disinnescare la mina della Corte Costituzionale.
Il 3 dicembre infatti la Consulta si pronuncerà sulla legittimità costituzionale della norma Calderoli.
Se verrà dichiarata l’incostituzionalità , si getterà ancor più nel caos l’inconcludente confronto tra i partiti.
Ecco allora che l’iniziativa governativa darebbe tempo e modo – se vi sarà la volontà politica – di approvare una miniriforma quanto meno in un ramo del Parlamento. In ogni caso, si tratterebbe di una “norma-ponte”, che potrà essere modificata a sua volta se il nuovo assetto istituzionale frutto della riforma complessiva lo richiederà . Intanto però bisogna correre ai ripari. E alla svelta.
In che modo però? Su quali linee si muoverà il ddl in cantiere a Palazzo Chigi?
Quattro sono le chiavi di volta del provvedimento, che incidono su altrettanti punti critici del Porcellum.
Il primo. L’introduzione di una soglia minima di accesso al premio di maggioranza, finora non prevista, e quella allo studio sarebbe del 40 per cento.
Il secondo. L’innalzamento della soglia di sbarramento per accadere al Parlamento. Finora alla Camera è pari al 4 per cento, elevando l’asticella per esempio al 5 o al 6 per cento si eviterebbe il rischio che forze minori se non minuscole possano varcare la soglia di Montecitorio e Palazzo Madama.
Quindi, la riduzione delle dimensioni delle attuali circoscrizioni elettorali. La conseguenza di quest’ultimo apparente tecnicismo sta nel fatto che si creerebbe un ulteriore sbarramento di fatto: il numero degli eletti per circoscrizione si ridurrebbe, intaccando la quota riservata ai cosiddetti resti, dunque alle forze minori.
Un quarto e ultimo “ritocco” riguarda il premio di maggioranza al Senato, che tornerebbe ad essere distribuito su scala nazionale anzichè regionale, come per la Camera, archiviando l’handicap che nelle ultime legislature ha reso più inconsistenti le maggioranze a Palazzo Madama.
Va da sè, che il ricorso al disegno di legge Letta lo considera l’extrema ratio, qualora fino ad allora –com’è più che probabile – maggioranza e opposizione non avranno raggiunto un’intesa.
Sempre che, a far precipitare tutto, riforme e Parlamento insieme, non sarà da qui a un paio di giorni la tempesta che potrebbe seguire alla sentenza in Cassazione a carico di Berlusconi.
In ogni caso, a sorpresa, un voto sulla legge elettorale ci sarà alla Camera già prima della pausa estiva e potrebbe essere foriero di nuove spaccature in maggioranza. Questa mattina infatti in piazza Montecitorio il democratico Roberto Giachetti, il berlusconiano Antonio Martino, il vendoliano Gennaro Migliore, con Arturo Parisi e Mario Segni annunceranno il successo nella raccolta di firme parlamentari (una quarantina, ben più delle dieci necessarie) per chiedere l’inserimento d’urgenza in calendario della norma che prevede il ritorno al Mattarellum.
Già la mozione di Giachetti che si muoveva su quel crinale, un mese fa, aveva spaccato il Pd.
Il copione si ripeterà entro due settimane, quando l’aula sarà chiamata a pronunciarsi sull’inserimento o meno in calendario della riforma prima della pausa estiva.
Il ddl del governo potrebbe essere la via d’uscita.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)
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