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L’ANALISI DEI FLUSSI ELETTORALI NELLE AMMINISTRATIVE DIMOSTRA CHE VINCE CHI RIESCE A MANDARE I PROPRI ELETTORI A VOTARE

Settembre 4th, 2017 Riccardo Fucile

DOVE SONO FINITI I VOTI DI GRILLO, COSA HA DA ESULTARE IL PD E PERCHE’ IL CENTRODESTRA NON DORME SONNI TRANQUILLI

Affluenza in calo e crescita dell’astensionismo, evidente successo del centrodestra e Partito Democratico in arretramento, sconfitta per il MoVimento 5 Stelle.
L’analisi del voto alle elezioni amministrative 2017 porta numeri e dati interessanti per i flussi elettorali e permette di comprendere il capovolgimento dei rapporti di forza in molte realtà  locali, anche se è inutile trarne conclusioni per il quadro politico nazionale.
L’affluenza è in calo dal 66,8% del 2012 al 60,1%.
Nei 25 capoluoghi il centrosinistra ha vinto a Palermo e Cuneo mentre il centrodestra ha portato a casa Frosinone.
“Nelle restanti 22 città  – spiega oggi Dino Martirano sul Corriere della Sera – si sono ribaltati i rapporti di forza tra gli schieramenti, con l’esclusione della candidata del centrosinistra a Verona. Ora il centrosinistra è in testa in 6 ballottaggi (Alessandria, Monza, Lodi, Lucca, Pistoia, Aquila) mentre il centrodestra parte in vantaggio in 13 capoluoghi (Asti, Como, Padova, Verona, Genova, La Spezia, Piacenza, Rieti, Lecce, Taranto, Catanzaro, Oristano, Gorizia). In altre tre città  (Parma, Trapani e Belluno) sono le liste civiche ad avere ottenuto il miglior risultato”.
Alle elezioni del 2012 – osserva il senatore Federico Fornaro (Articolo 1), che è un attento analista dei flussi elettorali – «i rapporti di forza erano capovolti: il centrosinistra, che al primo turno aveva preso Pistoia e La Spezia, era avanti in 13 città ; il centrodestra, che al primo turno aveva vinto a Lecce, Catanzaro e Gorizia, affrontò solo due ballottaggi da coalizione che si fa inseguire».
Negli altri 141 comuni sopra i 15mila abitanti il centrosinistra conquista 22 sindaci ed è primo in 45 città  e secondo in 41. Il centrodestra ha vinto in otto città  ed è in testa in 44 ballottaggi. Nove sono i ballottaggi conquistati dal M5S: un solo comune sopra i 15mila abitanti.
Dove sono finiti i voti di Grillo?
“Il M5S avrebbe difficoltà  a dire che non ha perso, in alcune città  retrocede anche rispetto alle amministrative del 2012”, spiega Rinaldo Vignati dell’Istituto Cattaneo. E, analizzando i flussi elettorali di 5 città  (La Spezia, Alessandria, Pistoia, Padova, Piacenza), l’istituto emiliano rileva “il bacino dei candidati M5s si osserva una dispersione in tante direzioni diverse”.
Un dato che si aggrava in termini numerici nel raffronto con le politiche del 2013. Ad Alessandria, ad esempio, 4 anni fa il M5S arrivava al 20% mentre oggi si ferma al 6,5%: “astensione, candidato grillino, candidato di centrodestra e candidato di centrosinistra”, le direzioni che ha preso l’elettore M5S, spiega il Cattaneo.
Secondo una parziale analisi di Youtrend in totale il Pd si attesta al 16,6% e il M5S al 9%.
Ma neanche i Dem possono ridere.
Secondo l’Istituto Cattaneo il centrosinistra ha subito “significative perdite verso l’astensione e verso altre forze politiche”.
Un’astensione che aumenta se si guarda al Pd e al confronto con le politiche del 2013. A Genova, ad esempio, i Dem perdono “il 7,7%” del corpo elettorale che ha scelto di non votare. A Piacenza la quota raggiunge l’8%. E nella “rossa” Toscana per il Pd non va meglio: i Dem perdono alcuni Comuni (Forte dei Marmi o Rignano sull’Arno) che vanno al centrodestra o a liste civiche mentre a Lucca e a Pistoia pagano il dazio delle scissioni. E l’emigrazione degli elettori Dem contribuisce, in alcune città , a ribaltare l’ordine tra centrosinistra e centrodestra.
A Genova l’elettorato che nel 2012 premiò il candidato del centrosinistra Doria si dirige, oltre che su Crivello, in parte sull’astensione (il 5,8%) e in parte (3,4%) sul candidato M5S Pirondini.
Mentre Marco Bucci, candidato del centrodestra mantiene il suo bacino del 2012 fagocitando quello che, cinque anni fa, votò per il candidato leghista Rixi.
Il centrodestra, in tante città , si mostra attrattivo. Ma in termini assoluti i numeri di FI e Lega non sono altissimi
Cosa ha da esultare il PD?
Il professor Roberto D’Alimonte sul Sole 24 Ore avverte però che anche per il centrodestra non c’è da trarre conclusioni affrettate per il voto nazionale. E segnala tutte le possibili criticità  di una coalizione “affrettata”:
Per Berlusconi, Salvini e la Meloni non è un problema stare insieme quando si tratta di eleggere un sindaco. Ma non è la stessa cosa eleggere un presidente del consiglio. Quella che una volta chiamavamo la coalizione di Berlusconi non c è più, ma non è ancora nata la coalizione di Salvini.
Una volta c’era la secessione a dividere Forza Italia dalla Lega Nord, oggi c’è l’Europa. La secessione era un problema nostro, l’Euro è un problema nostro ma anche dei nostri partners.
Berlusconi ci ha abituato a manovre spericolate in nome della unità  del centro-destra. La sua capacità  di aggregazione è straordinaria. Ma il Berlusconi di oggi non è quello del 1994, del 2001 o del 2008. E soprattutto il Salvini di oggi non è il Bossi di ieri.
Su quale programma e su quale candidato premier potrebbero mettersi d’accordo? Quello che ha funzionato a livello locale non è facilmente replicabile a livello nazionale, soprattutto con una legge elettorale che spinge a stare insieme prima del voto dentro una lista unica.
E la questione delle liste civiche? A parte che è una scusa per non ammettere di aver perso, la strategia delle liste civiche serve a coinvolgere il maggior numero di candidati e quindi rimediare più voti per i sindaci in corsa.
Ma, spiega Alessandra Ghisleri di Euromedia Research a La Stampa, in questo modo PD e Forza Italia «hanno sacrificato molti voti che sarebbero andati alle rispettive liste pur di allargare l’area di riferimento. Quella che fa capo ai «Dem» vale il 20,2 per cento; l’altra che ruota intorno a Berlusconi e Meloni arriva al 16,9.
Globalmente il centrosinistra sfiora il 37 per cento (senza contare il 6,9 della sinistra-sinistra, con i socialisti in bella evidenza). La destra nel suo insieme supera il 34, e spera».

(da “NextQuotidiano”)

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“VOLETE CHE INTERROMPIAMO I TRAFFICI DI PROFUGHI? PAGATECI”

Settembre 4th, 2017 Riccardo Fucile

L’ECONOMIA DEL SUD DELLA LIBIA SI FONDA SUL TRAFFICO DI ESSERI UMANI… I MILIONI PAGATI AI TRAFFICANTI DAI NOSTRI SERVIZI SEGRETI

Sarebbe ridicolo scomodare la temeraria operazione di Thomas Edward Lawrence, l’agente segreto britannico più conosciuto come Lawrence d’Arabia.
Ma il piano per la Libia che il premier Paolo Gentiloni ha presentato a Parigi lunedì 28 agosto è altrettanto ardito: la stabilizzazione del deserto al confine con il Niger e il Ciad si basa su un fragile accordo tra il ministro dell’Interno, Marco Minniti, e ben sessanta capi tribù del Sahara, sotto la continua supervisione del premier Fayez al-Serraj, al vertice dell’unico governo di Tripoli riconosciuto dalle Nazioni Unite (e dall’Italia).
Sarebbe però ugualmente ridicolo pensare che tutto questo possa reggere senza il riconoscimento del generale Khalifa Haftar, il signore della guerra sostenuto dalla Francia e dall’Egitto, che da Bengasi ha liberato gran parte dell’Est del Paese dalle infiltrazioni di Al Qaeda e poi dallo Stato islamico.
Senza l’appoggio dell’ex ufficiale del regime di Gheddafi, tornato in patria a combattere dopo anni di esilio negli Stati Uniti, in Libia non ci sarà  nessuna pace.
E il primo ad esserne consapevole è il presidente francese Emmanuel Macron, dato che l’Eliseo è il principale azionista del suo alfiere Haftar.
L’immigrazione è il pretesto di una partita su una scacchiera molto più grande. Ritenere che a Parigi i massimi rappresentanti di Unione Europea, Francia, Italia, Germania, Spagna, Libia, Niger e Ciad si siano occupati principalmente dello sbarco in massa di profughi in Europa e di come garantire il rispetto dei diritti umani al di là  del Mediterraneo è riduttivo.
La promessa di bloccare i traffici di persone a Sud del Sahara da parte dei sessanta capi clan e dei sindaci delle città  meridionali è il primo passo, la prova di buona volontà , per procedere verso la concessione di finanziamenti europei e la ricostruzione in Libia.
Una corsa già  cominciata con l’assegnazione al consorzio italiano “Aeneas” dell’appalto per il nuovo aeroporto di Tripoli, che prenderà  il posto delle infrastrutture distrutte dalla guerra.
Il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, in un’intervista a “Repubblica”, ha anticipato l’ipotesi di un piano di aiuti alla Libia per sei miliardi, simile a quello concesso alla Turchia su pressione di Berlino per fermare il flusso di profughi siriani verso la Germania.
Di fronte a un montepremi pubblico così ricco a disposizione delle aziende europee, l’apertura di centri di detenzione per migranti lungo la rotta del Sahara e le prevedibili condizioni degradanti dei reclusi non scandalizzeranno più di tanto i governi.
Al massimo saranno un’ulteriore opportunità  economica per le ditte che li costruiranno.
Una volta scelta la strada più breve verso l’obiettivo, Gentiloni e Minniti, che in questo governo è il vero ministro degli Esteri, non avevano alternative. La politica italiana dei piccoli passi per ora sembra resistere alle minacce esterne. Prima grazie alla ricostruzione istituzionale e la formazione del Governo di accordo nazionale di al-Serraj, sponsorizzata dall’Onu e un tempo combattuta da Haftar. Poi con la stabilizzazione del Sud della Libia attraverso l’accordo di pace siglato a Roma il 31 marzo tra il generale Senoussi Oumar Massaoud, presidente del Consiglio dei notabili in rappresentanza del clan degli awlad suleiman, e l’ex nemico, lo sceicco Zilawi Minah, sultano della tribù dei tebù della Libia.
Un traguardo raggiunto grazie a mesi di mediazione e incontri guidati dall’associazione internazionale con sede a Roma “Arapacis Initiative”, che sotto il simbolo dell’altare della pace dell’imperatore Augusto ha portato nel Sud libico i principali ingredienti per archiviare l’odio esploso con la rivoluzione del 2011: riconciliazione e dialogo tra le fazioni, prima di tutto. Lo stesso percorso su cui Nelson Mandela aveva messo fine alla guerra civile strisciante in Sud Africa.
Dalla scorsa settimana, il premier Serraj e il ministro dell’Interno italiano hanno dalla loro parte il supporto della Corte suprema libica. I giudici hanno infatti annullato la sentenza della Corte d’appello di Tripoli che bocciava il memorandum d’intesa firmato a febbraio tra i governi italiano e libico. La decisione bloccava ogni ulteriore negoziazione tra le parti che mirava a fermare le partenze dei barconi verso l’Italia.
Il ricorso era stato presentato dall’ex ministro della Giustizia, Salah Al-Marghani e da altri giuristi. Serraj ha continuato sulla sua strada e in luglio ha firmato il nuovo accordo con l’Italia che permette alle navi militari italiane di entrare nelle acque territoriali libiche e il respingimento di profughi e migranti, senza nessuna preventiva identificazione.
La sentenza definitiva della Corte suprema ha evitato un incidente politico e ulteriori argomenti per gli oppositori libici che non hanno dimenticato il passato coloniale. Poche settimane fa, lo Stato maggiore di Haftar aveva addirittura minacciato di bombardare le navi militari italiane.
Nella terra dei miraggi alle porte del deserto, così come spesso accade anche in Italia, non sempre la via più breve tra due punti è una linea retta.
Lo dimostra il percorso seguito nei giorni scorsi dai primi diecimila kit di primo soccorso per i migranti respinti. Fornitura destinata metà  alla Guardia costiera libica e metà  alla città  di Zuwara.
Invece di farli arrivare comodamente con un aereo, come rivela il sito di informazioni “Libya Herald”, gli scatoloni sono stati trasbordati da una nave della Marina italiana a una motovedetta della Guardia costiera di Tripoli.
Lo scambio è avvenuto rigorosamente (appena) al di fuori delle acque territoriali libiche, per sottolineare il rispetto della sovranità  nazionale.
Una volta arrivati in porto, i kit sono stati restituiti all’ambasciata italiana perchè fossero poi ridonati ai libici in una cerimonia ufficiale.
Così ha voluto la diplomazia di Roma. Con grande stupore delle autorità  locali.
L’assistenza obbligatoria alle persone bloccate lungo la rotta verso il mare non deve abbandonare i residenti impoveriti da anni di guerra.
I sindaci libici che hanno incontrato il ministro Minniti al Viminale gli hanno ricordato proprio questo. Rinunciare al trasporto di migranti dal Niger o dal Ciad significa perdere l’unico reddito che, dalla caduta del regime del colonnello Gheddafi, manteneva le regioni del Sud.
L’alternativa per vivere sarebbero i traffici di armi e droga. Oppure investimenti e progetti duraturi dall’Europa: «La Libia», hanno scritto i sindaci nel documento finale, «guarda con aspettativa al tempestivo sostegno dell’Italia e dell’Unione Europea ai progetti già  proposti e che saranno proposti in futuro, finalizzati al miglioramento delle condizioni di chi vive nelle aree colpite dai traffici illegali».
L’intenzione c’è. Ora servono le idee. E, come ai tempi del colonnello Gheddafi, tanti soldi.
Prima che un imprevisto qualunque faccia riesplodere la guerra e il caos riapra la corsa ai barconi. Basta poco per infiammare i rancori.
L’ultima volta, nel novembre 2016, la battaglia si è riaccesa per colpa di una scimmia. L’inconsapevole primate di un commerciante della tribù dei gaddafa, la stessa che sosteneva il dittatore ucciso nel 2011, ha tolto il velo dai capelli di una studentessa degli awlad suleiman. I suleiman si sono vendicati uccidendo tre esponenti dei gaddafa.
E dalla città  di Sebha i combattimenti si sono estesi a tutto il Sud, con l’impiego di carri armati e artiglieria. Oggi non sarà  facile essere equi. I gaddafa sono fuori dagli accordi.
I sindaci di Sebha e Gatrun, due città  sulla rotta del Sahara, non sono riusciti ad arrivare al vertice di fine agosto a Roma. E non tutti i tebu, da buoni carovanieri del deserto, sono soddisfatti.
Mentre fuori Tripoli corre la voce, non confermata, che gli 007 italiani stiano pagando milioni ai trafficanti per tenere fermi i barconi sulle spiagge. Almeno per qualche settimana.

(da “l’Espresso”)

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PENSIONI INVALIDITA’ CIVILE, LA CRESCITA DEGLI ASSEGNI

Settembre 4th, 2017 Riccardo Fucile

ALL’INIZIO DEL 2002 ERANO 672.000 A FRONTE DI 1,9 MILIONI DI INDENNITA’ PER UNA SPESA DI 7,2 MILIARDI… QUEST’ANNO SIAMO A OLTRE 3 MILIONI

L’invalidità  civile riguarda i cittadini che non hanno una posizione contributiva tale da garantire loro, se invalidi, prestazioni erogate dalle gestioni previdenziali.
Esistono due tipi di prestazioni: l’assegno mensile e la pensione di inabilità .
L’assegno mensile è una prestazione economica a carattere assistenziale concessa agli invalidi parziali di età  compresa tra i 18 e i 65 anni e 7 mesi, con una riduzione della capacità  lavorativa compresa tra il 74 e il 99%, che soddisfano i requisiti sanitari e amministrativi previsti dalla legge.
Inps riconosce invece la pensione di inabilità  ai soggetti ai quali sia riconosciuta una inabilità  lavorativa totale (100%) e permanente (invalidi totali), di età  compresa tra i 18 e i 65 anni e 7 mesi che soddisfano i requisiti sanitari e amministrativi previsti dalla legge. Entrambe le prestazioni sono legate a soglie di reddito (4.800 euro per l’assegno, 16.500 per la pensione).
C’è poi l’indennità  di accompagnamento che non prevede limiti di reddito e va a chi è invalido del tutto non autosufficiente.
Nei giorni scorsi si era parlato dell’AOI, ovvero dell’assegno ordinario di invalidità  che è stato tolto a molti dipendenti dell’INPS dopo una rivalutazione dei dossier da parte di medici non di zona.
In Italia invece le pensioni di invalidità  civile sono cresciute: spiega oggi il Messaggero che all’inizio del 2002 erano 672mila a fronte di 1 milione e 94 mila indennità , per una spesa complessiva di 7,2 miliardi.
Al primo gennaio di quest’anno si contavano invece oltre tre milioni di prestazioni, suddivise tra 964 mila pensioni (importo medio mensile 273 euro) e due milioni e 96 mila indennità  (importo medio 493 euro): proprio il raddoppio di queste ultime ha spinto la spesa fino a 15,8 miliardi, con una crescita del 118 per cento rispetto a quindici anni fa. I numeri ci dicono che la crescita è stata significativa fino al 2009, quando l’inserimento a pieno titolo dei medici dell’istituto nelle commissioni Asl che valutano le domande e la presentazione telematica della domanda stessa e dei certificati ha provocato un rallentamento.

(da “NextQuotidiano”)

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L’ANALISI DI MONTI: “LEGA E M5S HANNO RINUNCIATO AL LORO ANTIEUROPEISMO”

Settembre 4th, 2017 Riccardo Fucile

PROMOSSI E BOCCIATI A CERNOBBIO

Con uno spirito da “Dopo Festival”, mentre tutto intorno ferve il trasloco di sedie e tavolini destinato a ricondurre Villa d’Este alla sua quieta normalità , Mario Monti ragiona sull’anno che è passato e quello che verrà .
È cambiato tutto in dodici mesi, è stato «un gioco interessante della Storia».
Dopo la Brexit, ricorda il professore, trattavano l’Europa «come un ronzino atteso da un concorso equestre», si pensava il peggio per l’Unione e si temeva che l’Italia «potesse deragliare» una volta arrivata al «referendum di dicembre, presentato come un giudizio di Dio». Niente affatto.
«Dopo la vittoria del “no” (che auspicavo) non è successo nulla». Il Paese ora cresce e ha risolto qualcuno dei suoi problemi, sebbene altri ne restino da affrontare. Ma così va la vita, almeno da queste parti.
È stato un Forum Ambrosetti da terra di mezzo.
«Il mondo e l’Europa migliorano dal punto di vista economico – concede l’ex premier -, mentre la situazione globale, strategica e geopolitica, si complica». Tutto vero.
Anche che, come Monti nota con piacere, oggi «c’è molta acqua nel vino degli euroscettici». Il risultato è un ritrovato vigore del progetto continentale che lui fa risalire agli choc vissuti dal mondo anglosassone, la Brexit e l’elezione di Trump, «due eventi a cui abbiamo assistito sgomenti».
Noi «abbiamo dimostrato di essere dei “purosangue”, di saper resistere alle difficoltà ». I guai maggiori adesso li hanno gli altri. «Strutturali e non facilmente risolvibili», quelli britannici. Politici e sociali, quelli americani, «con l’economia e finanza che divergono dalla politica e il razzismo che si è riattizzato».
Questo mèlange di sensazioni è apparso dominante al Forum lariano, l’universo anglosassone che zoppica, il vecchio continente in odore di rilancio, l’Asia – soprattutto la Cina – che si offre come leader e mediatore. Un contesto dinamico, dove l’Italiano tranquillo, Paolo Gentiloni, archivia con orgoglio «la crisi peggiore» e i rivali lo sfidano davanti al gotha nazionale di industria e finanza con parole rassicuranti per conquistare scampoli di consenso.
«Anche Salvini ha usato toni moderati rispetto agli standard», ammette Monti ripensando al discorso del leghista di ieri. Di Maio? «Un raffinato borghese, con una compiuta articolazione intellettuale, mosso dal desiderio di essere e apparire moderato».
Sono loro, gli annacquatori del calice euroscettico. «Sarebbe stato bene che li avessero ascoltati gli osservatori internazionali che erano qui nei giorni precedenti», sospira il professore: «Avrebbero un’idea diversa di quanto accade da noi».
Ci vorrà  un’altra occasione. Il Forum è un porto di mare (sul lago) e il viavai è inevitabile e continuo.
A dover scegliere, comunque, Monti farebbe vincere il FestivaL Ambrosetti a Margrethe Vestager, la danese dell’Antitrust europeo, «una politica equilibrata con un lavoro che fortifica», laurea concessa da uno che quella poltrona la conosce bene.
Secondo premio all’olandese Frans Timmermans, il primo vicepresidente della Commissione, «un politico appassionato».
Il presidente dello Houston Methodist Research Institute, Mauro Ferrari, gli pare il concittadino più luminoso. «Bisognerebbe riportarlo a casa o forse no: meglio che rappresenti il talento italiano all’estero, purchè continui a far parte della nostra rete di eccellenze».
Lo ha colpito la ministra degli Esteri cinese, la signora Fu. Straordinaria. Cosa manca ad Alfano per essere come lei? Qui si capisce che Monti avrebbe voglia di fare una battuta, ma si ferma molto prima. Accetta che «è vissuta in un sistema dove i ministri li formano da piccoli», il che lo porta ad ammettere che il male italiano «è anzitutto di natura culturale» e che l’instabilità  politica e la debolezza strutturale «derivano da questo».
In fondo, ironizza, l’ultima analisi precisa del Paese l’ha scritta Leopardi nel 1824, col «Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani»: «Da allora non è cambiato molto».
Cambierà ? Cosa ci diremo fra un anno? Monti pensa al calendario. «Avremo archiviato il grande ciclo elettorale cominciato nel 2016 e andremo verso il rinnovo del parlamento e delle istituzioni comunitarie del 2019».
Pertanto, «il gioco principale sarà  l’Europa», previsione rafforzata dal «60% di probabilità » che Francia e Germania tentino un rilancio dell’integrazione. L’Italia, beninteso, dovrà  partecipare.
Siamo in pericolo? «Intanto è stato un bene che non ci siano state elezioni anticipate, avremo subìto l’attesa del disastro elettorale, che non c’è stato, in Olanda e Francia».
Il resto vien voglia di vederlo. «Il prossimo settembre sarà  un momento irripetibile», promette. Nessuno l’avrebbe immaginato un anno fa.
«La sospensione è finita», proclama il presidente della Bocconi. L’Europa può provare a correre in Pace.

(da “La Stampa”)

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DI MAIO IN DOPPIO PETTO A CERNOBBIO: “IL MIO MODELLO E’ IL GOVERNO RAJOY”

Settembre 4th, 2017 Riccardo Fucile

E SALVINI NON E’ PIU’ PER USCIRE DALL’EUROPA… IMPRENDITORI FREDDI: “NATI RIVOLUZIONARI, FINITI POMPIERI”

Luigi Di Maio era stato avvertito: non sarà  come nei talk show, o nelle piazze, qui ogni argomento, ogni frase, ogni annuncio viene vivisezionato.
È la dura regola della politica quando deve confrontarsi con l’impresa, le banche, la finanza.
Per prepararsi alla diffidente platea di Cernobbio Di Maio ha riempito di domande lo staff della European House Ambrosetti che organizza il Forum.
Poi ha seguito il consiglio di un amico: «Non presentarti come una forza antisistema, ma che vuole riformare il sistema».
Così ha studiato il suo intervento, puntellandolo qua e là  di titoli. Su tutti: «Smart nation», l’Italia che immagina, rifondata su innovazione e tecnologia.
Una definizione che non avrebbe stonato in bocca a Matteo Renzi alla Leopolda. Così, Di Maio, ha anche liberato la sua immagine, meno aderente alla narrazione grillina classica e più alla sua indole.
«È un gran moderatone —dice Ovidio Jacorossi di Fintermica – Lo vedo maturato, ha capito il valore del dialogo. Con la contrapposizione non si va da nessuna parte».
Facile più a dirsi che a farsi nel M5S. Eppure, chi si aspettava di ritrovarsi un avatar di Beppe Grillo che urlava irridendo le assemblee degli azionisti di Telecom, è rimasto deluso.
Nessun rigurgito anticapitalista, che pure alligna tra i grillini, dove si può trovare di tutto. Del Movimento Di Maio ha consegnato il volto più rassicurante, in sintonia con il pensiero dominante nel mondo dell’impresa. Moderatone, appunto. Governativo, nelle speranze.
Diverso da Matteo Salvini, che non è parso così differente dai salotti tv e dai comizi.
Il leghista ha parlato di culle, di demografia, invitando chi avesse almeno due figli ad alzare la mano (una decina in tutto).
La competizione si giocava sullo stesso tavolo, entrambi obbligati a strapparsi di dosso le etichette. «Non siamo nè antieuroepeisti, nè estremisti, nè populisti» dice dei grillini Di Maio. Lo aspettano sui fatti qui a Cernobbio.
Sull’euro, sul referendum, prima sventolato come soluzione dei mali d’Italia, ora chiuso in un cassetto e definito «extrema ratio».
Tocca al renzianissimo Davide Serra, ad di Algebris, chiedere lumi con una certa perfidia: «Il referendum ci servirà  — è la risposta — per avere peso contrattuale se le richieste dei Paesi del Mediterraneo non verranno prese in considerazione dall’Ue».
Quali? La possibilità  di sforare il tetto del 3%. Per Di Maio il modello è «il governo di Mariano Rajoy» che ha fatto riforme strutturali e ha convinto l’Europa a cedere sulla flessibilità .
Non Podemos e i ragazzacci indignati, dunque, ma un conservatore di destra è adesso il modello di Di Maio. La sfida all’euro sembra non interessare più nemmeno a Salvini che, sì, parla di «exit strategy da studiare» sulla moneta unica, ma lo subordina al tema dei migranti.
Di Maio glielo lascia fare volentieri perchè preferisce snocciolare un primo indice del programma economico-industriale. «Il web come incubatore di posti di lavoro, dove per ogni euro investito ne tornano tre». Non affronta il nodo del debito, ma parla di «tagli selettivi e non lineari», e, forse memore dell’utopia su cui Grillo ha fondato il Movimento, dice che non di solo Pil vive la crescita, ma anche di misuratori della felicità  e della salute.
Offrire più una visione che formule è servito a vincere lo scetticismo degli imprenditori? «Gli applausi sono stati di convenienza, come per Salvini» liquida la faccenda Serra, ma era scontato.
Massimo Costa, country manager di Wpp Italia premia il leghista: «Ho trovato Di Maio più scolastico. Salvini, forse per motivi territoriali, se l’è giocata meglio. È stato più coinvolgente e con temi di più ampio respiro».
Il punto è che la vecchia Cernobbio, covo di quel che resta dei poteri forti intimidisce anche il più scatenato dei capipopolo. «Tutti e due qui si sono presentati in una veste che non portano in pubblico. E nella sostanza nessuno ha impressionato», osserva Maurizio Traglio, imprenditore nell’industria dei gioielli.
Gli imprenditori li stanno a sentire, questi due eretici nati incendiari e finiti (quasi) pompieri, e qualcuno entra nel merito nei ragionamenti.
«La flat tax di Salvini al 15% mi lascia perplesso – commenta Giuseppe D’Urso, ad di Nuovenergie -, un abbattimento così radicale delle tasse è improponibile se non si taglia il debito pubblico di almeno il 50%. È un libro dei sogni. Di Maio? Ho apprezzato l’aplomb, ma non ha spiegato cos’è il reddito di cittadinanza. Se è legato alla disoccupazione o se è legato alla cittadinanza, strada che non vedo percorribile».

(da “La Stampa”)

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“TROPPA VIOLENZA VERBALE CONTRO I MIGRANTI, CI VUOLE PIU’ UMANITA'”: IL CASO DI ACQUI TERME

Settembre 4th, 2017 Riccardo Fucile

LA CONDANNA DELLA CITTA’ PER L’AGGRESSIONE A SHALID

Non si placano le polemiche sull’aggressione ai danni di un ragazzo di 22 anni richiedente asilo.
E se da una parte c’è l’autore materiale dell’aggressione, un ragazzo di 17 anni, denunciato per lesioni personali, che ha ritirato da facebook il post attraverso quale provava a chiedere scusa a Shalid, il ragazzo di colore aggredito, per i troppi insulti, dall’altra c’è chi oggi si interroga sul perchè di questo brutto episodio.
Una brutta storia che non riguarda solo chi materialmente ha agito davanti alla telecamera del cellulare, e oggi sta pagando il prezzo più alto, ma almeno altri tre ragazzi.
Uno è stato denunciato per istigazione ma altri due, probabilmente minorenni, sono ancora impuniti.
Ed è proprio su di loro che ora si stanno concentrando le indagini dei carabinieri. C’è da capire cioè chi ha effettivamente realizzato il filmato e poi la ha postato su facebook facendo scoppiare così il caso.
Una brutta storia, che in tanti ora pensano sia la somma di fragilità  che si scontrano anzichè incontrarsi.
Per CrescereInsieme, la cooperativa sociale responsabile dell’accoglienza di Shalid, come di altri ragazzi nelle sue identiche condizioni, il problema va analizzato sotto diversi punti di vista.
«La violenza fisica nei confronti del ragazzo richiedente asilo — si legge in una nota – è anche frutto della dilagante e incontrollata violenza verbale che circola intorno al tema dei migranti, delle difficoltà  che la loro presenza sul territorio comporta e della fatica ad incontrare il “diverso-da-me”».
Per CrescereInsieme, ormai una presenza ben radicata nel territorio dell’acquese
«La comparsa del video sui social – e la sua virulenta circolazione online e sugli smartphone – sono la prova di una fatica ormai sempre più evidente di distinguere il vero dal virtuale, dei minori come degli adulti».
Il fatto poi che l’aggressore sia un minore e l’aggredito sia un giovane richiedente asilo, cioè entrambi persone che hanno bisogno di essere tutelate, guidate, aiutate, ed accolte, «interroga le coscienze di tutti noi cittadini, sul lavoro da fare per recuperare umanità  sul piano sociale, politico e delle relazioni tra le persone».
Come dire cioè che quando due fragilità  si scontrano, invece di incontrarsi per costruire insieme un mondo migliore, il senso stesso del convivere civile viene stravolto e offeso. «L’indifferenza però dilaga ma non vince — si legge ancora nella nota di CrescereInsieme – alla fine del video si vede chiaramente una persona intervenire per arrestare la violenza dell’aggressore. Ed è a lui che vogliamo dire grazie per aver trovato il coraggio di un gesto così importante».

(da “il Secolo XIX”)

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LE DONNE CHE HANNO SGOMINATO IL BRANCO DI RIMINI: “SIAMO FUORI DALL’INCUBO”

Settembre 4th, 2017 Riccardo Fucile

LA SODDISFAZIONE NEI VOLTI DELLE AGENTI DI POLIZIA CHE HANNO PARTECIPATO AGLI ARRESTI

Il capo branco che esce ammanettato dalla questura di Rimini, stretto fra due poliziotte in borghese, è un’immagine forte, che chiude il cerchio della bruttissima storia degli stupri di Rimini: «L’arresto è stato una doppia soddisfazione perchè a mettere le manette al quarto uomo sono state due donne, un gesto simbolico che ha reso giustizia alle vittime delle violenze», ha sottolineato ieri il questore di Rimini, Maurizio Improta.
Loro, le donne che hanno partecipato a un’imponente attività  investigativa che ha mobilitato polizia e carabinieri negli ultimi 10 giorni, si limitano a commentare la vicenda con attenzione all’aspetto umano dei giovanissimi arrestati
A cominciare da Francesca Capaldo, dirigente del Servizio operativo (Sco), colpita dall’apparente schizofrenia fra l’aria da ragazzini dei carnefici della coppia e della trans, e la loro ferocia: «E’ stata lampante ed evidente la discrasia fra il loro atteggiamento, il loro modo di fare, quasi da bambini, e l’efferatezza di questo reato gravissimo, raccontato dai volti e delle parole delle vittime. Abbiamo dato giustizia a una donna che ha sofferto moltissimo e alla trans peruviana».
Volti e parole che, in quanto donna prima ancora che poliziotta, le hanno comunicato sofferenza e dolore indicibili che ne segneranno l’esistenza fino all’ultimo giorno.
Poi una considerazione di ordine più generale, legata al fatto che finalmente il fantasma di una banda alla Arancia meccanica ha smesso di turbare la tranquillità  di Rimini e dintorni, dove il fatto che quattro delinquenti del genere fossero ancora in libertà  non faceva dormire sonni tranquilli.
Ora che sono stati assicurati alla giustizia tutti e quattro, può dire finalmente, con un senso di liberazione, che «per Rimini è finito un incubo».
Ma le due donne della polizia di Stato che hanno materialmente arrestato il ventenne congolese, in una dimostrazione plastica che un conto è trovarsi in 4 contro una, e tutto un altro vedersela con agenti, uomini e donne addestrati.
Ma non sono le sole protagoniste femminili di questa vicenda che si è chiusa, almeno per le indagini, in modo indiscutibilmente positivo: anche il pm della procura dei minori di Bologna, competente per l’inchiesta, è una donna, Silvia Marzocchi.
L’unico suo commento ufficiale è sul comportamento dei quattro giovanissimi: «Turpi, brutali e ripetuti atti di violenza», come ha scritto nel decreto di fermo dei tre minorenni, i due fratelli marocchini di 15 e 17 anni e il 16enne nigeriano che ora sono detenuti nel carcere minorile del Pratello, a Bologna.
Poi, alla richiesta di un commento sul ruolo delle inquirenti in questa vicenda, si rifiuta di fare dichiarazioni “di genere”: «Non ho granchè da dire al riguardo, sono un pm e faccio le indagini, non mi sembra importante che si sia donna o uomo, siamo persone che fanno il proprio lavoro».
Il modo migliore per significare che la parità  dei sessi comincia proprio da qui: non c’è nulla di speciale nell’appartenere all’uno o all’altro, purchè non si perda di vista l’obiettivo finale.
Ma a vedere il sorriso stampato sul volto delle agenti che ieri circondavano Guerlin Butungu, l’impressione era che, oltre alla soddisfazione per un arresto importante, ci fosse la consapevolezza di aver chiuso un cerchio.

(da “La Stampa”)

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