Luglio 22nd, 2013 Riccardo Fucile
CON RIO SI CHIUDE L’ERA DEL SEGRETARIO DI STATO… UNA TRANSIZIONE “MORBIDA”
Quella che molti aspettano come la nomina più importante del nuovo Pontificato sarà formalizzata probabilmente nei primi giorni di settembre.
L’era del cardinale Tarcisio Bertone si chiuderà allora, come approdo di un transizione che papa Francesco ha voluto indolore.
Fin troppo, secondo gli avversari del «primo ministro» vaticano.
Una parte dell’episcopato ha cercato di spingere per l’allontanamento di Bertone prima. E sperava che nel prossimo viaggio in Brasile, per la Giornata mondiale della gioventù, Jorge Maria Bergoglio fosse affiancato da un nuovo segretario di Stato, perchè si desse l’impressione di una svolta tangibile anche in una politica estera vaticana asfittica da anni.
Ma Francesco ha consentito a Bertone quest’ultima apparizione al suo fianco.
Non tanto perchè considera la sua collaborazione insostituibile: l’esautoramento di quello che sotto Benedetto XVI era chiamato malignamente «il vice-Papa» per sottolineare il suo enorme potere, ormai è palpabile.
Francesco avrebbe ignorato anche di recente il suo suggerimento di rinviare l’istituzione della commissione di inchiesta sullo Ior.
Una spiegazione della successione al rallentatore è che l’ex arcivescovo gesuita di Buenos Aires ha preferito aspettare per delicatezza nei confronti di Josef Ratzinger: mettere da parte subito il suo primo collaboratore sarebbe suonato come una critica implicita al precedente Pontificato.
Ma forse la vera ragione è che in questi primi mesi il Papa ha voluto capire bene non tanto se la stagione di Bertone fosse chiusa, perchè le critiche plateali al segretario di Stato durante le congregazioni prima del Conclave lo avevano già mostrato come bersaglio e capro espiatorio di un malumore montante.
Il problema è che tipo di «primo ministro» Bergoglio ha in testa. E qui il quadro si fa più confuso. Che si vada verso un ridimensionamento della carica sembra probabile. La segreteria di Stato vaticana negli ultimi anni è stata lo specchio di un sistema di governo che non funziona più e provoca un accentramento tale da costringere il Papa a sovraesporsi per giustificare e proteggere il suo braccio destro.
Almeno, questo è accaduto fra Benedetto XVI e Bertone.
L’istituzione di una sorta di «Consiglio della corona» formato da cardinali di tutto il mondo scelti dal Pontefice argentino, prefigura invece un metodo di lavoro collegiale e insieme una riduzione del profilo del segretario di Stato.
Nell’incertezza sulle prossime decisioni di Francesco è filtrata perfino l’ipotesi che voglia fare a meno di un «primo ministro» vaticano; ma è improbabile.
La «rosa» di nomi che circolano sul successore di Bertone lascia capire solo che pochi conoscono le vere intenzioni del Pontefice; e che si andrà verso una figura comunque meno ingombrante, con funzioni non tanto «politiche» ma più amministrative.
Non è chiaro neppure se la quasi invisibilità del segretario di Stato nelle ultime settimane prefiguri il modello che ha in mente il Papa.
Qualcuno dà per certo che sarà un diplomatico e un italiano. «Può darsi, ma con l’aria che tira contro il “partito italiano” non lo darei per scontato», ammette un cardinale, confermando che il dopo-Conclave segna non solo un indebolimento di Bertone ma una certa difficoltà di una parte della Cei a sintonizzarsi con il Papa argentino. D’altronde, i paradigmi e gli equilibri geopolitici del passato sono saltati.
Lo smantellamento progressivo ma inesorabile dei rituali della Curia e l’affiancamento di commissioni papali ad hoc alle attuali strutture finanziare vaticane dà corpo a una «strategia dell’accerchiamento» che prepara il terreno sul quale costruire il nuovo modello di governo; e sottolinea quanto non ha funzionato finora.
È un’opera di demolizione simbolica di vecchie abitudini e strutture, che serve anche a misurare le resistenze delle lobby ecclesiastiche ed economiche più radicate: quelle che hanno contribuito a spingere Benedetto XVI alle dimissioni nel febbraio scorso; e che tuttora oscillano fra paura e voglia di resistere per sopravvivere.
Si racconta che nelle anticamere dei palazzo vaticani, mentre il Papa riceve i suoi ospiti importanti, i monsignori della Curia scherzano davanti a tutti con toni agrodolci su dove verranno «esiliati» nei prossimi mesi.
Prima, il 15 giugno, la nomina del «prelato» dello Ior, Battista Ricca. Poi la creazione della commissione di inchiesta sull’Istituto per le opere di religione; e tre giorni fa quella dell’organismo chiamato a controllare i costi di tutte le attività economiche della Santa Sede.
L’escalation è vistosa, in appena un mese. Anche se lo scandalo sulle abitudini private di monsignor Ricca sta diventando il pretesto al quale la vecchia guardia cercherà di appigliarsi per contestare i metodi solitari con i quali Bergoglio sceglie i collaboratori.
Ma difficilmente l’incidente, per quanto fastidioso, bloccherà la rivoluzione in atto. Tutti i vertici dello Ior, del passato e del presente, sono chiamati a sfilare davanti alla commissione d’inchiesta presieduta dal cardinale Raffaele Farina per riferire sulle attività dell’Istituto: non solo dunque Ernst von Freyberg, l’attuale presidente, ma anche i predecessori Ettore Gotti Tedeschi e Angelo Caloja.
E con loro gli ex direttori. Le accuse della magistratura italiana contro Paolo Cipriani e Massimo Tulli, il direttore dell’Istituto e il suo vice, costretti alle dimissioni il 1° luglio, evocano zone oscure da chiarire prima che arrivino altri scandali.
Continua a aleggiare il sospetto che esistano «conti in affitto» offerti a persone o società con grandi disponibilità di denaro per svolgere operazioni finanziarie protette in cambio di corposi contributi.
L’arresto, il 28 giugno scorso, di monsignor Nunzio Scarano promette altre rivelazioni imbarazzanti sulla spregiudicatezza almeno di alcuni fra quanti maneggiano soldi in Vaticano.
Il prelato salernitano, coinvolto nel tentativo di far rientrare in Italia 20 milioni di euro dalla Svizzera, pochi giorni fa avrebbe fatto consegnare alla Procura di Roma dei documenti sulle attività dell’Apsa, l’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica, dove ha lavorato per ventidue anni.
Gira voce che ancora poche settimane fa alcune persone definite «vicine allo Ior» avrebbero contattato i vertici italiani di una banca estera per valutare la possibilità di compiere alcune transazioni.
Non se n’è fatto nulla perchè gli interlocutori hanno chiesto garanzie e condizioni che gli emissari dell’Istituto non era in grado di offrire. Ma, se è vero, l’episodio conferma il motivo della determinazione del Papa a andare fino in fondo.
Qualche spunto interessante sulla possibile riforma dello Ior è stato offerto qualche giorno fa da Pellegrino Capaldo, professore emerito di Economia aziendale alla Sapienza, tradizionalmente vicino alla Santa Sede; e rispettato e ascoltato per avere sempre offerto al Vaticano aiuto e consigli.
Fra l’altro, nel 1982 fu uno dei tre membri di nomina vaticana (affiancati dai tre scelti da Palazzo Chigi) della commissione mista fra Italia e Santa Sede incaricata di ricostruire la verità nella vicenda oscura dei rapporti fra il banchiere Roberto Calvi e lo Ior.
Partecipando recentemente a un dibattito, Capaldo ha sostenuto che lo Ior deve tornare alle origini, eliminando le anomalie e le deviazioni che si sono manifestate negli anni.
L’idea è di trasformarlo in modo da rendere chiaro che non è una banca.
Per riuscirci andrebbero vietate esplicitamente le operazioni che la fanno apparire tale. L’alternativa, secondo Capaldo, è lo scioglimento dello Ior e la costituzione di un nuovo organismo al quale affidare compiti limitati alle «opere di religione». L’economista opta per la prima soluzione, però.
Lo scioglimento, a suo avviso, è sconsigliabile perchè marcherebbe in modo netto la discontinuità col passato ma avrebbe come controindicazione una valutazione tutt’altro che benevola del modo di operare della Chiesa nel passato.
Non si tratta di un’analisi eterodossa. Sembra di ascoltare gli echi della discussione in atto nelle sacre stanze.
Quando Capaldo esprime la convinzione che il Vaticano non ha bisogno di una banca, viene in mente papa Francesco che in un’omelia del 24 aprile avvertì: «Lo Ior è necessario ma fino a un certo punto».
E le sue critiche alla gestione non suonano più dure di quelle fatte dal Pontefice ripetutamente. Adesso si aspetta che le istituzioni finanziarie internazionali certifichino la trasparenza nel modo di operare del Vaticano.
Fra cinque mesi arriverà il rapporto di Moneyval, l’organismo del Consiglio d’Europa chiamato a giudicare sulle virtù o i difetti degli Stati in materia di riciclaggio di denaro sporco e di finanziamento del terrorismo.
Ma secondo il professor Capaldo, più che discutere di white o black list forse sarebbe stato meglio vietare a tutte le amministrazioni della Santa Sede, e in particolare allo Ior, di compiere certi tipi di operazioni.
Non è stato un bello spettacolo, ha detto Capaldo, vedere il Vaticano che negozia al ribasso gli standard di trasparenza. Il punto d’arrivo, tuttavia, rimane indefinito.
Papa Francesco ha l’aria di un ingegnere al quale è stato affidato il compito di demolire gli abusi edilizi commessi per anni, impunemente, su uno splendido edificio. Finora ha picconato, e già si intravede qualche maceria fra le nuvole di polvere. Eppure, che cosa verrà fuori alla fine è indecifrabile.
La planimetria della Chiesa di Bergoglio è nascosta dai rumori e dagli scricchiolii di un cantiere in attività febbrile.
Ma probabilmente, nella testa del Pontefice e in quella almeno di alcuni dei suoi grandi elettori all’ultimo Conclave, è pronta da tempo.
E subito dopo l’estate rivelerà contorni e strutture che, viste le premesse, saranno sorprendenti e, forse, perfino traumatiche.
Massimo Franco
(da “il Corriere della Sera”)
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Luglio 22nd, 2013 Riccardo Fucile
ECCO COME I DOCUMENTI SMENTISCONO I “NON SAPEVO” DEL MINISTRO
Cinquanta giorni di silenzio e dodici di frenetico maquillage della verità del ministro dell’Interno
Angelino Alfano sul caso Ablyazov consegnano all’opinione pubblica una vicenda in cui si contano almeno tre macroscopiche menzogne.
Che solo un cinico e dichiarato ricatto sul Governo ha impedito che trovassero un naturale corollario in un voto di sfiducia parlamentare.
Ma che la forza incoercibile dei fatti rende impossibili da elidere.
Che lungi dunque dal chiudere l’affaire ne amplificheranno di qui in avanti la sua forza destabilizzante e il suo potenziale di ricatto.
Tre menzogne che conviene mettere in fila e che sono state l’unica risposta di Alfano alle domande che Repubblica gli ha rivolto quando questa vicenda ha avuto inizio.
“NON SONO STATO INFORMATO”
«Non sapevo. Non sono stato informato ». È la prima, categorica quanto generica affermazione che il ministro dell’Interno abbozza e dietro cui si trincera.
A suo dire, apprende della catastrofe “Ablyazov” e di ciò che ne è seguito (l’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua di 6 anni) solo il 31 maggio, o forse il primo giugno, o forse no, il 2 (le versioni che ha dato sono tre), da un colloquio con il ministro degli esteri Emma Bonino.
E nell’apprenderla nulla gli sovviene ripensando a «tre telefonate» dell’ambasciatore kazako Yelemessov cui non avrebbe risposto solo pochi giorni prima, il 28 maggio. Chiede quindi spiegazioni al capo della Polizia Alessandro Pansa con toni tra l’accorato e lo sgomento («Dimmi, Alessandro, come è stato possibile che non abbia saputo?») .
Si accontenta di una prima spiegazione (quella ricevuta da un appuntino della Questura del 3 giugno) e quindi manda serenamente avanti a metterci la faccia il ministro di giustizia Anna Maria Cancellieri («Le procedure di espulsione della Shalabayeva e di sua figlia sono state perfette») , salvo tenersi alla larga dal Parlamento dove un’interrogazione a risposta scritta di Sel (cui non risponderà mai) chiede conto dell’accaduto.
Poi, ci ripensa. Il 12 luglio annulla il decreto di espulsione e ordina un’inchiesta interna che deve assolverlo.
Scoprendo in quattro giorni (al capo della Polizia viene chiesto di consegnare il compito prima del voto di fiducia al Senato) che chi lo ha “tradito” sono il suo capo di Gabinetto Giuseppe Procaccini e un navigato prefetto di lungo corso, Alessandro Valeri, segretario del Dipartimento della Pubblica Sicurezza.
Bene. Non una di queste circostanze ha retto alla verifica dei fatti.
a) Giuseppe Procaccini informa Alfano della richiesta di catturare Mukhtar Ablyazov avanzata dall’ambasciatore kazako il 29 maggio. E questo, dopo aver pianificato con il diplomatico e il Prefetto Valeri, la sera del 28, il blitz nella villa di Casal Palocco.
b) Procaccini viene incaricato di ricevere il diplomatico dallo stesso Alfano, che gli raccomanda solerzia trattandosi di «questione delicata». Il che rende logicamente incomprensibile come il ministro abbia potuto raccomandare qualcosa di cui non conosceva il merito, se è vero che il ministro e l’ambasciatore non si parlarono mai.
c) La mattina del 29 maggio, l’ambasciatore kazako torna al Viminale. È ricevuto, ancora una volta, da Procaccini, con cui si lamenta degli esiti del blitz della notte precedente nella villa di Casal Palocco e da cui ottiene un supple-di ricerche.
“NULLA SEPPI DELLA DONNA E DELLA BAMBINA”
Costretto ad aggiustare la prima versione dei fatti, Alfano si impicca a una sua funambolica variante.
La vicenda Ablyazov – dice – ha avuto effettivamente “un prima” (la ricerca del “pericoloso latitante”) e un “dopo” (l’espulsione della moglie e della figlia). Del prima, concede, «venni informato da Procaccini».
Del “dopo”, «nulla seppi fino al colloquio con la Bonino».
Anche in questo caso, i fatti lo sconfessano.
a)La notizia dell’espulsione di Alma Shalabayeva e della sua bimba viene battuta dall’Ansaalle 20.01 del 31 maggio, un’ora dopo il decollo da Ciampino dell’aereo che le riporta in Kazakistan.
b) Due diversi cablo dell’ufficio Interpol di Astana, tra il 28 e il 30 maggio, indicano che, sin dall’inizio, la caccia grossa del Regime di Nazarbaev ha due obiettivi. Mukhtar Ablyazov, naturalmente, e sua moglie Alma Shalabayeva. Della donna – che, alla vigilia del blitz di Casal Palocco, i kazaki avvertono viva con il marito – vengono fornite in un primo cablo le generalità complete. Nel secondo, oltre agli estremi dei suoi due passaporti kazaki, anche quelle di un passaporto della Repubblica centroafricana “presumibilmente falso” (quello che effettivamente mostrerà alla nostra polizia al momento del fermo). Il tutto, accompagnato da una richiesta: «Fermatela quella donna e deportatela in Kazakistan».
c) Il pomeriggio del 31 maggio, all’aeroporto di Ciampino, poche oreprima del decollo dell’aereo con a bordo la Shalabayeva, il consigliere di ambasciata kazako Khassen, di fronte all’assistente capo della polizia Laura Scipioni, sventolando il biglietto da visita di Giuseppe Procaccini, ne compone per cinque volte il numero dal suo telefono cellulare. E non è un numero qualunque. Nell’ufficio di Procaccini, infatti, la mattina del 29 maggio si è discusso dell’esito del blitz di Casal Palocco. Ragionevolmente, dunque,anche del fermo della Shalabayeva.
“IGNORAVO CHE ABLYAZOV E LA MOGLIE FOSSERO RIFUGIATI”
Quando tutto comincia a mancare, Alfano, ritenendolo un formidabile argomento difensivo (ancorchè un’ammissione di inettitudine dei nostri apparati di sicurezza centrali e periferici), spiega che, comunque, nessuno seppe, se non a cose fatte, che Ablyazov era un dissidente e, insieme alla moglie, godeva dello status di rifugiato politico in Inghilmentoterra.
La parziale verità dell’affermazione è sfigurata e svuotata di ogni significato, fino a trasformarla nel suo contrario, da ciò che accade dopo che il Viminale apprende da Scotland Yard (per altro sollecitata dal nostro Ministero degli Esteri) che Ablyazov e la moglie sono effettivamente rifugiati politici (il 4 giugno).
Per l’intero mese di giugno, infatti, mentre il ministro dell’Interno è politicamente inerte e si guarda bene dal riconsiderare il provvedimento di espulsione della Shalabayeva (lo farà solo il 12 luglio), la nostra Polizia, su indicazioni e sollecitazioni pressanti dei kazaki, prosegue la sua caccia senza quartiere a Mukhtar Ablyazov.
Ostinato nel tacere la verità , Alfano sfida chi gliene chiede conto scommettendo sull’omertà dell’altro protagonista della vicenda: il regime di Nazarbaev.
Ancora ieri, in un’intervista al Corriere della Sera, invitava con sarcasmo a chiedere non a lui, ma all’ambasciatore Yelemessov perchè, il 28 maggio, decise di sollecitare la cattura di Ablyazov prima in Questura a Roma e poi al Viminale.
Omettendo, naturalmente, di spiegare il perchè lui e il suo capo di gabinetto permisero che il diplomatico kazako si accampasse per 36 ore al piano nobile del Viminale disponendo dei nostri apparati della sicurezza come di cosa propria.
È possibile, se non molto probabile, che la scommessa di Alfano sul silenzio kazako sia ben riposta.
Ma se il segreto di Astana dovesse anche solo incrinarsi, si può star certi che di questa storia si tornerà a parlare molto presto.
E non basterà un ricatto sul governo a soffocarla o a impedire di guardare la verità dritta negli occhi
Carlo Bonini
(da “La Repubblica“)
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Luglio 22nd, 2013 Riccardo Fucile
IN 12 ANNI IL GETTITO PER I COMUNI E’ PASSATO DA ZERO A QUATTRO MILIARDI… DALL’IRPEF ALL’IRAP, ALLE TARIFFE, ECCO IL CONTO DEL FEDERALISMO TANTO DECANTATO
L’ultima arrivata è Genova. L’Imu sulla prima abitazione passa dal 5 al 5,8 per mille, quella sulle seconde case affittate a canone concordato dal 7,6 al 9,5 per mille.
«Senza l’aumento dell’Imu avremmo dovuto fare tagli dolorosi e insostenibili» ha spiegato il sindaco Marco Doria giovedì scorso, proprio mentre governo e maggioranza, riuniti a Palazzo Chigi, avviavano la discussione sulla riduzione della tassa sugli immobili.
Ma che federalismo imbroglione è mai questo?
I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali.
Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione.
E invece è successo proprio così: negli ultimi vent’anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte.
Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.
«È un sistema ingestibile» ammette Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e oggi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, con il ministro Gaetano Quagliariello.
Federalismo ingestibile.
«Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio, ndr ) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c’è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato» aggiunge Antonini.
Prendiamo l’Imu. Negli ultimi due anni è cambiata tre volte, e presto ci sarà la quarta versione. Con il risultato che i Comuni faranno i bilanci preventivi del 2013 a settembre.
E per far quadrare i conti, considerate le spese fisse e che tre quarti dell’anno sono già passati, non potranno che tagliare gli investimenti, gran parte dei quali sono stati decentrati agli enti locali.
E pazienza se sono proprio gli investimenti che servirebbero per rilanciare la crescita economica.
Il problema viene da lontano, da una riforma costituzionale che invece di fare ordine ha fatto esplodere il conflitto di competenze tra i vari livelli di governo e che oggi il nuovo esecutivo vuol correggere.
Dai tagli lineari degli ultimi anni, che come dice Antonini «hanno colpito senza criterio, finendo per penalizzare gli amministratori virtuosi e premiare gli incapaci. Facendo crescere irresponsabilità ed inefficienza».
E anche dal federalismo fiscale, avviato e lasciato a metà del guado, tanto che gli stessi saggi del presidente della Repubblica, Giorno Napolitano, hanno inserito il completamento del processo tra le priorità assolute dell’agenda di governo.
Che punta dritto alla revisione della Costituzione, con il riordino delle competenze tra i vari livelli di governo.
Policentrismo anarchico.
Del resto, in questo federalismo non si sa chi fa che cosa, e la confusione regna sovrana.
«Sono dieci anni che deve essere approvata la Carta delle Autonomie – sottolinea Antonini -, sono vent’anni che devono essere costituite le città metropolitane. Il decentramento significa avvicinare il più possibile ai cittadini la porta cui bussare quando le cose non vanno più. Ma invece del federalismo fiscale, invece del decentramento, abbiamo creato un policentrismo anarchico». Dove ognuno fa quello che gli pare. Pensiamo alle opere pubbliche: ogni ente locale mette un veto, e ogni veto costa. Tanto, tantissimo.
Un esempio? «Costruire un chilometro di linea ferroviaria – racconta ancora Antonini – costa 13 milioni di euro in Francia, 15 in Spagna e 50 in Italia».
Sarà il Titolo V, la mancanza di coordinamento, saranno i tagli lineari o la confusione istituzionale, resta il fatto che agli italiani il federalismo riserva soltanto dolori.
Tanto per dire.
L’anno scorso, primo anno di vita della nuova Imu, il 25% dei Comuni ha aumentato l’aliquota di base (per un totale di 3,8 miliardi di maggiore incasso).
Quest’anno, oltre a Genova, già a inizio di maggio il 17,6% dei Comuni italiani aveva deliberato l’aumento per quest’anno delle tasse sugli immobili.
Tra il 2011 ed il 2013 l’80% delle Province ha provveduto ad elevare al livello massimo, il 16%, l’imposta sulle assicurazioni. Secondo uno studio della Uil, poi, dopo l’impennata degli anni scorsi è molto probabile per il 2014 un nuovo incremento delle addizionali Irpef regionali: quasi 5 miliardi in più, altri 140 euro l’anno da pagare per ogni contribuente.
Tra il 2000 ed il 2012 il gettito delle addizionali regionali è passato da 2,5 a 10,6 miliardi, quello delle sovrattasse comunali da 500 milioni a 4 miliardi, l’Ici/Imu da 8,4 a 22,6 miliardi, l’Irap da 27 a 33 miliardi.
Senza contare le tariffe dei servizi pubblici come la raccolta rifiuti, gli asili nido, il trasporto locale.
150 miliardi di tagli. Un salasso. Che tuttavia non è difficile spiegare, perchè in questi venti anni che hanno visto crescere la spesa e le tasse a livelli esponenziali, sia al centro che in periferia, l’unica cosa rimasta al palo sono i trasferimenti dello Stato agli enti locali.
Erano 72 miliardi nel 1992, e 86 miliardi l’anno scorso.
Un 20% in più, a fronte di una spesa lievitata nel frattempo del 125%, da 90 a 205 miliardi.
Al giro di vite sui trasferimenti, negli ultimi anni, si è sommata la stretta sul patto di Stabilità interno.
Tra il 2009 ed il 2015, per effetto di misure già prese, i tagli su Comuni, Province e Regioni ammonteranno a 149,9 miliardi: 61,6 miliardi di trasferimenti in meno e 88,3 miliardi sul patto di Stabilità interno. Logico che poi i sindaci ed i governatori aumentino le tasse.
Detroit fallisce, Napoli vive.
Tanto più che nel federalismo all’italiana non c’è neanche il rischio di dover pagare cara una simile scelta di fronte ai propri elettori. Anzi.
Il sacrosanto principio del «fallimento politico» introdotto dai decreti del federalismo, che ad esempio portavano all’ineleggibilità per dieci anni dei governatori responsabili del dissesto della sanità regionale, è stato prima edulcorato in Parlamento, poi cassato dalla Corte Costituzionale appena tre giorni fa.
Siamo al paradosso che, nel caso i conti della sanità andassero a rotoli, gli stessi governatori regionali che magari hanno causato il disastro, in base alla legge attuale vengono nominati Commissari.
Saltando a piè pari pure il ruolo del consiglio regionale.
Ancor peggiore è stata la sorte delle sanzioni politiche immaginate per i sindaci incapaci. Che come i governatori, invece di essere puniti per la cattiva gestione, oggi vengono premiati.
Merito di un emendamento passato in Parlamento alla fine dell’anno scorso nell’indifferenza generale.
Il dissesto guidato, la procedura che portava i Comuni ad una sorta di concordato preventivo, ed i sindaci verso l’addio alla vita politica, è stato rivoluzionato.
Sbagli e ti cacciano? Ma quando mai: se il Comune è con l’acqua alla gola il sindaco va a bussare cassa a Roma.
E lo Stato gli dà un bel prestito decennale (a carico della fiscalità generale) e la garanzia che a lui non succederà proprio niente.
Detroit fallisce e porta i libri in tribunale. Napoli e Reggio Calabria galleggiano.
Mario Sensini
(da “il Corriere della Sera“)
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