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I FURBETTI DELLA CASA: CATASTO, PARADISO DEGLI EVASORI

LA RIFORMA DEL CATASTO E’ NECESSARIA, IN BALLO CI SONO 5.400 MILIARDI… E IL TESORETTO DI QUATTRO FAMIGLIE SU CINQUE

Trecentocinquantamila case fantasma: l’equivalente di una città  delle dimensioni di Napoli, sconosciute al catasto e scovate solo grazie a una serie di fotografie aeree del territorio nazionale.
Non basta: un milione e seicentomila unità  immobiliari che compaiono regolarmente nei faldoni dell’anagrafe immobiliare, ma non nelle dichiarazioni dei redditi presentate dagli italiani.
Come se non avessero un legittimo proprietario.
E ancora: quattro milioni di appartamenti e garage dei quali finora non c’è stato verso di conoscere la reale metratura.
Sono i numeri intorno ai quali si sta giocando in Parlamento una partita che ha una posta in palio di 5.400 miliardi di euro: il patrimonio immobiliare che gli italiani hanno costruito nel tempo, mattone su mattone.
Una cifra stratosferica, pari a poco meno della ricchezza prodotta dall’intero Paese nell’arco di quattro anni, sommerso compreso.
Ma dalla quale nel 2012 è arrivato un gettito fiscale di soli 41,18 miliardi di euro (compresi 12,67 miliardi di imposte sulle compravendite), destinati a salire quest’anno a 43-45 miliardi.
Perchè in materia di immobili il fisco ha costruito un sistema che tra inefficienze e smagliature dà  il peggio di sè.
Basti pensare che, mettendo a confronto i dati delle dichiarazioni dei redditi degli italiani con quelle di un’indagine campionaria anonima (e quindi presumibilmente più veritiera) della Banca d’Italia, i rentiers conquistano di gran lunga il primato nazionale dell’evasione, con un tasso dell’83,7 per cento.
Roba da Guinness dei primati.
Soprattutto se si pensa che già  beneficiano di una pioggia di detrazioni e deduzioni. Vieri Ceriani, ex sottosegretario e oggi nello staff del ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, che ha passato in rassegna le 720 agevolazioni concesse dallo Stato alle più svariate categorie per un totale di 253 miliardi e 754 milioni di euro, nella sua “Relazione finale” sull’erosione ne ha conteggiate alla voce “casa” per 9,48 miliardi l’anno.
Tutto ciò con buona pace delle direttive dell’Europa per fronteggiare la recessione.
Si legge nel documento “Gli immobili in Italia 2012″, curato dal Dipartimento delle Finanze: «Le raccomandazioni del Consiglio dell’Unione europea e dell’Annual Growth Survey del 2012 si sono concentrate sulla necessità  per gli Stati membri di spostare gradualmente l’asse del prelievo dalle imposte sul lavoro e sul capitale, che scoraggiano l’occupazione e deprimono gli investimenti, alle imposte sui consumi e le proprietà ».
Noi abbiamo fatto il contrario: secondo “Fisco equo”, la rivista telematica dell’Associazione per la legalità  e l’equità  fiscale, nel 2012 l’incidenza di stipendi e pensioni è cresciuta ancora, arrivando al record dell’82 per cento del reddito complessivo dichiarato dagli italiani.
La rivoluzione del catasto immobiliare, inserita nell’articolo 2 della delega fiscale colata a picco con il governo di Mario Monti e oggi tornata a far capolino in parlamento, è la madre di tutte le riforme fiscali.
Se ne discute da trentacinque anni. Ma finora sono state solo parole in libertà .
E non è un caso: il 78 per cento delle famiglie italiane, e dunque degli elettori, è proprietario di un appartamento che, pur con gli alti e bassi del mercato, costituisce il suo vero tesoretto.
Si tratta, dunque, di un terreno minato per i partiti, nessuno dei quali ha voglia di candidarsi al suicidio, tanto meno in un momento in cui l’orizzonte elettorale appare tanto confuso.
Per questo, tutte insieme appassionatamente, le forze della maggioranza hanno concordato su una premessa che è ancor più una promessa: anche se i valori catastali potranno subire incrementi medi del 60 per cento (con punte del 685 per cento a Milano e del 902 a Roma) una rimodulazione dei coefficienti garantirà  che la riforma sia a saldo zero per il fisco.
Non servirà  insomma a far cassa, ma solo a ridurre le formidabili iniquità  attuali, facendo pagare a ciascuno il giusto.
Il che vuol comunque dire ridurre le tasse a chi oggi paga troppo rispetto al bene che possiede e aumentarle a chi gode di un indebito privilegio.
Facendosi così nemici questi ultimi.
E la vicenda dell’Imu sta dimostrando, qualora mai ce ne fosse stato bisogno, quanto gli elettori siano sensibili in tema di fisco sulla casa.
In confronto alla riforma del catasto, la nuova imposta diretta sugli immobili è poco più che un bruscolino.
Un documento di dieci pagine, appena sfornato dal Dipartimento delle finanze e aggiornato al 25 gennaio scorso, rivela che su un gettito complessivo di 23,7 miliardi, quello relativo alla prima casa si è fermato, al netto delle variazioni di aliquote applicabili dai comuni, a 3,4 miliardi, con un incremento di soli 100 milioni rispetto alla vecchia Ici.
E la cifra non cambia granchè (sale a 4 miliardi) se nel conto si mettono anche gli inasprimenti municipali: due sindaci su tre, infatti, si sono ben guardati dallo sfidare le ire dei concittadini-elettori alzando le percentuali (lo stanno facendo ora sulle seconde case, generalmente di proprietà  di non residenti, che quindi alle elezioni votano altrove).
Così, alla fine e grazie anche alle detrazioni (200 euro, più 50 per ogni figlio), un quarto dei proprietari non ha scucito un euro e 17,8 milioni si sono dovuti far carico di 225 euro a testa.
Solo il 6,79 per cento ha dovuto mettere mano al portafogli per più di 600 euro.
Non esattamente un terremoto.
Eppure Silvio Berlusconi, cui la capacità  di intercettare gli umori della gente non fa certo difetto, continua a ripetere che sull’Imu (e sull’Iva) è disposto a far cadere il governo.
L’agenzia di rating Standard & Poor’s l’ha preso talmente sul serio che, preoccupata per la tenuta dei nostri conti pubblici, martedì 9 luglio ha declassato i titoli di debito italiani. Lui è andato dritto per la sua strada: «Da noi le tasse sulla casa sono molto più alte che in Francia o in Gran Bretagna», ha arringato i clienti di una trattoria del centro di Roma la sera di venerdì 12 luglio.
E chissà  dove diavolo avrà  preso i dati, se quelli dell’Ocse (pre-Imu e senza le imposte sui trasferimenti di proprietà , d’accordo) davano le imposte sul mattone allo 0,6 per cento in Italia al 2,4 in Francia, al 3,5 in Gran Bretagna e all’1,1 nella media dei paesi avanzati.
Come dimostrano i grafici e le tabelle oggi in Italia il mattone è tassato, verrebbe quasi da dire, a casaccio: se i valori delle case fossero assegnati a sorte sarebbero forse più vicini alla realtà  rispetto a quelli attribuiti dal catasto.
In media, un appartamento in via Mario de’ Fiori, nel cuore di Roma, a due passi da piazza di Spagna, che per il fisco ha un valore imponibile di 1.211 euro al metro quadrato, sul mercato costa 10 mila euro al metro, che vuol dire 8,3 volte di più. Questo accade in tutta Italia.
E la differenza tra i due valori si accentua man mano che si sale verso la fascia alta del mercato abitativo.
Già  così sarebbe da non crederci.
Ma il bello deve ancora venire: la quotazione reale, quella basata sulle compravendite, non è rilevata da qualche istituto privato, ma dall’Omi, che è l’osservatorio dello stesso catasto.
Non solo.
Il divario non si ferma ai valori assoluti, ma riguarda anche quelli relativi: per restare a Roma, la casa di via Mario de’ Fiori è valutata ai fini fiscali quasi un terzo meno di una analoga nella zona suburbana di via Raffaele Piria, tra via Tiburtina e Ponte Mammolo, a undici chilometri da piazza Venezia.
Una zona che l’ultima pubblicazione in materia dell’Agenzia delle entrate (“Quaderni dell’osservatorio — Appunti di economia immobiliare”) indica tra le quattro di valore più basso della città .
Vai a capire.
Il fatto è che il catasto è nato vecchio. Hanno cominciato a costruirlo nel 1939.
Poi è arrivata pure la guerra. Così ne sono venuti a capo solo nel 1962, quando ancora gli sportelli delle automobili Fiat si aprivano al contrario rispetto a oggi (“a vento”). I comuni sono stati suddivisi per aree censuarie, omogenee sotto il profilo socio-economico e urbanistico.
Gli immobili per categorie (che tengono conto della loro destinazione d’uso) e per classi (basate su parametri come le rifiniture, l’esposizione o il piano).
Con questi elementi si determina la tariffa d’estimo, che moltiplicata per il numero dei vani fornisce la rendita catastale, la base cui si applicano le imposte.
I primi estimi sono stati tarati sugli affitti di mercato del triennio 1937-1939. Poi, in base alla legge, si sarebbe dovuto procedere a un aggiornamento ogni dieci anni.
Ma siamo in Italia. E così, a parte una modesta rivalutazione annuale (o quasi, chè qualche volta è saltata anche quella) per tener conto dell’aumento del costo della vita, c’è stata un’unica revisione, nel 1990, in previsione dell’arrivo dell’Ici.
In quel caso, per calcolare gli estimi (zone censuarie e classi sono rimaste invariate), si è preso come riferimento il livello delle locazioni del biennio 1988-89, quando il regime dell’equo canone aveva fatto scendere in picchiata i valori.
Poi c’è stato solo, nel 1997, un aumento lineare (del 5 per cento) per tutte le rendite. Un’alzata di ingegno capace di far da moltiplicatore alle iniquità  che a quel punto si erano già  generate.
Nel frattempo, infatti, mentre le case di nuova costruzione venivano accatastate con valori anche di tre o quattro volte superiori a quelle degli anni Sessanta, il quadro abitativo nazionale era completamente cambiato.
Se prima la gente scappava dai fatiscenti edifici dei centri storici, sempre più degradati, da tempo è in corso una migrazione inversa. Anche perchè gran parte degli immobili nel cuore delle città  sono stati ristrutturati
Ma quasi sempre chi ha ammodernato il proprio stabile, dotandolo per esempio dell’ascensore, l’ha tenuto nascosto agli uffici competenti, proprio per non doverci pagare più tasse.
E se il comune non l’ha scoperto intimandogli di mettersi in regola, cosa piuttosto rara, l’ha passata in cavalleria.
Così, oggi, secondo i dati del centro-studi Scenari Immobiliari, il 13,8 per cento delle case italiane ha un prezzo superiore ai 500 mila euro.
E il 3,5 per cento sta sopra il milione. Il che vuol dire che un alloggio su sei non è proprio una bicocca.
Al catasto, però, non se ne sono accorti: per loro su 33.807.982 unità  immobiliari residenziali solo 35.694, pari allo 0,11 per cento del totale, risultano di tipo signorile: una su mille.
Percentuale che non sale poi di troppo nelle strade più chic delle grandi città , se le case di un qualche pregio sono il 2 per cento nella romana via Mario de’ Fiori, così come a Corso di Porta Ticinese a Milano, una zona un tempo popolare ma oggi ricercatissima. In tutta Asti, 73.973 abitanti che devono passarsela davvero male, se ne conta una sola. E vai a sapere se ci abita il prefetto o il gioielliere alla moda.
Ci sono poi 11 milioni e 700 mila abitazioni di tipo civile. Il resto sarebbero poco più che catapecchie. Oltre dodici milioni sono accatastate come economiche.
Cinque milioni e 700 mila come popolari e quindi, secondo la classificazione effettuata nel primo dopoguerra, dovrebbero essere prive di riscaldamento.
Quasi un milione come ultrapopolari, senza un bagno privato, almeno in teoria. Il riassunto finale sta in un numeretto che indica la discrepanza tra la rendita catastale e il valore di mercato. Con l’Ici era pari a 3,7. Con l’Imu, che ha rivalutato la base imponibile del 60 per cento, è scesa al 2,25 per le abitazioni principali e a 2,42 per tutte le altre.
Potrebbe non sembrare granchè, ma solo a chi non avesse tenuto ben a mente che stiamo parlando di un patrimonio da 5.400 miliardi.
La storia dell’anagrafe immobiliare è punteggiata di mini-riforme rimaste regolarmente sulla carta.
Nel 1998, per esempio, l’allora ministro delle Finanze, Vincenzo Visco, aveva disposto che la rendita venisse calcolata in base ai metri quadri e non più ai vani. Misura mai applicata, benchè oggi il catasto disponga del dato: se l’è dovuto procurare — scannerizzando le piantine degli immobili — per rendere applicabile la Tares, la nuova tassa su rifiuti e servizi.
E migliore fortuna non era toccata, un anno prima, a Franco Bassanini che aveva stabilito il passaggio del Catasto ai comuni, logicamente ritenuti in grado di controllare più da vicino il territorio e dunque scoprire gli abusi. I municipi vedevano la novità  come il fumo negli occhi.
Per due motivi. Primo: si sarebbero dovuti far carico, pro quota, del personale del catasto (nel 2006 i dipendenti erano 11 mila e costavano 563 milioni l’anno; oggi sono 9 mila e in nome della spending review sono confluiti con tutta l’Agenzia del territorio nel perimetro delle Entrate, cosicchè non si sa neanche bene per quale cifra gravino sulla comunità ).
Secondo e più importante motivo: le amministrazioni municipali non volevano assumersi l’onere politico di un’operazione che sarebbe stata considerata dai loro elettori come l’anticamera di un rialzo della tassazione immobiliare.
Così, pur rivendicando a parole la competenza catastale, si erano dati di gomito quando la giustizia amministrativa aveva accolto un ricorso della potente lobby della Confedilizia (i proprietari di case: vedere il box a pagina 32), bloccando tutto. Ora se ne parla di nuovo.
Ma i sindaci, che in base alla riforma dovrebbero in futuro raccogliere i dati per determinare le nuove rendite e i valori patrimoniali sulla base delle quotazioni di mercato dell’ultimo triennio e poi determinare i coefficienti, non hanno cambiato idea. Il 14 luglio 2011 il rapporto finale sull’attività  del Gruppo di lavoro “Economia non osservata e flussi finanziari”, guidato dall’attuale ministro del Welfare e già  numero uno dell’Istat, Enrico Giovannini, denunciava: «Solo lo 0,32 per mille delle unità  immobiliari pubblicate sul Portale per i comuni è stato oggetto di variazione della rendita catastale in seguito alle segnalazioni di incoerenza prodotte dai municipi».
Da allora non è cambiato nulla.
Lo dimostra un dato citato dal grande capo dell’Agenzia delle Entrate e di Equitalia, il suo braccio armato per la riscossione.
Il 4 giugno scorso, davanti alla commissione Finanze di Palazzo Madama, Attilio”Artiglio” Befera ha svelato quanti comuni si sono avvalsi di una legge del 2004 (la numero 311 del 31 dicembre) che consentiva loro di riclassare le microzone dove il rapporto tra i valori di mercato e quelli catastali avesse superato il 35 per cento: in nove anni si sono presi la briga di farlo 17 comuni. Su oltre 8 mila. Peccato.
Un documento interno dell’Agenzia dice che per 152.295 appartamenti su un totale di 193.833 presenti nelle microzone comunali riclassate c’è stato un aumento della rendita catastale. Per un totale di 60.158.397 euro e 6 centesimi.
I buchi nelle maglie del Catasto non hanno un costo solo in termini di mancato gettito delle imposte immobiliari dirette.
Ma pesano pure sul bilancio dei servizi sociali.
Lo ha ricordato Befera nella stessa audizione: «Lo strumento selettivo per l’accesso alle prestazioni di welfare viene determinato tenendo conto anche del patrimonio immobiliare valutato su base catastale. Una valutazione iniqua degli immobili trasferisce, dunque, i suoi effetti anche sull’accesso alle prestazioni di welfare». Il riferimento di Mister Tasse è all’Isee, l’autodichiarazione compilata da quel 30 per cento di italiani che chiede l’accesso gratuito (o scontato) a certi servizi: dal ticket sanitario all’assegno di maternità , fino alle tasse universitarie e al bonus elettrico.
In realtà , Befera dice una mezza verità .
Nel senso che, come detto, l’Isee è almeno per ora un’autocertificazione e quindi il catasto (con tutti i suoi limiti) può servire solo a verificare a posteriori i dati patrimoniali inseriti dal contribuente nel modulo.
Solo un deterrente, insomma, la cui efficacia risulta risibile.
Le 132 pagine dell’ultimo rapporto Isee pubblicato dal ministero del Lavoro dimostrano che i contribuenti non sono esattamente intimoriti dalle capacità  di controllo dell’amministrazione. «Per quanto riguarda il titolo di godimento dell’abitazione principale nella popolazione Isee la metà  dei nuclei familiari è in abitazione di proprietà , una quota, come notato nelle precedenti edizioni, significativamente inferiore a quella dei proprietari nella popolazione complessiva, pari a tre famiglie su quattro». Insomma, i conti non tornano. Non tutti coloro che hanno una casa la denunciano al momento di compilare l’Isee. E quelli che lo fanno la descrivono come una vera e propria baracca.
Il valore immobiliare medio dichiarato, al netto di una franchigia di 51.646 euro, è pari a 14.400 euro. Il totale fa 66 mila euro e spiccioli. Oggi ci si può forse comprare un box auto. In periferia, s’intende. Perchè in Italia il valore medio di un appartamento è arrivato a 181.900 euro.
Nel 2011, in Calabria, la Guardia di Finanza ha messo nel sacco un tizio che chiedeva l’esenzione dal ticket sanitario. Ed era proprietario di novanta immobili.
Il luogo comune dice che in Italia il fisco si accanisce sulla casa e lo fa perchè è più difficile da nascondere rispetto ai redditi.
Due balle in un colpo solo.

Stefano Livadiotti
(da “L’Espresso”)

This entry was posted on lunedì, Luglio 29th, 2013 at 16:13 and is filed under casa. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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