PROVE DI LARGA OPPOSIZIONE ALLA CAMERA
IL JOBS ACT PASSA, MA META’ DEPUTATI LASCIANO L’AULA IN SEGNO DI INSUBORDINAZIONE: E I RENZIANI ORA SONO PREOCCUPATI
Uno, due, tre: ciak si gira.
Sul Jobs Act alla Camera va in scena la prova generale di insubordinazione a Matteo Renzi.
C’è un nutrito numero della minoranza Dem — più di trenta — che decide di non partecipare al voto, uscendo dall’aula alla spicciolata.
E c’è anche Forza Italia che abbandona l’assemblea per protesta al momento del voto. Due sgambetti di provenienza diversa se non opposta ma entrambi diretti verso lo stesso bersaglio: Matteo Renzi.
E’ un incidente che non blocca il cammino della riforma del lavoro, approvata comunque a Montecitorio e in viaggio verso il Senato dove potrebbe essere approvata già la prossima settimana molto probabilmente con voto di fiducia per arginare eventuali smottamenti.
Ma quello che è successo oggi alla Camera è il segnale di uno sfilacciamento del mondo politico intorno al presidente del Consiglio, un segnale destinato a restare acceso anche oltre il Jobs Act, pronto ad illuminare di allarme rosso anche la prossima elezione del presidente della Repubblica, per non parlare delle riforme costituzionali a cominciare dalla legge elettorale in discussione a Palazzo Madama.
Nella minoranza dei dissidenti Pd non si fa mistero del fatto che la protesta di oggi guarda anche oltre il Jobs Act.
Per ora, si limitano a chiedere a Renzi di discutere anche nel partito della scelta del prossimo inquilino del Colle.
Della serie: “Non può imporci un nome frutto dell’accordo con Berlusconi”, ti dicono a taccuini chiusi.
Oggi questi dissidenti si sono un po’ contati. E potrebbero farsi sentire sull’elezione del successore di Napolitano, che dovrebbe terminare il suo mandato con tempi e modi che deciderà da solo ma non oltre i primi mesi dell’anno prossimo.
Dall’altro lato, c’è Forza Italia che pure oggi ha scelto una modalità di opposizione plateale sul Jobs Act. Anche loro sono usciti dall’aula. E, soprattutto, anche loro sono sfilacciati al loro interno, nonostante che Berlusconi continui a rassicurare Renzi sulla tenuta del patto del Nazareno.
Il tutto è una sfida al premier.
E l’unico tavolo di discussione parlamentare in cui può essere messa in atto senza rischiare di perdere il seggio in Parlamento con il voto anticipato è, appunto, l’elezione del presidente della Repubblica.
Ecco perchè, a denti stretti, renziani di rango ammettono: “Sull’elezione quirinalizia i dissidenti possono farci molto male, soprattutto se ‘giocano’ insieme con il M5s e Sel contro il Patto del Nazareno”.
Perchè in questo caso “avrebbero pure il candidato: Prodi”, nome di certo non gradito a Berlusconi. Tutta teoria, ma l’allarme è già scattato in casa Renzi.
Tanto da scatenare la contromossa.
“Se quelli della minoranza rifanno la stessa cosa sulle riforme costituzionali o sulla legge elettorale, si va al voto anche con il Consultellum…”, dice un deputato renziano.
Perchè l’indicazione che arriva dal premier è che, se al Senato l’Italicum dovesse finire nella palude dei veti incrociati, a quel punto non resterebbe altro che la strada per le urne in primavera.
Anche con la legge attuale, il Consultellum tracciato dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha bocciato il Porcellum.
Da qualche tempo nella cerchia del premier si fanno calcoli e proiezioni per capire quanto convenga presentarsi agli elettori con questo sistema di voto.
E per ora l’esito di questi calcoli non è negativo: il Pd di Renzi conquisterebbe agevolmente la maggioranza al Senato, mentre tutti gli altri partiti dovrebbero combattere con la soglia di sbarramento dell’8 per cento prevista a livello regionale. Anche la Lega, fresca del successo del nuovo corso di Salvini alle regionali in Emilia Romagna, avrebbe problemi al sud.
Forza Italia magari li avrebbe ovunque, idem il M5s, almeno stando ai sondaggi e ai risultati della tornata di domenica scorsa.
Il segretario Dem potrebbe avere qualche problema nella formazione della maggioranza alla Camera, dove è previsto uno sbarramento nazionale del 4 per cento. Ma la somma di pro e contro non dà segno meno, nei calcoli renziani: volendo, come estrema ratio, si può sfruttare il Consultellum per tornare al voto.
Il problema è che prima di arrivare al voto bisognerebbe eleggere un nuovo presidente della Repubblica, visto che Napolitano ha lasciato più volte intendere la sua intenzione di non sciogliere le Camere come ultimo atto del suo mandato.
Ed è su questo che si inceppa anche la minaccia renziana di portare tutti alle urne in caso di insubordinazioni sulle riforme.
Certo, se dovessero mancare i numeri al governo, anche Napolitano sarà costretto a fare altre valutazioni: il presidente infatti ha ribadito più volte anche il concetto secondo cui i governi nascono e muoiono sulla base dei numeri in Parlamento.
Ma alla luce di come è andata sul Jobs Act alla Camera, a Renzi e i suoi è chiaro lo schema di gioco della minoranza: guerriglia parlamentare, azioni di disturbo che non puntano a far cadere il governo ma a condizionarlo.
“Li ho visti in aula: stavano lì come gufi a controllare che ci fosse il numero legale e poi hanno deciso di lasciare l’assemblea — racconta un deputato renziano — Altrimenti non l’avrebbero fatto. A questo punto, Civati è più coerente: almeno ha sempre detto come avrebbe votato…”.
Il clima è rovente.
A sera al Senato si riunisce la maggioranza renziana del gruppo Pd. Oggetto della discussione: i prossimi provvedimenti in arrivo in aula, Jobs Act e legge elettorale.
Il primo verrà risolto con la questione di fiducia. L’Italicum invece non può essere votato con la fiducia. Si cerca una via d’uscita.
E la rabbia contro i dissidenti Dem esplode tra i renziani.
A taccuini chiusi si sfogano: “Se non avessimo il problema interno al Pd, non dipenderemmo da Berlusconi sulle riforme. Sono loro che ci hanno costretto al Patto del Nazareno…”.
Ora che Renzi non può più contare nemmeno sulla compattezza di Forza Italia, il caos regna sovrano.
(da “Huffingtonpost”)
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