Novembre 26th, 2014 Riccardo Fucile
“IL GOVERNO, INVECE CHE RECUPERARE L’EVASIONE FISCALE, TAGLIA I FONDI AGLI ENTI LOCALI CHE COSI’ AUMENTANO LE TASSE”… “RENZI HA DELUSO, HA CREATO SOLO CONFLITTI SOCIALI”…”DIETRO L’ASTENSIONISMO UN FRAGOROSO SILENZIO CHE POTREBBE ESPLODERE IN NUOVE FORME DI AGGREGAZIONE POLITICA”
Presidente, sappiamo che lei ha operato professionalmente a Genova per diversi anni: che pensieri le sono
venuti alla mente quando ha saputo dell’ennesima tragedia che ha colpito la città ? La politica sembra interessarsi del dissesto ambientale solo a tragedie avvenute, gli enti locali non hanno soldi per gli interventi, il governo taglia. E’ possibile invertire la marcia?
Ho lavorato a Genova per 5 anni e una tragedia del genere non mi era toccato di vederla. Rammento che in una sua precedente intervista parlammo di questo, della totale assenza di intervento da parte delle istituzioni per prevenire il disssesto idrogeologico e dei mancati finanziamenti a opere prioritarie. Tagliare è facile, sono anni che i fondi diminuiscono e quando arrivano tragedie annunciate tutti fanno finta di cascare dal pero. Occorrono dei sindaci che battano i pugni sul tavolo a tempo debito, disposti a dimettersi piuttosto che accettare i ricatti romani. Abbiamo amministratori troppo accomodanti e poi le conseguenze le pagano i cittadini, in termini economici e purtroppo anche di vite umane.
La sua candidatura a titolo gratuito alla Presidenza dell’Inps non è stata neppure presa in considerazione: non ritiene anomalo che un semplice cittadino con un curriculum adeguato che si candida a un ruolo pubblico non venga neanche convocato per ascoltare il suo programma? Che impressione ha ricavato da questa esperienza?
Sapevo che era una “mission” difficile, ma occorre provarci per capire cosa significa per i Palazzi del potere l’abusato concetto di meritocrazia di cui si riempiono la bocca. Il cittadino comune si illude che le nomine negli Enti di Stato si facciano sulla base di criteri di professionalità , ma non è così. A detta di molti avevo le carte in regola per concorrere, non dico per essere il prescelto: non sono mai stato nemmeno convocato per valutare il mio progetto di risanamento dell’Inps. Per non parlare dei media: ignorato anche da stampa e Tv perchè non avevo sponsor adeguati. Ora stiamo preparando un ricorso/denuncia contro il premier e il ministro competente. Nel frattempo hanno nominato come commissario un 75enne ex ministro del Lavoro, titolare della legge che ha favorito le pensioni dei sindacalisti.
La Legge di Stabilità , presentata dal governo, è basata sul deficit per circa 11 miliardi (portando il rapporto debito-Pil dal 2,2% al 2,9%) e per tagli teorici di 15 miliardi agli enti locali. Non c’è il rischio di indebitare le generazioni future e di soffocare i servizi sociali, quindi i ceti più bisognosi di aiuto?
Occorre intervenire sul recupero dell’evasione fiscale, non ci sono alternative. Ridicolo fare ancora tagli agli enti locali che a loro volta saranno costretti ad aumentare i tributi ai cittadini: è un circolo vizioso da cui non si esce. Penalizzando alla fine i servizi sociali e le categorie disagiate: se ci vogliono portare alla situazione della Grecia, almeno lo dicano…
Renzi ha ridotto le tasse solo alle grandi imprese con le misure sull’Irap per la parte componente lavoro e ha promesso tre anni di esenzione dei contributi per chi assume a tempo indeterminato. Molti economisti temono che senza una ripresa del mercato nessun imprenditore procederà ad assunzioni di quel tipo.
In Italia ormai non assume più nessuno, altro che contratti a tutele crescenti, il problema è il rilancio dell’economia, tutto il resto è solo fumo per ingannare i giovani in cerca di occupazione. Le tasse poi le hanno ridotte alle grandi imprese non certo ai piccoli imprenditori che continuano a chiudere per disperazione
Come giudica l’aumento della tassazione sulla previdenza integrativa?
La giudico un furto per battere cassa, come per il Tfr sulla busta paga: questo accantonamento è sempre servito come un risparmio futuro da conservare per la vecchiaia, un salvagente in caso di malattie, un gruzzolo per integrare la pensione. Ma ormai neanche più in pensione si riuscirà ad andare e queste saranno sempre più misere.
Mgo sta promuovendo numerosi incontri tematici sul territorio su temi “reali” come quelli della disabilità e della invalidità civile, delle adozioni e dei diritti civili. Che posizione avete al riguardo?
Mgo è nato con questo spirito di servizio, ovvero lavorare sul territorio per dare voce agli “invisibili”, per comprendere il disagio che stanno vivendo queste categorie di cittadini. Stiamo girando l’Italia per raccogliere denunce e testimonianze da tradurre in proposte di legge. Per quanto riguarda le adozioni occorre una semplificazione burocratica che elimini tante pastoie. Sui diritti civili siamo in prima linea: il nostro slogan è “senza diritti siamo solo schiavi” e su questa base il nostro programma sta ottenendo importanti riscontri e adesioni, anche dall’estero
E’ in rete anche “Pensiero Libero Mgo”, il nuovo magazine del suo Movimento, come aveva promesso: quale impostazione e finalità lo caratterizzano?
“Pensiero libero Mgo” potremmo dire che nasce a causa dei silenzi dei media nazionali sulla nostra attività . In Italia, a parte poche eccezioni, e voi tra queste, non esiste la libera informazione. Sono per la maggior parte asserviti al potere politico e un movimento spontaneo di gente comune è visto con sospetto. Allora abbiamo deciso di far uscire un magazine che veicolasse le nostre idee e le nostre proposte. E’ interamente autofinanziato dai nostri iscritti e non cerca finanziamenti dalla legge per l’editoria, a differenza di tante testate vicine al Palazzo. Regaliamo addirittura pubblicità gratuita alle piccole imprese: è un segnale di diversità reale.
La “luna di miele” di Renzi con gli italiani sembra volgere al termine, i consensi per il premier calano: si aprono nuovi scenari?
Renzi è un prodotto costruito a tavolino, doveva essere giovane e rottamatore apparente, ma il risultato quale è, quali interessi operano dietro di lui? Il disegno lo aveva intuito Grillo, ma poi si è perso anche lui tra i palazzi del potere, vanificando il progetto iniziale. Quando il fallimento di Renzi sarà evidente a tutti gli italiani, recupereranno le vecchie glorie di sinistra e di destra e nulla cambierà . Renzi poi ci ha messo del suo, manifestando un delirio di onnipotenza che era già stato fatale a Berlusconi.
Lei appartiene a quella scuola di pensiero che vede elezioni anticipate a breve?
Dope le elezioni amministrative in Emilia Romagna e in Calabria, con una affluenza alle urne così bassa tale da farle apparire quasi le primarie del PD, penso sia cambiato lo scenario. Avevano già il progetto per ritornare al voto, con un Renzi vincente e con l’appoggio di Berlusconi. Abolendo il Senato e lasciando una sola Camera per essere sicuri di governare per 5 interi anni grazie a una Forza Italia rinvigorita dal ritorno di Alfano e della Meloni. Ora le larghe intese potrebbero incontrare ostacoli. L’Italicum rimarrà ancora in vita? Dipende anche da cosa accadrà nel Pd. L’astensionismo va inteso non solo come sfiducia nel voto, ma come un silenzio indice di grosse trasformazioni in divenire, di nuovi conflitti sociali e di riaggregazioni. Ci sono tanti movimenti, come il nostro, pronti a dire la loro.
La politica “fuori dal Palazzo” permette di sentire il polso dei cittadini comuni: c’è tanta disperazione e preoccupazione in giro… Come si può risalire la china?
In un solo modo: riunendo la parte sana del Paese, quella che crede veramente nell’onestà , che vuole trasparenza e una poltica che non sia intesa come il centro del potere, delle lobby e degli affaristi, ma ritorni a porsi al servizio del cittadino. Con un Parlamento composto da persone oneste e competenti, pur nella diversità delle idee, aperto al confronto e non alla perenne rissa. Il tempo ci dirà se è solo una utopia.
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Novembre 26th, 2014 Riccardo Fucile
IL JOBS ACT PASSA, MA META’ DEPUTATI LASCIANO L’AULA IN SEGNO DI INSUBORDINAZIONE: E I RENZIANI ORA SONO PREOCCUPATI
Uno, due, tre: ciak si gira.
Sul Jobs Act alla Camera va in scena la prova generale di insubordinazione a Matteo Renzi.
C’è un nutrito numero della minoranza Dem — più di trenta — che decide di non partecipare al voto, uscendo dall’aula alla spicciolata.
E c’è anche Forza Italia che abbandona l’assemblea per protesta al momento del voto. Due sgambetti di provenienza diversa se non opposta ma entrambi diretti verso lo stesso bersaglio: Matteo Renzi.
E’ un incidente che non blocca il cammino della riforma del lavoro, approvata comunque a Montecitorio e in viaggio verso il Senato dove potrebbe essere approvata già la prossima settimana molto probabilmente con voto di fiducia per arginare eventuali smottamenti.
Ma quello che è successo oggi alla Camera è il segnale di uno sfilacciamento del mondo politico intorno al presidente del Consiglio, un segnale destinato a restare acceso anche oltre il Jobs Act, pronto ad illuminare di allarme rosso anche la prossima elezione del presidente della Repubblica, per non parlare delle riforme costituzionali a cominciare dalla legge elettorale in discussione a Palazzo Madama.
Nella minoranza dei dissidenti Pd non si fa mistero del fatto che la protesta di oggi guarda anche oltre il Jobs Act.
Per ora, si limitano a chiedere a Renzi di discutere anche nel partito della scelta del prossimo inquilino del Colle.
Della serie: “Non può imporci un nome frutto dell’accordo con Berlusconi”, ti dicono a taccuini chiusi.
Oggi questi dissidenti si sono un po’ contati. E potrebbero farsi sentire sull’elezione del successore di Napolitano, che dovrebbe terminare il suo mandato con tempi e modi che deciderà da solo ma non oltre i primi mesi dell’anno prossimo.
Dall’altro lato, c’è Forza Italia che pure oggi ha scelto una modalità di opposizione plateale sul Jobs Act. Anche loro sono usciti dall’aula. E, soprattutto, anche loro sono sfilacciati al loro interno, nonostante che Berlusconi continui a rassicurare Renzi sulla tenuta del patto del Nazareno.
Il tutto è una sfida al premier.
E l’unico tavolo di discussione parlamentare in cui può essere messa in atto senza rischiare di perdere il seggio in Parlamento con il voto anticipato è, appunto, l’elezione del presidente della Repubblica.
Ecco perchè, a denti stretti, renziani di rango ammettono: “Sull’elezione quirinalizia i dissidenti possono farci molto male, soprattutto se ‘giocano’ insieme con il M5s e Sel contro il Patto del Nazareno”.
Perchè in questo caso “avrebbero pure il candidato: Prodi”, nome di certo non gradito a Berlusconi. Tutta teoria, ma l’allarme è già scattato in casa Renzi.
Tanto da scatenare la contromossa.
“Se quelli della minoranza rifanno la stessa cosa sulle riforme costituzionali o sulla legge elettorale, si va al voto anche con il Consultellum…”, dice un deputato renziano.
Perchè l’indicazione che arriva dal premier è che, se al Senato l’Italicum dovesse finire nella palude dei veti incrociati, a quel punto non resterebbe altro che la strada per le urne in primavera.
Anche con la legge attuale, il Consultellum tracciato dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha bocciato il Porcellum.
Da qualche tempo nella cerchia del premier si fanno calcoli e proiezioni per capire quanto convenga presentarsi agli elettori con questo sistema di voto.
E per ora l’esito di questi calcoli non è negativo: il Pd di Renzi conquisterebbe agevolmente la maggioranza al Senato, mentre tutti gli altri partiti dovrebbero combattere con la soglia di sbarramento dell’8 per cento prevista a livello regionale. Anche la Lega, fresca del successo del nuovo corso di Salvini alle regionali in Emilia Romagna, avrebbe problemi al sud.
Forza Italia magari li avrebbe ovunque, idem il M5s, almeno stando ai sondaggi e ai risultati della tornata di domenica scorsa.
Il segretario Dem potrebbe avere qualche problema nella formazione della maggioranza alla Camera, dove è previsto uno sbarramento nazionale del 4 per cento. Ma la somma di pro e contro non dà segno meno, nei calcoli renziani: volendo, come estrema ratio, si può sfruttare il Consultellum per tornare al voto.
Il problema è che prima di arrivare al voto bisognerebbe eleggere un nuovo presidente della Repubblica, visto che Napolitano ha lasciato più volte intendere la sua intenzione di non sciogliere le Camere come ultimo atto del suo mandato.
Ed è su questo che si inceppa anche la minaccia renziana di portare tutti alle urne in caso di insubordinazioni sulle riforme.
Certo, se dovessero mancare i numeri al governo, anche Napolitano sarà costretto a fare altre valutazioni: il presidente infatti ha ribadito più volte anche il concetto secondo cui i governi nascono e muoiono sulla base dei numeri in Parlamento.
Ma alla luce di come è andata sul Jobs Act alla Camera, a Renzi e i suoi è chiaro lo schema di gioco della minoranza: guerriglia parlamentare, azioni di disturbo che non puntano a far cadere il governo ma a condizionarlo.
“Li ho visti in aula: stavano lì come gufi a controllare che ci fosse il numero legale e poi hanno deciso di lasciare l’assemblea — racconta un deputato renziano — Altrimenti non l’avrebbero fatto. A questo punto, Civati è più coerente: almeno ha sempre detto come avrebbe votato…”.
Il clima è rovente.
A sera al Senato si riunisce la maggioranza renziana del gruppo Pd. Oggetto della discussione: i prossimi provvedimenti in arrivo in aula, Jobs Act e legge elettorale.
Il primo verrà risolto con la questione di fiducia. L’Italicum invece non può essere votato con la fiducia. Si cerca una via d’uscita.
E la rabbia contro i dissidenti Dem esplode tra i renziani.
A taccuini chiusi si sfogano: “Se non avessimo il problema interno al Pd, non dipenderemmo da Berlusconi sulle riforme. Sono loro che ci hanno costretto al Patto del Nazareno…”.
Ora che Renzi non può più contare nemmeno sulla compattezza di Forza Italia, il caos regna sovrano.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 26th, 2014 Riccardo Fucile
RASSICURA SUL NAZARENO MA TIRA DUE ZAMPATE A RENZI… POI LA GAFFE SU UNA FUTURA GRAZIA CHE GLI SAREBBE STATA GARANTITA
L’obiettivo è il Quirinale: “Il patto del Nazareno — scandisce Silvio Berlusconi – deve andare avanti perchè
ci dà una serie di garanzie, tra cui quella di partecipare alla scelta di un capo dello Stato a noi non ostile”.
È nel corso dell’ufficio di presidenza di Forza Italia che l’ex premier, tra le garanzie, inserisce la parola magica: “agibilità ” politica.
Tanto che viene gelato con uno sguardo da tutto il “cerchio attorno al Magico” (copyright Maria Rosaria Rossi), perchè, si sa, certe cose si pensano ma non si dicono di fronte a chi poi spiffera informazioni ai giornalisti.
Per questo, nel corso della presentazione del libro di Bruno Vespa qualche ora dopo, si limiterà solo a dire che è “naturale” eleggere assieme il successore di Napolitano dopo che si sono fatte le riforme assieme, senza minimamente accennare a quei provvedimenti di clemenza che vorrebbe dal nuovo inquilino del Colle, per ottenere l’agibilità .
Per questo obiettivo a cui l’ex premier non ha mai rinunciato — obiettivo che è al tempo stesso politico ma anche sinonimo di riscatto e di risarcimento dell’onore perduto nelle condanne – che il Nazareno resta il campo del gioco.
Anzi del Gioco con G maiuscola. Del Great game del Quirinale.
Anzi, l’ex premier usa la sua prima uscita pubblica per dichiarare l’obiettivo e rassicurare Renzi che il patto non è in discussione.
Nè è in discussione, pensando al Colle più alto, una legge elettorale che le truppe azzurre considerano praticamente un suicidio.
Per la prima volta, a microfoni aperti e non nelle stanze di palazzo Chigi, l’ex premier accetta che “il premio” venga dato alla “lista e non alla coalizione”, definendo il sì un sacrificio di “chi a cuore il bene del paese e delle istituzioni”.
Ma all’interno del campo di gioco del Nazareno, il vecchio leone inizia a scalciare un po’. Non per rompere, ma tenere viva la trattativa, dopo che Renzi, pure lui, un po’ di calci li ha tirati cambiando idea rispetto ai patti iniziali.
Lo sgarro si materializza alla fine dell’ufficio di presidenza, quando Berlusconi dà il via libera all’uscita dall’Aula dei parlamentari al momento del voto sul jobs act. Mossa per appagare il bisogno di opposizione delle sue truppe inquiete, ma anche per “pesarsi” nel rapporto con Renzi.
La seconda zampata si chiama Salvini: “A me — dice Berlusconi – andrebbe bene fare il regista dietro Salvini, che è un goleador. Un attaccante, un marcatore che fa i gol, ma ha bisogna di una squadra dietro”.
Usa una metafora calcistica il leader di Forza Italia per invitare il Matteo leghista a stare nella stessa squadra, ovvero — fuor di metafora — nella stessa lista unica, resa indispensabile dalla nuova legge elettorale, alternativa alla sinistra.
Incalzato da Vespa si spinge a dire che, insomma, il brillante Matteo potrebbe anche diventare “il leader del centrodestra”.
Nel favoloso mondo berlusconiano le parole sono sempre funzionali a un gioco di specchi, di simulazioni e dissimulazioni.
Per cui talvolta ciò che conta è la suggestione. Berlusconi, da situazionista quale è, ha lanciato un amo al vincente al momento, in modo da sondare le reazioni nei prossimi giorni e valutare.
Ma il progetto di un partito unico ancora non c’è.
Anche perchè se ci fosse arriverebbero Confalonieri e Doris a ricordare che fare un partito lepenista equivarrebbe a chiudere le aziende.
Quel che conta del segnale è che non solo la fase di innamoramento con l’altro Matteo (il premier) è finita, ma nel nuovo quadro post voto il Cavaliere vede aumentare la debolezza di Renzi (“È lui — spiega ai suoi — che è stato maggiormente colpito dall’astensionismo”) e i propri margini di manovra.
Insomma, ora Renzi rischia di impaludarsi, perchè, spiega Berlusconi col sorriso di chi la sa lunga: “Io credo gli convenga aspettare, diversamente si andrebbe ad elezioni con il sistema proporzionale e sarebbe costretto alle larghe intese con noi”.
Ecco, la nuova palude consente a un partito come Forza Italia, più forte nel Parlamento che nel paese, di stare nel Great Game in posizione se non di forza, quantomeno negoziale.
A patto s’intende che non scatti il liberi tutti tra i parlamentari. Già , il liberi tutti.
Le parole del Cavaliere sul Nazareno — e pure quelle su Salvini – hanno avuto l’effetto della benzina sul fuoco della rivolta interna dei cosiddetti ribelli di Fitto.
La sensazione è che non sia bastato il gesto di concedere un secondo round dell’ufficio di presidenza mercoledì, in modo da consentire all’europarlamentare di esserci, a rasserenare il clima.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 25th, 2014 Riccardo Fucile
TRA LE GIOVANI PROMESSE CONVOCATE A VILLA GERNETTO ANCHE LO SPOSO DELLA RAGAZZA DI PORTICI, AFFIANCATO DAI RAMPOLLI DEI RAS CAMPANO DI FORZA ITALIA
Quando il padre si presentava ad Arcore, non dimenticava mai di portare una scorta di mozzarelle freschissime appena confezionate nei caseifici campani.
Così di bufala in bufala, Luigi Cesaro ha conquistato la fiducia di Silvio Berlusconi e la leadership di Forza Italia a Napoli.
Le gaffe che gli hanno valso il soprannome di Giggino ‘a Purpetta, celebre quando confuse Marchionne con il Melchiorre dei re Magi, non hanno influito sulla sua carriera politica con tre elezioni alla Camera e una al Parlamento europeo.
E adesso si prepara a cedere il trono al figlio Armando: l’erede è stato convocato al casting di Villa Gernetto, tra i volti nuovi della destra italiana.
Chissà se avrà mantenuto la tradizione di famiglia, consegnando il ghiotto dono caseario.
Accanto a lui c’era un altro rampollo di rango, Giampiero Zinzi: il padre è deputato e presidente della provincia di Caserta, con trascorsi da sottosegretario alla Salute.
La sua è una conversione rapida: alle ultime politiche si è candidato invano con l’Udc, partito lasciato pochi giorni prima di ascendere all’empireo di villa Gernetto.
Ma a completare la delegazione campana delle giovani promesse convocate nella dimora lombarda c’era un nome ancora più sorprendente: Vittorio Romano, noto alle cronache come sposo di Noemi Letizia.
Il suo volto è stato individuato dal “ Corriere del Mezzogiorno ” tra la pattuglia selezionata per individuare l’anti-Renzi forzista.
Ed è inevitabile pensare alla parabola berlusconiana, che proprio in quella festa per i diciotto anni di Noemi Letizia cominciò il suo declino.
Era l’aprile 2009: la crisi lontana, il vertice italiano dei Grandi del Pianeta alle porte e il potere del Cavaliere pressochè assoluto.
Ma le foto nel locale di Casoria accanto a quella ragazza bionda cominciarono ad aprire dubbi sulle abitudini del premier, poi sfociate in scandali con storie di festini e prostitute, fino al processo per le “serate eleganti” con la minorenne Ruby Rubacuori.
Altri tempi. Ora pure Silvio Berlusconi è in cerca di un successore a cui affidare l’immagine del partito, sempre più malandata.
E tra i candidati all’eredità compare pure il marito di Noemi.
Vittorio Romano viene da una famiglia molto nota a Napoli: il padre è l’ingegnere Valerio, che divide la passione per la vela a quella per lo sci, alternando una delle ville più belle di Capri a un altrettanto prestigiosa casa a Cortina.
La madre è Vicky de Dalmases, che dopo gli esordi come presentatrice su una tv locale napoletana ha fatto valere le sue nobili origini spagnole ed è stata per un periodo consigliere diplomatico del governatore campano Antonio Bassolino, nella stagione dorata in cui la Regione vantava ambasciate in tutto il mondo.
Il trentatrenne Vittorio ha sposato Noemi in seconde nozze, subito benedette da una bambina e con una seconda gravidanza in corso.
Prole e ascesa politica sembrano andare di pari passo.
A giugno ha ottenuto la guida del settore promozione e sviluppo dei Club Forza Silvio nell’Italia meridionale.
Poi i flash dei paparazzi lo hanno fotografato alle spalle dell’ex Cavaliere nella cena di finanziamento romana del movimento: una bella rimpatriata, con Berlusconi e Francesca Pascale seduti alla stessa tavola di Noemi.
Uno scatto che forse vale un’investitura.
Alfonso Contrera
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 25th, 2014 Riccardo Fucile
IL DEPUTATO A OMNIBUS INVITA A “PARLARE E FARE AUTOCRITICA”, UN POST LO GELA: “NON RAPPRESENTA LA POSIZIONE M5S”…MA STAVOLTA LA BASE E MOLTI COLLEGHI LO DIFENDONO
Lo si voglia edulcorare chiamandolo dibattito interno, magari riflessione, o ci si spinga fino a parlare di resa
dei conti e rivolta, è un fatto che nel Movimento Cinque Stelle strategia e leadership sono, per la prima volta, messi seriamente in discussione dopo il risultato deludente delle regionali in Emilia Romagna e Calabria.
L’epicentro della tempesta in queste ore è lo scambio polemico in corso tra il deputato Walter Rizzetto e il leader Beppe Grillo.
Ma è in gran parte del movimento che si parla ormai apertamente di errori, strategie fallimentari e leadership da sovvertire.
La giornata si apre con Rizzetto che a Omnibus, su La7, apre il fronte: “Per analizzare il voto in Emilia Romagna e Calabria che non ci soddisfa serve parlare e stare intorno a un tavolo per far capire quello che ha funzionato, ma anche quello che non ha funzionato in un anno e mezzo di esperienza parlamentare. Se parte dell’elettorato ci ha abbandonato bisogna fare autocritica non violenta per apportare dei miglioramenti. Dobbiamo parlare. L’elettorato deve sapere che quando il M5S va in tv a parlare di temi che sono nostri cavalli di battaglia non deve avere nulla da temere nei confronti di altri competitor”.
Si dovrebbe parlare. Invece Grillo scrive.
O meglio, sul suo blog qualcuno digita parole di scomunica per Rizzetto. “Il M5s non ritorna nei talk show”, quindi la partecipazione del deputato a Omnibus “è stata a titolo del tutto personale, Rizzetto non rappresenta la posizione del M5S, nè qualcuno gli ha dato questa responsabilità . Libero di dire la sua opinione e di partecipare ai talk, ma non a nome del M5S”.
Dopo aver definito “troppa grazia” il “post a me dedicato”, Rizzetto preannuncia la replica sul “mio, umile, blog”. Che arriva a stretto giro.
“Caro Beppe Grillo – scrive il deputato -, vorrei capire innanzitutto chi scrive i post sul blog e come mai non si firma, quasi mai. Dai feedback ricevuti mi pare evidente che il problema ora sia più tuo che mio. Fare sana autocritica è sintomo di maturità – prosegue -, non solo politica e non sono l’unico a pensarlo. Se ritieni che ‘Rizzetto parla a nome suo e non rappresenta il movimento’ è altrettanto evidente che io e te abbiamo un problema (#huston ndr)”.
E ancora: “Non ho detto nulla di sconveniente e non in linea con il M5S, anzi. Se uno vale uno, ciò lo è anche nell’esprimere le opinioni”.
E “non chiedo il permesso ai tuoi cortigiani per parlare del lavoro che stiamo facendo e comunicarlo a più gente possibile. Il dato elettorale dovrebbe far riflettere te, in primis”. Quindi, conclude: “#iononmollo e tu?”.
Se in altre occasioni la base aveva utilizzato la rete tanto cara ai guru del M5s per mettere all’angolo le voci stonate del coro, questa volta i militanti si schierano con Rizzetto.
Con la deputata Gessica Rostellato che promuove su Twitter un hashtag dedicato: #siamotutticonrizzetto. A cui in tanti si accodano esaltando “Rizzetto che ci ha messo la faccia” e attaccando il vigliacco anonimato di chi ha scritto quel post. Perchè “questi diktat anonimi sono la morte del m5s”.
Altri invitano a essere pragmatici: “Mentre voi vi crogiolate in queste scemenze la gente è incazzata nera o addirittura si ammazza. E poi vi meravigliate che i voti siano scomparsi”.
Anche il deputato Mimmo Pisano sta con Rizzetto: “Sono stanco di questi autogol del blog. Walter è stato bravissimo, serio e convincente. La gente deve conoscerci tutti. Chi se non noi rappresentano il M5S?”.
La deputata bolognese Mara Mucci: “Confesso. Anche io stamattina ero in tv… come da richiesta di centinaia di cittadini in queste ore di post voto”.
Con il passare delle ore altri colleghi scendono in campo.
Il deputato Tancredi Turco, esponente dell’ala critica: “Trovo incomprensibile il post, Rizzetto è un deputato del M5S e lo rappresenta egregiamente. Tra l’altro, ha detto cose totalmente condivisibili. Il fatto se andare o non andare in tv deve essere una decisione presa con una consultazione sul blog, in modo da dare a tutti gli attivisti la possibilità di esprimersi”.
La collega Eleonora Bechis aggiunge: “Ancora una volta ci si rinchiude nel blog invece di ascoltare #siamotuttirizzetto”.
Il deputato Sebastiano Barbanti: “Cosa ne pensate? È giusto rinchiuderci ancora una volta nel blog oppure ascoltare?”.
Dalla Camera al Senato, ecco Serenella Fucksia prendere di petto su Facebook non solo lo staff – Ilaria Loquenzi, ufficio stampa M5S alla Camera, Rocco Casalino responsabile della comunicazione -, ma anche quei “cerchi magici stellari, quelli autorevolissimi che contano e fanno tendenza, che percepirono le elezioni europee scorse come una sconfitta, ma oggi a commento dei ben peggiori risultati ottenuti a livello regionale, fanno negazionismo”.
Rizzetto, dunque, non è solo. E, dopo il negazionismo, c’è chi accusa Grillo di strumentale revisionismo.
Ovvero, di aver infilato sul blog proprio ieri, nel day after elettorale, un’intervista allo storico Arrigo Petacco. Che sostiene la tesi di un Mussolini non responsabile dell’assassinio di Giacomo Matteotti. Una “trovata assolutoria” duramente contestata in una nota da Ernesto Nassi, presidente dell’Anpi Provinciale di Roma. Che invita “gli esponenti del Movimento 5 Stelle a non ricadere in strumentalizzazioni che, certamente non li onorano. Li invito invece a leggere gli interventi alla Camera di Giacomo Matteotti per capire come svolse il suo impegno in nome degli italiani, pagandolo con la vita”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 25th, 2014 Riccardo Fucile
IL MOVIMENTO HA LASCIATO IL CAMPO AI MATTEO
Per il Movimento 5 Stelle va tutto bene. Beppe Grillo dice che l’astensionismo non li ha colpiti e che “il M5S ha vinto”.
Su quali basi? Sulle regionali del 2010. E in effetti è vero, rispetto a quel dato i 5 Stelle hanno aumentato elettori in Emilia Romagna: da 126.619 a 159.456.
Il Pd, in questi quattro anni e mezzo, ha smarrito più di 322mila voti e persino la Lega 55mila.
Lo stesso Renzi, in neanche sei mesi, ha perso quasi 700mila elettori nella sola Emilia Romagna. Un record o giù di lì.
Da qui a dire che il Movimento 5 Stelle ha vinto, però, ce ne passa.
È vero che i 5 Stelle sono cresciuti rispetto al 2010, ma è anche vero che nel frattempo è successo di tutto e il raffronto tra il 13.26% di due giorni fa e il dato emiliano alle politiche 2013 (24.6%) e alle europee 2014 (19%) è abbastanza impietoso.
Per non parlare del flop in Calabria (neanche il 5%).
L’unico alibi vero del M5S è che, da sempre, la loro forza ha avuto numeri molto più bassi alle amministrative e regionali.
E la tornata elettorale di domenica non fa eccezione.
Qualche domanda, però, i 5 Stelle dovrebbero porsela. L’Emilia, teatro dei loro primi successi, stavolta non gli ha sorriso. Senz’altro ha influito la resa disastrosa di alcuni ex protetti di Grillo e Casaleggio : è comprensibile che, per paura di dare visibilità a qualche nuovo Favia, in molto siano stati a casa.
O abbiano guardato altrove, per esempio alla Lega Nord. E proprio il caso di Salvini è emblematico: come ha fatto il leader della Lega Nord a superare addirittura il 19%? Giocando alla Grillo. Non nei contenuti, ma nei modi.
Provocando . Costringendo i mass media a parlare di lui. Convogliando il dissenso, la protesta, la rabbia.
Alcuni 5 Stelle, ora, quasi ringraziano Salvini per avere “ripulito” il loro elettorato dai sostenitori più intolleranti: un ragionamento bizzarro e snobistico , che dimentica come le elezioni si vincano convincendo tutti.
Non solo “i più buoni” (ammesso poi che lo siano). Salvini ha poi occupato sistematicamente la tivù. Era ovunque.
I 5 Stelle, al contrario, si sono concessi pigramente giusto a qualche tigì. Per il resto, nisba.
Una scelta voluta da Grillo, e più che altro Casaleggio, dopo la sconfitta alle Europee. I duropuristi, ovvero gli stessi (parlamentari inclusi) che a maggio erano strasicuri di oltrepassare il 30% e bastonare Renzi, continuano a credere che sia la strada giusta e ricordano che anche Gasparri è sempre in tivù, eppure Forza Italia è quasi scomparsa. Certo: infatti la tivù non è utile a prescindere, ma solo se la si sa usare.
Salvini sa farlo, Gasparri no. Di Maio saprebbe farlo, ma in tivù non ci va quasi più.
E il risultato è che molti elettori si sono allontanati perchè hanno avuto la sensazione che il movimento sia divenuto elitario e non rispettoso di chi li ha votati, visto che non li informa (se non in Rete) del loro operato.
Che senso ha rinunciare al mezzo più usato dagli elettori over 50, ben sapendo che è proprio tra gli over 50 che i 5 Stelle non attecchiscono? Masochismo puro.
Salvini ha potuto spadroneggiare in tivù, perchè al di là di quale intellettuale abile a metterlo in difficoltà (tipo Pennacchi), dall’altra parte aveva le Moretti.
E dunque vinceva facile. Se a ogni sua comparsata avesse avuto contro un Di Battista, forse l’epilogo sarebbe stato diverso.
Proprio Di Battista, ieri, ha parzialmente riaperto alla tivù: “Poi, magari, qualche incursione televisiva selezionata. È utile, sono d’accordo. Ma occhio a vedere la tv come soluzione! La Tv ci omologa a un sistema che gli italiani detestano!”. Casaleggio può negarlo quanto vuole, ma a molti italiani — dalle Europee in poi — è parso che i 5 Stelle si siano isolati da soli, abbracciando una clandestinità narcisistica e autoreferenziale che ha finito col favorire ulteriormente Renzi e sminuire le molte battaglie che il movimento continua a portare avanti.
C’è poi un’ulteriore sensazione: quella di un Grillo un po’ stanco della sua creatura politica.
Forse rientra nella sua umoralità congenita.
Di sicuro continuare a ripetere che “va tutto bene, siamo bravissimi”, non pare esattamente la strategia migliore.
Andrea Scanzi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 25th, 2014 Riccardo Fucile
SONO MOLTI I PARLAMENTARI CHE AVANZANO CRITICHE ALLA GESTIONE DEL MOVIMENTO E SI SENTE L’ESIGENZA DI TORNARE IN TV
Da “Vinciamo noi” a “l’astensionimo non ci ha colpito”. Dai proclami di trionfo pre-Europee, con avvisi di
sfratto per Matteo Renzi, alle braccia alzate al cielo per cinque consiglieri eletti in Emilia.
A Regionali ancora calde, il blog e il profilo Twitter di Beppe Grillo giocano la carta del meno peggio: e pazienza per i sogni di sei mesi fa.
Ora è tempo di dati sull’astensione “che non ha toccato il Movimento”, di assicurare che “i cittadini non hanno più fiducia nei partiti”. La voce del capo lo ripete più volte: “I numeri non sono opinioni”.
Ma sono gli stessi numeri che descrivono un disastro (annunciato) in Calabria, con il 4,89 per cento e nessun consigliere eletto.
E di un 13,2 in Emilia Romagna che è il minimo sindacale, nella regione dove il M5S è nato.
Cifre che fanno ribollire i dissidenti, compatti nell’invocare “l’autocritica” dei vertici. Affiora anche l’umore nero di tanti parlamentari, che chiedono di tornare in tv, prima possibile.
Mentre Alessandro Di Battista, il più ascoltato dai diarchi, prova a dettare la linea: “Usciamo dal Parlamento, da questo postribolo di massoni come diceva Beppe mesi fa”.
In un diluvio di parole, il silenzio di Luigi Di Maio. Il “numero tre” guarda il gioco. E riflette sul complicato futuro.
Eppure raccontano di un Casaleggio “abbastanza soddisfatto” per il risultato dell’Emilia. La ragione può ritrovarsi nel video di Max Bugani, consigliere a Bologna, vicinissimo al guru: “Ci sono grandissimi problemi in regione, una grande dissidenza interna: abbiamo ricevuto boicottaggi da diversi eletti”.
Insomma, poteva andare peggio.
E la Calabria? Non se ne parla, punto e basta. Ma c’è chi ammette la disfatta, nella regione dove le faide tra parlamentari e gruppi locali avevano già portato all’1,86 per cento nelle Comunali a Reggio Calabria, il mese scorso.
Il senatore Nicola Morra, calabrese d’adozione: “Siamo stati percepiti come gli altri partiti. Ma la legge elettorale, con la soglia dell’8 per cento per i non coalizzati, ci ha penalizzato. E noi non sappiamo cosa sia il voto clientelare”.
Resta il fatto che l’M5S calabrese è devastato: “Dobbiamo resettare i meet up, fare pulizia. Io non ho mai fatto polemiche, ma altri…”.
Sul fronte opposto un altro senatore calabrese, Maurizio Molinari: “Siamo diventati un nugolo di fazioni dentro ad una setta”.
In tarda mattinata, i dissidenti si ritrovano alla Camera. E battono il tamburo delle critiche. “Quando i risultati non sono soddisfacenti è giusto chi ha tenuto il timone lasci spazio ad altri” riassume Tancredi Turco.
“Grillo e Casaleggio hanno commesso errori” sibila Gessica Rostellato. “Meno social network e più politica” sostiene Walter Rizzetto.
Da Parma irrompe il capogruppo M5S Marco Bosi: “Di autocritica neanche l’ombra. E chi se ne importa se 6 mesi fa ci votavano 277.000 persone in più”.
Interessante viatico all’assemblea degli eletti convocata in città da Federico Pizzarotti, per il 7 dicembre. “Analizzeremo i nostri problemi” promette il sindaco ribelle.
Ma l’adunata potrebbe segnare la nascita di un’area organizzata, che chiede maggiore democrazia interna e vuole il dialogo con i partiti.
Una simil-corrente più forte, dopo il voto di ieri.
Ma non parlano solo i critici. La “moderata” Giulia Grillo: “Non abbiamo costruito un tessuto di fiducia in certi territori: e andare in tv può servire”.
È il filo rosso della giornata. L’anatema dei diarchi contro il piccolo schermo va rimosso, lo dicono quasi tutti.
Perfino Laura Castelli, contraria (“la tv non è uno strumento elettorale”) ammette: “Risulta difficile spiegare agli attivisti perchè non ci andiamo”. Concorde la senatrice Barbara Lezzi: “Come chiede buona parte del M5S, si dovranno valutare le partecipazioni televisive”. Ma c’è pure altro: “Taluni, eletti e non eletti, non partecipano a manifestazioni e assemblee, oppure utilizzano il loro status per illustrare teorie deliranti”. A margine, la tentazione: smobilitare dal Parlamento e invadere le piazze, come ha ripetuto venerdì a Bologna Grillo, primo fautore dell’Aventino.
Di Battista rilancia: “Siamo visti come parte del sistema. Qualcuno resti a studiare decreti per denunciare le indecenze. Gli altri nelle piazze, con gli operai a prendere manganellate se necessario”.
Suona anche come una stilettata ai fautori del dialogo con il Pd: da Di Maio a Danilo Toninelli, gli uomini della trattativa sulla Consulta. A breve, assemblea congiunta. Doveva essere domani, ma è probabile che salti.
In serata il blog di Grillo apre con un’intervista ad Arrigo Petacco: “Mussolini non ha ucciso Matteotti”.
Si parla d’altro. L’ultimo espediente.
Luca De Carolis
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Novembre 25th, 2014 Riccardo Fucile
303 ABBANDONANO L’AULA CONTRO IL JOBS ACT, 6 NO E 5 ASTENUTI: TOTALE 314… LA PATACCA DI RENZI RACCOGLIE APPENA 316 SI’
L’aula della Camera ha approvato il ddl di delega al governo sul Jobs act.
I sì sono stati 316, i no 6 e gli astenuti 5. Sono 303 i deputati che sono usciti dall’Aula per protesta.
A favore hanno votato Pd, Ncd, Per l’Italia e Scelta Civica.
Hanno annunciato in aula il loro voto contrario M5S, Forza Italia, Sel e Lega che poi, però, hanno abbandonato l’aula. No anche da Fdi-An.
Il provvedimento, dopo le modifiche di Montecitorio, torna al Senato per il via libera definitivo.
La decisione, per la minoranza Pd, è stata un parto. Ma alla fine, dopo un lungo travaglio, è stato deciso di dare un segnale di dissenso.
La notizia è che la decisione viene presa collettivamente. Anche se si materializza con modalità diverse.
Per intendersi: Pippo Civati e altri deputati della sua cerchia decidono di votare no alla legge delega sul lavoro che oggi sarà licenziata dall’aula della Camera; altri 30 deputati della minoranza Pd invece lasciano l’aula al momento del voto.
Tra loro ci sono Stefano Fassina, Davide Zoggia, Alfredo D’Attorre, Gianni Cuperlo il quale si occupa anche di stilare un documento comune di tutti, anche per Civati, da presentare al premier.
Nel testo si difende il lavoro della Commissione presieduta da Cesare Damiano, che la scorsa settimana ha siglato un accordo con il segretario Pd proprio sul Jobs Act, “ma in sostanza diciamo anche che quella mediazione è arrivata su una base di riforma troppo regressiva”, spiega il bersaniano Zoggia.
La mediazione di Damiano permette ai due ex segretari Pierluigi Bersani e Guglielmo Epifani di votare a favore del Jobs Act.
Ma i 30 più Civati e i suoi alla fine decidono di staccarsi: non dal partito, ovvio, ma semplicemente dall’indicazione di voto del capogruppo Roberto Speranza.
Fin qui i tecnicismi. Ma questa storia è fatta di travaglio, di ansie, di risvolti psicologici che hanno tenuto banco per una giornata intera nei colloqui interni della minoranza, tra i banchi in aula, nelle telefonate con i referenti nelle regioni.
A pranzo una riunione comune di tutte le aeree ha sfiorato la rottura: tra chi insisteva sulla necessità del voto contrario come Civati e chi spingeva per una modalità più soft come l’abbandono dell’aula al momento del voto.
Qui alla Camera nessuno nasconde che la nuova agitazione della minoranza Dem si è scatenata maggiormente per il risultato delle regionali, per quel crollo dell’affluenza alle urne che ha cambiato i connotati politici di una regione come l’Emilia Romagna, da sempre fortino di voti Pci e Pd.
E dunque, mentre a metà della settimana scorsa la mediazione di Damiano era stata accolta come una strada possibile (tranne che per Civati o per singoli come Cuperlo e Fassina), adesso più di 30 Dem non vi si riconoscono. Dunque, la sommossa.
Tutto inizia già in mattinata, quando Fassina, Cuperlo e Civati partecipano ad una riunione con una cinquantina di delegati della Fiom Lombardia ospitati da Sinistra e Libertà alla Camera.
Ed è stato subito ‘dramma’. Perchè, raccontano a Montecitorio, da una parte c’erano gli operai convinti di trovarsi di fronte a deputati decisi a votare no al Jobs Act. Dall’altra, c’era il travaglio e il ventaglio delle scelte.
Gli operai ora sono in tribuna, in aula, per assistere al voto sulla riforma che li ha già portati in piazza per lo sciopero di categoria e che li riporterà a manifestare il 12 dicembre per lo sciopero generale indetto dalla Cgil e dalla Uil.
In Transatlantico Civati è furente con gli altri della minoranza: “Io non posso non votare no e gliel’ho detto…”.
Ma poi arriva Zoggia a dargli la notizia: “Abbiamo deciso, tutti e trenta si esce dall’aula…”. Sollievo.
Cuperlo stende il documento per tutti, per i contrari e per chi esce dall’aula.
Il pericolo più grosso è stato scampato: cioè quello di dividersi in tante forme di protesta, tra voto contrario, astensione, non partecipazione al voto.
Un rischio grande che li avrebbe esposti a sicura derisione da parte dei renziani.
I quali per ora assistono senza battere ciglio. “Se vogliono, possono uscire dal partito”, ti dicono in Transatlantico escludendo ipotesi di provvedimenti disciplinari da parte di Renzi, “significherebbe costruire martiri e non è il caso…”.
Se ne discuterà alla direzione del Pd il primo dicembre. Ma “certo — aggiungono i parlamentari renziani riferendosi alla minoranza — stanno agendo come se fossero un altro partito, ormai fanno iniziative con Sel e ora anche la protesta al momento del voto…”. Se ne parlerà , di certo.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 25th, 2014 Riccardo Fucile
IL PARTITO SCOSSO DAL CROLLO DEI VOTANTI: VIAGGIO TRA GLI ISCRITTI
La tempesta perfetta continua sul ballatoio del circolo Arci Benassi. «Certo che non ho votato, dopo quegli
scandali la Regione possono anche chiuderla».
«Anche io mi sono rifiutato, quel Renzi e il suo Jobs act o come si chiama sono roba di destra».
I due pensionati si chiamano Luciano e Dino, ma i nomi sono interscambiabili con quelli degli altri cento che stanno giocando a carte nella sala all’interno della sezione Pd più grande di Bologna, una palazzina enorme con vista sulle luci che illuminano la strada per San Lazzaro di Savena.
Alle pareti di un posto che rappresenta soprattutto un’idea di partito e di sinistra che ti accompagna per tutta la vita non c’è il consueto album di famiglia, ma solo poche e ben selezionate foto.
C’è un Romano Prodi ancora baldo e sorridente, c’è il sorriso sotto i baffoni di Renzo Imbeni, il sindaco galantuomo diventato simbolo della via emiliana al comunismo nei tempi moderni.
E soprattutto c’è un incontro con annessa stretta di mano tra don Giuseppe Dossetti e il partigiano Giuseppe Dozza, gli uomini che ispirarono la politica emiliana delle due Chiese.
Tu chiamalo se vuoi, consociativismo, declinato attraverso la delega ai famosi corpi intermedi, della quale questa Regione è indiscusso regno.
Nella piazza Zanti di Cavriago oltre a quella del Pd ci sono altre 16 sedi di associazioni, sindacati, cooperative, comitati.
Il paese più rosso dell’Emilia, famoso per il busto di Lenin donato nel 1920 dal partito comunista sovietico, è rimasto a casa.
Su 8.000 abitanti sono andati a votare solo in 2.600, quattro punti sotto la già disastrosa media regionale.
Stefano Corradi, segretario del Pd locale, non si stupisce. «Se predichi l’abolizione dei corpi intermedi, perchè questi dovrebbero votarti?».
Nel 1970 alle prime Regionali nella storia dell’Emilia Romagna votò il 96,6 per cento degli aventi diritto.
La caduta del muro e il cambiamento di nome del Pci non ebbero influenza sul rito della democrazia partecipata: nel 1990 votò un bulgaro 92,9%.
In questa Regione la Cgil conta 800.000 iscritti, la differenza tra il successo di massa e la vittoria in solitudine.
Vincenzo Colla, il segretario regionale, ha votato con poca convinzione. «Non si può negare che il governo ha un problema con il mondo del lavoro. E liquidare tutto con un due a zero e palla al centro è un modo debole di commentare l’accaduto»
Ieri mattina Bruno Papignani, il leader regionale Fiom teorico della diserzione elettorale, aveva la voce impastata di soddisfazione mista alla paura di chi ha fatto bingo e al tempo stesso l’ha combinata grossa.
«Renzi è venuto qui a mostrare i muscoli contro i deboli, a recitare la sua litania liberista-gaullista, e adesso dovrebbe meditare: ha perso».
In una terra che ha ancora una concezione sentimentale ed etica della politica, i falsi rimborsi dei consiglieri regionali e altre vicende non proprio edificanti di amministrazione locale hanno fatto danni peggio della grandine.
Nella Brescello che fu di Guareschi e oggi è in odore di ‘ndrangheta, con un sindaco che finge di non vedere un problema sotto gli occhi di tutti, è andato alle urne appena il 20,80 per cento.
Sarà anche vero, come disse Silvio Berlusconi, che «questi comunisti» voterebbero anche un gatto se glielo chiedesse il partito, ma a queste elezioni si è arrivati con un presidente condannato e dimissionario, Vasco Errani, l’inchiesta sulle spese pazze, dodici consiglieri regionali indagati ma ricandidati, e come ciliegina sulla torta le primarie più assurde dell’epoca moderna, frutto del compromesso tra le imposizioni giunte da Roma e i tentennamenti del nuovo presidente. «Ho sbagliato anch’io» ammette Bonaccini, che ieri non aveva esattamente la faccia del vincitore «Commisi un errore a sottovalutare la rapidità delle decisioni che dovevamo prendere data l’emergenza che si era creata».
L’Emilia Romagna è sempre stata invisa a Roma ma non è un posto da prendere sottogamba.
Le fibrillazioni del mondo prodiano, con Sandra Zampa a sostenere che Bonaccini «è stato lasciato solo» e che qualcuno avrebbe potuto fare un pensiero sull’utilizzo dell’ex presidente del Consiglio, e il professore che usa una frase sibillina, «come ti fai il letto, così dormi», lascia intendere un cambiamento di verso che potrebbe non piacere a Renzi.
L’Ulivo comunque sta crescendo bene. L’alberello piantato nel cortile del bar Ciccio, all’indomani del patto che siglava la nascita dell’alleanza poi vittoriosa alle Politiche del ’96, è sempre al suo posto nonostante le intemperie.
Fausto, fratello del celebre Ciccio, esce dal locale della sinistra pura e dura a due passi dalla casa di Dozza.
«Ho votato solo per rispetto dei nostri padri morti per darci il diritto di farlo. Mio figlio che è giovane invece non c’è andato. E io sono due giorni che non gli parlo».
Francesco Alberti e Marco Imarisio
(da “il Corriere della Sera”)
argomento: Partito Democratico, PD | Commenta »