Luglio 24th, 2013 Riccardo Fucile
SI DIMETTE DA PRESIDENTE DOPO CHE IL GRUPPO M5S “BOCCIA ”LA PARCELLA DEL PORTAVOCE
L’assemblea sgrana gli occhi: no, quei 10 mila euro a Caris Vanghetti non glieli diamo. 
Così, interdetta dalla decisione dei deputati che hanno voltato le spalle al suo fidato collaboratore degli esordi, Roberta Lombardi ha deciso di dimettersi.
Non è più la presidente del gruppo. Il suo turno da portavoce è finito già a giugno, in favore di Riccardo Nuti.
Fino a marzo dell’anno prossimo, però, avrebbe dovuto rimanere titolare di firma su contratti e impegni di spesa (ora lo sarà lo stesso Nuti).
E proprio su una fattura finisce la carriera della capogruppo Lombardi.
Torniamo a quei primi giorni di legislatura quando la truppa di 109 cittadini sbarca a Montecitorio.
Sono giorni concitati: riunioni infinite alla Sala della Regina, continui colloqui per i collaboratori, incontri blindati negli hotel della Capitale, commessi trasformati in guardiaspalle, rischio gaffe ad ogni passo inTransatlantico.
Lo staff della comunicazione (competenza esclusiva di Grillo e Casaleggio) deve ancora arrivare.
Così, è Caris Vanghetti — 38 anni, già giornalista de L’ultima Parola — a governare il traffico delle prime ore a palazzo.
Lo ha scelto Roberta Lombardi in persona, che ha avuto modo di conoscerlo nel meetup romano.
Dura fino all’arrivo dei prescelti dai fondatori, Claudio Messora e Nicola Biondo.
Poi, Vanghetti torna a casa. E ora presenta il conto.
Per giustificare i 10 mila euro di compensi per“attività di ufficio stampa e relazioni istituzionali” allega alla fattura una lista di 54 punti.
Alcuni sorprendenti.
Staff e piattaforma Curriculum e Rete, pietre fondanti del metodo Casaleggio.
Chissà se a Milano sanno che in quei giorni di marzo, a Roma, c’è una persona che si sta occupando di “mettere a punto un sistema di democrazia partecipata attraverso i siti di Camera e Senato”, di “trovare liste di potenziali collaboratori”, di partecipare a “incontri per la selezione di personale a partire dal 18 febbraio” (sette giorni prima delle elezioni).
Stanze e poltrone
Vanghetti non tralascia nulla.Trova “i posti in aula per i deputati”, “le sale per le nostre riunioni ogni volta che ci riunivamo”, fa “incontri con uffici Camera per avere gli uffici del gruppo”. Organizza la “visita ai carabinieri feriti nell’attentato davanti a palazzo Chigi”.
Scopre la “disciplina di pass e parcheggi”.
E scova perfino una “stanza per l’allattamento della deputata Lupo”.
Gli ottimi rapporti nei corridoi di Montecitorio lo portano a ottenere “il Def in formato definitivo prima che fosse firmato dal capo dello Stato”.
Studi e riforme oltre che relazioni e conferenze, da pagare ci sono analisi e proposte: al “dossier sul reddito di cittadinanza”alle “pensioni d’oro”, dalle“proposte dei saggi” f ino al Def con “l’evidenziazione del problema che (…) i soldi sarebbero andati alle banche”.
Post e incontri
Altro che Beppe: in quei mesi, due post li ha scritti Vanghetti.
E per conto del gruppo ha mantenuto “rapporti con la Fiom” e incontrato “la Guardia di finanza”.
Ma soprattutto ha avuto “incontri costanti con il Quirinale per tutto il periodo precedente la fiducia al governo Letta”e tenuto “rapporti con le altre forze politiche in occasione dell’elezione del capo dello Stato”.
E noi che pensavamo che la Lombardi, nel Movimento, stesse con i“talebani”.
Paola Zanca
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Luglio 24th, 2013 Riccardo Fucile
CACCIATA DAL MOVIMENTO PER AVER OSATO CRITICARE GRILLO, LA SENATRICE CINQUESTELLE GUARDA AVANTI: IL GRUPPO DEGLI EPURATI SI CHIAMERA’ “GRUPPO D’AZIONE POPOLARE”
“L’amaro in bocca? Lo devono avere loro”.
Espulsa un mese fa dai 5 Stelle, per aver osato criticare Grillo, la senatrice Adele Gambaro non si pente affatto (“non mi sembra che i toni di Grillo siano cambiati, io ho solo fatto una critica, è la loro reazione che dovrebbe stupire”) e, dopo la gogna, guarda avanti.
Per l’autunno, lei e gli altri fuoriusciti di Camera e Senato hanno in serbo un nuovo progetto: un gruppo autonomo all’interno del gruppo misto.
Una risposta, spiega la senatrice bolognese, “alle tante pressioni ricevute dal territorio, dove sono moltissime le persone fuoriuscite o che si sentono a disagio all’interno del Movimento 5 Stelle”.
Sul nome per adesso circolano solo supposizioni, ma una è particolarmente suggestiva: il gruppo dei fuoriusciti a 5 Stelle potrebbe chiamarsi Gap: “Gruppo d’azione popolare”.
Lo stesso acronimo dei partigiani che combattevano per la liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Solo che all’epoca stava per “Gruppi d’azione patriottici”.
L’espulsione dal Movimento.
Cacciata per un’intervista a Sky in cui criticava i toni del Guru (“il problema del Movimento è Grillo”) e poi sottoposta a un doppio processo, prima al cospetto dei parlamentari e poi davanti all’oscura democrazia del web, la Gambaro ora è determinata a uscire dall’angolo in cui Grillo l’ha cacciata.
Il punto sul quale insiste di più è che la pressione per “fare qualcosa” è venuta anche in questo scorcio di estate dal basso, dal territorio.
Consiglieri, attivisti, associazioni, semplici cittadini.
Anche dall’Emilia-Romagna. Hanno scritto mail, inviato messaggi su Facebook, sono venuti in delegazione a Montecitorio e Palazzo Madama, hanno rincorso gli ex a Cinque stelle in ogni modo. “Ci chiedono – spiega – di diventare i punti di riferimento per i delusi dei 5 Stelle all’interno delle istituzioni. Sul territorio c’è molto malessere”.
“Ora il gruppo autonomo”.
Di qui l’idea: non avendo i numeri per costituire un gruppo autonomo, potrebbero fare come Sel: un gruppo autonomo all’interno del gruppo misto.
Per avere un’identità definita ed essere riconoscibili già durante questa legislatura.
E dopo chissà .
Oltre alla Gambaro, ci sarebbero il senatore Marino Mastrangeli, cacciato per le troppe apparizioni televisive, la senatrice veneta Paola De Pin, che ha lasciato il Movimento spontaneamente in solidarietà con la Gambaro e la collega romana Fabiola Antinori, l’ultima arrivata.
Alla Camera invece gli ex grillini sono tre: i due tarantini Alessandro Furnari e Vincenza Labriola e il romano Adriano Zaccagnini, fuoriuscito anch’egli spontaneamente dopo il caso-Gambaro (“Non sono a mio agio in un Movimento che epura”).
Il nome del gruppo dovrebbe essere lo stesso e dovrebbe nascere contemporaneamente alla Camera e in Senato.
“I toni di Grillo non sono cambiati”.
L’idea è ancora in fase embrionale, ma i fuoriusciti ne stanno parlando in maniera sempre più concreta.
Ieri la Gambaro era a Taranto, in visita all’Ilva con la commissione industria di Palazzo Madama.
Con i suoi ex colleghi dei 5 Stelle, dice, è rimasta in buoni rapporti.
“Chi non mi salutava prima non lo fa neanche adesso, ma sono una minoranza”.
Sulla tenuta del Movimento, non vuole sbilanciarsi, “se loro stanno bene nel M5S bisogna chiederlo a loro, non voglio parlare per loro”.
Per quello che la riguarda, invece, i punti di contrasto con Grillo restano gli stessi.
Di Casaleggio, che ha ormai sostituito il comico genovese alla guida del Movimento, non condivide quasi niente: lo stile, i toni, il messaggio.
“Anche l’ultima dichiarazione sul fatto che il Paese rischia la guerra civile, mi pare molto esagerata. Premettiamo una cosa: la sfera di cristallo non ce l’ha nessuno. Ma fare queste dichiarazioni mi sembra una strategia sbagliata. Così si rischia solo di alimentare la tensione. A forza di dire succederà , succederà , succederà va a finire che succede…”.
Al rischio contagio delle espulsioni in altri partiti, venuto alla ribalta ieri con il caso di Rosario Crocetta in Sicilia (“Il Pd mi mette al rogo”), la senatrice invece crede poco.
Il primato dell’anti democrazia, per lei, resta in mano ai 5 Stelle.
“Mi sembra che nel M5S ci siano più espulsioni che altrove, basta guardare i numeri”.
“Non saremo un M5s bis”.
Una cosa è certa: il gruppo dei fuoriusciti non sarà un Movimento 5 Stelle bis (“assolutamente”), ma qualcosa di nuovo, che col Movimento di Grillo e Casaleggio non vuole avere più niente a che fare.
Un gruppo disponibile anche a fare alleanze, per il bene del Paese, quello che non ha fatto Grillo. “I territori ci chiedono di impegnarci – spiega la Gambaro – e vorremmo dargli ascolto. Ci sembra la cosa migliore da fare nell’immediato”.
A livello politico, già a nello studio di Luca Telese, a In Onda, la Gambaro si era detta disposta a votare una fiducia a una maggioranza alternativa: “Per il bene del paese daremmo anche un voto di fiducia, il nostro obiettivo dev’essere questo”.
Oggi lo ribadisce, e aggiunge: “Pd e Pdl non sono la stessa cosa”.
Insomma, Casaleggio ha ragione: per i 5 Stelle si preannuncia un autunno caldo.
Ma la guerra civile rischia di averla in casa, non di guardarla alla finestra.
Caterina Giusberti
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Luglio 24th, 2013 Riccardo Fucile
LA PROPOSTA DELLA SOCIETA’ GEOGRAFICA ITALIANA PER RENDERE OMOGENEE LE AREE E RIDURRE GLI SPRECHI
Il termine non è particolarmente elegante, ma rende bene l’idea di quanto accaduto in Italia
nel dopoguerra: «Iperterritorializzazione».
All’inizio, spiega la Società geografica italiana, c’erano le Province, retaggio tipico di un Risorgimento che aveva rinnegato il federalismo.
Lo Stato unitario era stato modellato sull’organizzazione centralistica di stampo napoleonico con 59 ripartizioni territoriali di dimensioni ottimali per poter essere attraversate in una giornata di cavallo.
Poi sono arrivate le Regioni, le quali avrebbero dovuto mettere fine a quel modello avviando la stagione delle autonomie e del decentramento.
Invece le Province hanno preso a lievitare come la panna montata.
Alla nascita delle Regioni, nel 1970, erano 94, tre in più rispetto al 1947.
Oggi sono 110. E con loro si moltiplicavano Unioni dei Comuni, Comunità montane, Comunità collinari, Circoscrizioni comunali, Circondari, Aree di sviluppo industriale, Ambiti turistici, Centri per l’impiego…
Per non parlare dell’inestricabile groviglio degli enti intermedi fra Comuni, Province e Regioni: dalle aziende sanitarie locali alle migliaia di società pubbliche locali, agli ambiti territoriali ottimali, ai consorzi di bonifica, perfino alle istituzioni scolastiche. E l’autonomia si è trasformata in un delirio.
Sovrapposizioni di competenze, duplicazione di funzioni, moltiplicazione di responsabilità senza che nessuno sia davvero responsabile.
Il tutto con ben cinque Regioni (o sei, considerando le Province autonome di Trento e Bolzano) a statuto talmente speciale da metterle di fatto al riparo da qualunque condizionamento centrale.
Un coacervo talmente complicato che nessuno è oggi nemmeno in grado di dire con esattezza quante siano in Italia le pubbliche amministrazioni: una recente ricognizione le ha stimate in un numero prossimo a 46 mila.
Ma oltre una semplice stima non si è ancora riusciti ad andare, appunto.
Il che la dice lunga sul disordine prodotto da questa superfetazione incontrollata di livelli amministrativi.
La riforma del titolo V della Costituzione voluta dal centrosinistra nel 2001 ha poi contribuito a far impazzire definitivamente la maionese, decentrando poteri spesso in modo irrazionale: basti dire che ogni Regione poteva farsi il bilancio con principi contabili propri, e che fra le materie di concorrenza legislativa fra Stato e Regioni era stato messo anche il lavoro.
Come se le aziende del Lazio potessero avere sui contratti relativi agli stessi mestieri regole diverse da quelle della Campania.
Non è un caso, dunque, che proprio dall’inizio del nuovo secolo la spesa pubblica abbia cominciato ad aumentare esponenzialmente: in dieci anni i bilanci regionali sono raddoppiati, senza che alla crescita delle spese in periferia abbia corrisposto una riduzione analoga delle spese dello Stato centrale.
E fare marcia indietro ora si rivela complicatissimo, come dimostra la telenovela dell’abolizione delle Province.
Parte da qui un’idea che la Società geografica italiana aveva già presentato all’inizio di marzo, provando a immaginare un’Italia con una articolazione territoriale completamente diversa.
Senza più le 110 Province (109 al netto della valle d’Aosta, dove Provincia e Regione coincidono), nè le 20 Regioni (21, considerando le Province autonome di Trento e Bolzano): al loro posto 36 dipartimenti regionali più omogenei per radici storiche e fondamentali economici.
Qualche esempio aiuta a capire.
L’attuale Piemonte verrebbe suddiviso in tre Regioni più piccole: una comprendente i territori di Asti, Cuneo e Alessandria, la seconda coincidente con la Provincia di Torino e la terza ottenuta dall’unione di Novara, Vercelli e la Valle D’Aosta.
Ancora. Le Province di Brescia, Verona e Mantova dovrebbero dare luogo a una piccola Regione a cavallo fra l’attuale Lombardia e il Veneto.
Così come al Sud si unirebbero Campobasso e Foggia. Mentre La Spezia confluirebbe nella piccola Regione tirrenica composta da Pisa, Livorno, Lucca e Massa Carrara.
Gli unici dipartimenti a coincidere con gli attuali confini regionali sarebbero Marche, Umbria, Abruzzo, Basilicata, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige.
Facile immaginare le possibili reazioni: non troppo differenti, supponiamo, da quelle che hanno accolto, impallinandola, la proposta di accorpamento delle Province partorita dall’ex ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi.
Pensate alla fusione fra Pisa e Livorno. Con Lucca, poi…
E l’integrazione fra Firenze e Prato? Ci sono voluti decenni per dividere le due Province e ora di nuovo insieme, per giunta con Pistoia e Arezzo.
Come spiegare poi a viterbesi e reatini che il loro destino sarebbe di confluire in una microregione con Roma?
O ai cremonesi che la via maestra li porterebbe nelle braccia di Parma e Piacenza?
Niente più che una simulazione, ovvio.
Con zero speranze di fare breccia nel marasma legislativo, dove, ancora prima di vedere la luce, il disegno di legge che svuota le Province cui sta lavorando il ministro Graziano Delrio non ha vita facile.
Ma con l’aria che tira può essere già considerato un successo, per la Società geografica ora presieduta da Sergio Conti, che la proposta venga esaminata da un «tavolo tecnico» al ministero degli Affari regionali con il sottosegretario Walter Ferrazza, candidato senza fortuna alle ultime politiche con il Mir di Gianpiero Samorì e poi ripescato al governo, nonchè tuttora sindaco di Bocenago, 400 abitanti in Provincia di Trento.
Il quale si ritrova fra le mani un autentico scoop.
Per la prima volta, da quando esistono le Regioni, sul tavolo del governo c’è una proposta che sia pure come caso di scuola ne mette in discussione la loro stessa esistenza: sulla base di quell’assunto del famoso geografo Calogero Muscarà che nel 1968, un paio d’anni prima che venissero create, le definì «una conchiglia vuota sul piano identitario».
Un guscio che però negli anni si è riempito di potere e soprattutto denaro.
Tanto denaro: ogni anno le Regioni gestiscono più di 200 miliardi di euro.
Oltre un quarto di tutta la spesa pubblica.
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera“)
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Luglio 24th, 2013 Riccardo Fucile
MANCANO CINQUE MILIARDI CHE SALGONO A 15 CON IMU, IVA E SPESE DA FINANZIARE
Finalmente se n’è accorto anche il governo: la recessione in Italia è peggiore di quella che ancora risulta a verbale sul Documento di economia e finanza (Def).
L’ultima modifica risale infatti a marzo, quando a palazzo Chigi c’era ancora Mario Monti, e prevedeva un Pil in calo dell’1,3% rispetto all’anno precedente e un deficit al 2,4% del Prodotto.
Poi il rapporto deficit/Pil è stato corretto al 2,9% per effetto del pagamento di venti miliardi di euro di debiti commerciali della P.A. e la Commissione europea ci ha benedetto con l’uscita dalla procedura d’infrazione per disavanzo eccessivo.
Peccato che ora anche quella (de)crescita dell’1,3% non sia più realistica: le cose vanno molto peggio di così.
E infatti, in questi giorni, la Direzione Analisi economico-finanziaria del Tesoro, guidata da Lorenzo Codogno, ha cominciato a riscrivere il Def incorporando una recessione maggiore: più o meno il calo del Pil dovrebbe aggirarsi — secondo il nuovo testo del governo — attorno all’1,9%, in linea con le recenti previsioni di Banca d’Italia, Ocse e Fondo monetario.
Ovviamente, questo non può non avere effetti anche su tutti gli altri parametri di finanza pubblica cari a Bruxelles: a meno di non scrivere palesi bugie nella prossima nota di aggiornamento al Def, insomma, per tenere il deficit sotto il 3% servirà una manovra correttiva.
CHIUSO NEL CASSETTO
Quanto vi stiamo raccontando non è affatto ancora ufficiale.
Nonostante il ministro Fabrizio Saccomanni l’avesse annunciata nella sua audizione in Parlamento — e nonostante il Pdl glie-l’abbia chiesta formalmente il 4 luglio durante il vertice di maggioranza — l’esecutivo non renderà pubblica nessuna “nota aggiuntiva” al Def 2013 fino a settembre, vale a dire quando la legge gli impone di presentare quella “di aggiornamento”.
Il viceministro Stefano Fassina, che ha la delega su queste materie, lo ha detto chiaramente anche se con motivazioni un po’ contraddittorie: “Per l’aggiornamento seguiremo le scadenze previste, anche per lasciare al Parlamento il tempo per esprimere le proprie valutazioni e fornire alla Ue un testo condiviso”.
Come possano le Camere dare pareri su alcunchè senza essere informate sul reale stato dei conti pubblici è un mistero, ma tant’è.
COSA CI ASPETTA
A quanto dovrà ammontare questa correzione dei conti pubblici?
Difficile dirlo ora, visto che il lavoro di riscrittura al Tesoro è appena iniziato e mancano dati fondamentali come ad esempio le entrate (la cui dinamica, al momento, non è positiva) della Pubblica amministrazione.
Qualche conto a spanne, in ogni caso, si può provare a farlo.
Si stima che la mancata crescita si rifletta almeno al 50% sull’indebitamento: nel nostro caso, se la correzione sul Pil sarà dello 0,6%, quella sul rapporto col deficit varrà almeno lo 0,3%, che in soldi fa più o meno cinque miliardi.
Poi, restano da trovare le coperture per i provvedimenti ponte su Iva e Imu per il 2013: all’ingrosso altri sei miliardi.
E ancora ci sono le spese non finanziate da Monti per altre centinaia di milioni di euro: la Cassa integrazione straordinaria, il rinnovo di migliaia di precari della Pubblica amministrazione, le missioni all’estero scoperte da settembre, alcune convenzioni con contratti di servizio e altro ancora.
Anche per questo si stima un fabbisogno di circa sei miliardi.
Insomma, per fare tutto e tenere il deficit sotto le colonne d’Ercole europee serve una manovra non inferiore ai 15 miliardi, all’ingrosso un punto di Pil.
Marco Palombi
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Luglio 24th, 2013 Riccardo Fucile
PER IL PDL VIA IL PRELIEVO PER TUTTI, PER PD E SCELTA CIVICA RIDUZIONE SELETTIVA
Con prudenza e molta tattica, perchè la partita è cruciale anche dal punto di vista politico, i
partiti cominciano a scoprire le carte sulla riforma dell’Imu.
Che avverrà in due tappe, con uno sgravio sulla prima casa per il 2013 e la riforma complessiva del fisco immobiliare rinviata al 2014.
Ed entro i limiti finanziari offerti dal bilancio pubblico, che sono davvero molto risicati.
Per quest’anno, secondo quanto è emerso nei primi incontri della cabina di regia tra il governo e la maggioranza, sul piatto c’è, per ora, 1 miliardo e 800 milioni di euro.
Un miliardo sarebbe recuperato con il maggior gettito Iva dovuto alla spinta sul pagamento dei debiti commerciali arretrati dello Stato, il resto da tagli di spesa che il Tesoro ha definito solo a grandissime linee.
Mentre la riforma delle tasse sulla casa che scatterà dall’anno prossimo dovrà essere compensativa: il fisco immobiliare vale 40 miliardi l’anno, potranno esserne modificate le poste, ma il gettito dovrà rimanere invariato.
I paletti di Saccomanni
Almeno questo è quello che il Tesoro ritiene possibile allo stato attuale della situazione. Il che non esclude ipotesi di riforma più ambiziose, come quella alla quale punta il Pdl.
L’importante è che ogni sgravio fiscale sia coperto preferibilmente attraverso tagli della spesa pubblica, ha spiegato il ministro Fabrizio Saccomanni a Renato Brunetta del Pdl, Matteo Colaninno del Pd e Linda Lanzillotta di Scelta Civica. La messa a punto delle proposte dei partiti è in corso.
Le riunioni si susseguono in vista degli incontri bilaterali che i «registi» della maggioranza avranno già a partire da questa settimana con i tecnici del ministro, cui spetterà la sintesi finale.
Che si annuncia davvero non semplice perchè per quel che sta emergendo dal lavoro interno dei partiti, i progetti per la revisione della tassa sugli immobili sono completamente diversi l’uno dall’altro.
Negli aspetti concreti, ma anche nell’impostazione “filosofica” di fondo.
Il Partito Democratico ed il gruppo che fa capo a Mario Monti non ritengono affatto prioritario l’abbattimento delle tasse sulla casa.
Almeno non in questo momento. «Se deve esserci un taglio delle imposte la priorità deve andare alla riduzione della pressione fiscale sul lavoro e sulle imprese. Poi viene il resto» dice Enrico Zanetti, responsabile della politica fiscale per Scelta Civica.
Sulla stessa posizione è il Partito Democratico, che non prende neanche in considerazione l’ipotesi di cancellare il prelievo sulla prima casa per tutti. Completamente diversa l’impostazione del Pdl, che prefigura una riforma più ambiziosa. Renato Brunetta ha già messo nero su bianco la bozza di un articolato di legge di cui sono emersi alcuni elementi. Il punto cardine, in ogni caso, è l’eliminazione dell’Imu sulla prima casa per tutti.
Pdl: bonus prima casa per tutti
Il partito di Silvio Berlusconi ne ha fatto lo slogan della campagna elettorale e non è disposto a cedere di un millimetro.
L’unica eccezione che il PdL è disposto a concepire riguarda le case extralusso, come ville e castelli.
Ma in prospettiva chiede che queste abitazioni siano definite in una categoria catastale ben precisa, comunque diversa dal classamento attuale.
L’esenzione totale riguarderebbe anche i terreni e i fabbricati funzionali all’attività agricola, mentre per gli immobili strumentali delle imprese si prevede un’aliquota ridotta allo 0,4 per mille, così come per le case in affitto (0,5 per mille). L’alleggerimento sulla prima casa vale circa 3,5 miliardi di euro. E per il 2014 si ricorre a una delega al governo per introdurre, accorpando Imu e Tares, la nuova Service Tax.
Gli sgravi non sarebbero coperti da altre tasse, ma da tagli di spesa, tra i quali quello delle agevolazioni fiscali per le società di investimento e i fondi immobiliari.
Pd: nuovi parametri
Il Pd, nel frattempo, ha rivoluzionato la sua proposta per la revisione dell’Imu.
Fino a pochi giorni fa si ipotizzava semplicemente un aumento della franchigia sulla prima casa dagli attuali 200 a 600 euro, che avrebbe di fatto esentato dalla tassa l’85% delle famiglie.
Adesso si ragiona, invece, su parametri del tutto nuovi ai quali agganciare l’imposta. Non più la pura e semplice rendita catastale rivalutata per 160, ma un doppio criterio legato sia al reddito del proprietario che al valore dell’immobile.
Sarebbero presi in considerazione sia l’indicatore Isee, utilizzato per misurare la ricchezza, che l’indice Omi, l’Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia delle Entrate, sul valore degli immobili.
E questo almeno finchè non si sia varata la riforma del catasto, per la quale occorrono almeno tre anni.
Lo sgravio dell’Imu sulla prima casa sarebbe dunque molto selettivo, più intenso per i proprietari di abitazioni modeste e con redditi bassi, che sarebbero di fatto esentati dall’imposta, e nullo per i ricchi proprietari degli immobili di pregio.
Una simile manovra, secondo i calcoli che si stanno facendo nel partito in queste ore, costerebbe 2 miliardi di euro.
L’ipotesi che sarà discussa nei prossimi giorni con il Tesoro prevede che lo sgravio sia compensato a partire dal 2014 con un incremento delle altre imposte sugli immobili, che andrebbero comunque razionalizzate.
Per il Pd, in ogni caso, il peso del fisco immobiliare non dovrà ridursi, nel complesso, rispetto ai livelli attuali. Anche e soprattutto per ragioni di equità .
Sc: più peso alla famiglia
La manovra forse più articolata è quella messa a punto da Scelta Civica, che tiene in maggior considerazione la componente del nucleo familiare.
I parlamentari di Mario Monti suggeriscono un aumento della detrazione fissa sulla prima casa dagli attuali 200 a 400 euro e di quella per i figli a carico da 50 a 100 euro ciascuno.
Una famiglia con due figli avrebbe uno sgravio di 600 euro contro i 300 dell’attuale regime.
Tornerebbero inoltre ad essere considerate prime case gli immobili concessi in comodato gratuito ai figli, quelli degli anziani nelle case di cura, quelli dei residenti all’estero.
La manovra costerebbe 2,2 miliardi, ed escluderebbe totalmente l’Imu per il 55% delle famiglie, percentuale che sale al 75% per le famiglie con due figli. E per il 2014 Scelta Civica vorrebbe la riduzione dell’Imu sulle case date in locazione, recuperando la copertura dalla cancellazione della cedolare secca sugli affitti.
Mario Sensini
(da “il Corriere della Sera”)
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Luglio 24th, 2013 Riccardo Fucile
BERLUSCONI: “ANCHE SE CONDANNATO TERRO’ IN VITA IL GOVERNO PER ALMENO DUE ANNI”… L’EX SINDACO DI ROMA RITROVA UNA SORELLA E TANTI FRATELLI
Il ritorno a Forza Italia a settembre è cosa fatta.
Non si torna più indietro, avverte Silvio Berlusconi.
Interdizione o no, quel grande comitato elettorale che è sempre stato il partito in stile ’94 dalla ripresa sarà di nuovo su piazza.
Addio Pdl, coi suoi organi dirigenti, addio segretario, solo facce nuove, giovani, abili manager a caccia di fondi e un coordinatore unico nazionale.
Il Cavaliere resta blindato ad Arcore, ormai proiettato solo sulla sentenza di Cassazione della settimana prossima.
Sempre più convinto di un esito nefasto ma non per questo a far cadere il governo: «Lo terrò in vita comunque, almeno due anni».
Ad ogni modo, per ogni evenienza, rilancia il partito personale.
«Nulla è escluso dopo il 30 luglio, di certo non resteremo mani nelle mani, non accetteremo una sospensione della democrazia» ripetono i più “interventisti” tra chi gli parla in queste ore da Roma.
Ad Arcore invece per tutto il pomeriggio sono stati con lui Daniela Santanchè e Denis Verdini per valutare il da farsi dopo la sentenza e i dettagli organizzativi del “lancio” forzista.
Anche perchè, come sostiene nelle stesse ore al Tg3 Renato Brunetta, con la condanna di Berlusconi «la parola torna al popolo sovrano: di fronte a una ferita del genere, il problema non è il governo, l’imu, l’iva, ma la democrazia nel nostro paese».
Quello stesso capogruppo che pure in mattinata aveva proposto un «patto di legislatura» che blindi il governo Letta per i prossimianni.
Linea ondivaga, come l’umore a fasi alterne del Cavaliere, racconta chi lo frequenta. In mattinata, il leader si è affidato a Facebook per confermare: «Abbiamo deciso di tornare a Forza Italia perchè vorremmo rivolgerci, come ci riuscì 20 anni fa, ai giovani e ai protagonisti del mondo del lavoro per chiedere di interessarsi al nostro comune destino. Spero che con il lancio di settembre possano aggiungersi a noi tanti italiani». Confortato del resto dagli ultimi sondaggi consegnati da Alessandra Ghisleri: il nuovo-vecchio partito sarebbe già a ridosso del 30 per cento, spingendo il centrodestra al 35, col centrosinistra un soffio dietro.
Venti elettorali che stridono con la tesi di chi sostiene che Berlusconi, al contrario, si sia convinto della necessità di reggere anche in caso di interdizione un governo Letta destinato, in assenza di incidenti, a proiettarsi fino al 2015, dopo il semestre di presidenza europea.
«Il capo, come Grillo, si prepara a restare il leader fuori dal Parlamento, per consolidare nel frattempo Mediaset portandola fuori dalla tempesta finanziaria» spiega uno dei dirigenti Pdl di primo piano.
Non a caso, colombe come l’altro capogruppo, Renato Schifani, spiegano in serata al Tg1 che «gli italiani si aspettano grande senso di responsabilità e il Pdl è pronto a fare la sua parte».
C’è però chi lascia già il partito, come Gianni Alemanno per approdare a Fratelli d’Italia, con la sponsorizzazione di La Russa.
Annuncio ufficiale rinviato di qualche settimana per evitare concomitanze con la sentenza di Cassazione.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica”)
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Luglio 24th, 2013 Riccardo Fucile
UNA SENTENZA INDEGNA CHE DI FATTO PERMETTE AI DELINQUENTI DI GIRARE PER STRADA MENTRE LA VITTIMA DEVE STARE CHIUSA IN CASA PER NON INCONTRARLI
Non è obbligatorio il carcere per lo stupro, anche se perpetuato dal branco. 
La Corte costituzionale lo ha stabilito ieri con una sentenza (la numero 232) dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’articolo 275 comma 3 terzo periodo del codice di procedura penale.
Era stato il tribunale del Riesame di Salerno a sollevare presso la Corte la questione di legittimità , ma non era la prima volta nella nostra giurisprudenza.
Già nel 2010 la Consulta si era espressa in favore di misure alternative al carcere per gli stupratori e poi nel 2012 ci aveva pensato la Corte di cassazione a stabilire che per i violentatori del branco non si dovevano necessariamente aprire le porte del carcere.
Ieri la sentenza della Corte costituzionale, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, ha stabilito che qualora emerga, in relazione al caso concreto, se le esigenze di custodia cautelare possono essere soddisfatte con altre misure il giudice può applicarle.
Va da sè, la Consulta conferma la gravità del reato da considerare tra «i più odiosi e riprovevoli» del nostro codice, ma sostiene che «la più intensa lesione del bene della libertà sessuale non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata».
Non ha dubbi la Consulta: «la compressione della libertà personale deve essere contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto».
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Luglio 24th, 2013 Riccardo Fucile
PESANTI CRITICHE AL NUOVO TESTO ALL’ESAME DEL SENATO: RENDE IMPOSSIBILI LE INCHIESTE
Un avverbio di troppo, «consapevolmente». 
Una parola impropria, «procacciamento ».
Gli anni di pena che si fermano a dieci anzichè arrivare a 12 e rischiano di mettere in crisi molti processi in corso, tipo Cosentino, Ferraro, Fabozzi. Basta questo per rovinare la festa del 416-ter, lo scambio elettorale politico-mafioso, il cui restyling i magistrati anti-cosche attendono dal 1992.
L’anno in cui venne varato, e da allora tutti gli anni a seguire in cui non ha mai funzionato.
Come annota diligente l’ex pm Raffaele Cantone – toga famosa contro la camorra costretta poi a trasferirsi al massimario della Cassazione per via delle minacce dei clan – 15 sentenze in tutto rispetto alle 862 per associazione mafiosa.
Che succede dunque?
Oggi, nella commissione Giustizia del Senato, dovrebbe essere approvato in sede deliberante, quindi diventare subito legge, il nuovo 416-ter.
Frutto di un compromesso, già siglato alla Camera una settimana fa, tra Pdl, Pd, Scelta civica.
Il testo recita così: «Chiunque accetta consapevolmente il procacciamento di voti con le modalità previste dal terzo comma dell’articolo 416bis in cambio dell’erogazione di denaro o di altra utilità è punito con la reclusione da 4 a 10 anni. La stessa pena si applica a chi procaccia voti con le modalità indicate dal primo comma».
Tutto a posto? Niente affatto.
C’è chi difende il testo. Come il Pd Davide Mattiello, ex coordinatore di Libera, il noto gruppo antimafia, protagonista della battaglia dei «braccialetti bianchi », parlamentari bipartisan per cambiare il vecchio testo, perchè «è il primo tentativo di normare l’innesco del reato di concorso esterno, che è la forza della mafia».
Lo sponsorizza il presidente del Senato Piero Grasso, che ha dato il via libera al voto senza passare per l’aula.
Ma di perplessi con forte mal di pancia ce ne sono a bizzeffe.
Al punto che il voto di oggi è a rischio. L’ex pm Felice Casson, la giornalista anti-camorra Rosaria Capacchione, l’ex pm Cantone che sul Mattino ha scritto un blog di fuoco.
Il perchè è presto detto.
Quel «consapevolmente» comporta che l’inchiesta giudiziaria debba dimostrare l’effettiva «consapevolezza » dello scambio.
La parola «procacciare» sostituisce l’originaria «promessa» che rendeva assai meglio il momento iniziale dello scambio.
Critico anche il riferimento alle modalità del 416-bis perchè ciò comporta un’azione violenta che potrebbe non esserci.
Infine la pena, quei 10 anni anzichè i 12 del 416-bis, col rischio che processi in corso per reati associativi – come Cosentino, Ferraro e Fabozzi a Napoli – vedano gli avvocati chiedere la riqualificazione del reato con un ricasco negativo sulla prescrizione.
Liana Milella
(da “La Repubblica”)
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Luglio 24th, 2013 Riccardo Fucile
LA CONDANNA DI DEL TURCO E LE RUBERIE TRASVERSALI
I commenti alla condanna di Del Turco a 9 anni e mezzo per corruzione sono identici a quelli che avrebbero accolto una sua assoluzione.
È sempre così, quando finiscono alla sbarra i politici e gli altri imputati eccellenti: è sempre complotto, accanimento giudiziario, teorema senza prove, persecuzione politica, nuovo caso Tortora.
Essendo potenti, dunque innocenti a prescindere, le sentenze non contano.
Se vengono assolti, è la prova che c’era un complotto.
Se vengono condannati, è la prova che c’è un complotto.
Gli atti, le udienze, le prove, gli indizi, le testimonianze, le intercettazioni non contano nulla: tanto chi commenta i processi non li segue, non li conosce, non li studia.
Al massimo capita che la stampa di destra giudichi colpevole qualche potente di sinistra per dovere d’ufficio, o viceversa.
Ma di solito i processi ai potenti riguardano ruberie trasversali, di larghe intese: la destra ruba, il centro tiene il sacco e la sinistra fa il palo o, invertendo l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia.
E una mano sporca lava l’altra.
Il processo alla Sanitopoli abruzzese è un caso di scuola.
Lì — secondo la sentenza di lunedì e un’altra d’appello — non c’era destra nè centro nè sinistra: le giunte cambiavano, ma governatori e assessori e consiglieri continuavano a rubare.
Condannato il governatore Pdl Pace, condannato il governatore Pd Del Turco, condannato il deputato Pdl Aracu.
Era “il partito unico dei soldi”, come diceva uno degl’imputati intercettato.
Intanto il buco della sanità si allargava, le cliniche private ingrassavano sullo sfascio degli ospedali e sugli accreditamenti regionali, e Pantalone pagava.
Del Turco poi è una larga intesa ambulante: da buon ex socialista, è popolarissimo nel mondo berlusconiano e in quello pidino (specie nell’ex Pci migliorista, detto piglio-rista), entrambi infarciti di avanzi e vedovi inconsolabili del craxismo.
Basta leggere i giornali, o assistere alle lacrimazioni dei tg Rai e Mediaset.
Il Giornale: “Del Turco condannato senza prove”.
Il Foglio: “Di prove non se ne sono viste”.
Libero: “La prova non c’è, la condanna sì” (firmato Maria Giovanna Maglie, che al processo non c’era, ma nell’entourage di Bottino sì).
Corriere : “Del Turco, 9 anni e mezzo: ‘Io trattato come Tortora’”, “Quei buchi nell’inchiesta”.
L’Unità : “La sentenza non ha spazzato via tutti i dubbi. Se possibile ne ha anche aggiunti altri… Se i soldi non ci sono, la condanna invece resta. E con questa i dubbi”, “Io come Tortora, condannato senza prove”.
Per carità , le sentenze non sono vangelo, e questa è solo di primo grado.
Ma per criticarle bisognerebbe almeno conoscere qualche carta, oltre al diritto e alla logica.
Invece qui si dicono scemenze da Guinness.
Si ignora che, a confermare le accuse del corruttore Angelini, ci sono le testimonianze convergenti della moglie, della segretaria e dell’autista.
Si ripete che le foto delle mazzette portate a villa Del Turco sarebbero false o dubbie, mentre una perizia super partes le ha dimostrate autentiche e un’intercettazione dimostra che un coimputato istruiva il consulente della difesa per alterarle.
Nessuno scrive che un processo per corruzione in cui il corruttore (spacciandosi per concusso) confessa tutto, fotografa le mazzette dinanzi a testimoni, dimostra i viaggi per le consegne con i telepass autostradali, è il sogno di tutti i giudici.
Nei processi di tangenti il bottino non si trova quasi mai (solo i deficienti lo nascondono nel materasso per farselo trovare).
Se bastasse far sparire il corpo del reato e l’arma del delitto per essere assolti, non si riuscirebbe mai a condannare un killer mafioso per i casi di lupara bianca.
Però si può sempre fare una riforma: chi brucia il cadavere o lo scioglie nell’acido e getta la pistola in mare aperto, è innocente.
Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano“)
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