Dicembre 1st, 2018 Riccardo Fucile
LA CIFRA INTERA SARA’ EROGATA SOLO A 450.000 PERSONE E NON A 5 MILIONI COME PROMESSO
L’assegno pieno da 780 euro del reddito di cittadinanza sarà erogato a non più di 450 mila
persone su una platea potenziale di 5 milioni.
Per il resto, si spera di risparmiare qualcosa non tanto con lo slittamento dell’avvio del provvedimento, quanto con una capillare verifica sui redditi dei potenziali beneficiari, per scoprire evasione fiscale e lavoro in nero.
Il Messaggero oggi cita fonti del ministero dello Sviluppo per spiegare che 4,2 miliardi dello stanziamento totale dovrebbero andare quindi a un decimo (scarso) dell’intera platea potenziale di cinque milioni.
Il Sole 24 Ore invece oggi conferma le stime di 500 euro come importo medio del reddito di cittadinanza per ciascun nucleo familiare: il REI del governo Gentiloni si fermava a 305 euro mensili (per una platea più ristretta).
Non è affatto detto, però, che lo schema di articolato sul reddito di cittadinanza trasmesso all’Economia non venga ulteriormente rivisto, alla luce delle osservazioni attese dai tecnici della Ragioneria generale dello Stato.
La coperta è già corta. Il fondo in manovra ammonta attualmente a 9 miliardi per il 2019: 7,1 per il reddito, 900 milioni per le pensioni di cittadinanza e un miliardo per la riforma dei centri per l’impiego.
Il decollo in primavera (da marzo le domande, da aprile i sussidi), secondo i consulenti del ministro Di Maio, permetterebbe di risparmiare 2,25 miliardi.
Ma potrebbero servirne di più, se durante la trattativa per sventare la procedura di infrazione avviata dalla Commissione Ue risultasse necessario dirottare ancora più risorse dalle spese agli investimenti, in particolare a quelli scomputabili dal deficit.
(da “NextQuotidiano”)
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Dicembre 1st, 2018 Riccardo Fucile
PARLAMENTO COMPLICE DEL LAVORO NERO… IL COSTO MEDIO ORARIO E’ SCESO DA 16 A 8 EURO, L’EVASIONE E’ ARRIVATA A 110 MILIARDI
Un paese pieno di ingiustizie, ma intanto è facile dare ai migranti la colpa di tutti i mali: i lavoratori vessati in tutti i settori produttivi del Paese.
Il costo medio orario scende da 16 euro a 8. L’evasione tributaria e contributiva sfiora i 110 miliardi (108,9): vale a dire 1/20 del nostro debito pubblico”.
A evidenziarlo il presidente dell’Alleanza delle cooperative italiane, Maurizio Gardini, insieme ai copresidenti Mauro Lusetti e Brenno Begani in occasione della prima edizione della Biennale della cooperazione a Bologna.
“Il Parlamento – aggiungono – non sia complice del lavoro nero”. E per questo “chiediamo il ripristino delle sanzioni penali relative all’appalto illecito di manodopera e la difesa della liquidazione coatta amministrativa. Entrambe le misure sono state ‘annacquate’ nella scorsa legislatura. Non è accettabile. Chi compie gravi illeciti nel lavoro deve essere punito, perchè mortifica i lavoratori, droga l’economia, avvantaggia i delinquenti ed estromette gli onesti”.
Fra le voci più rilevanti dell’evasione, sottolinea ancora l’Alleanza delle cooperative, “ci sono l’Iva per 35,3 miliardi di euro, il mancato gettito dell’Irpef derivante da lavoro e impresa, pari a 37,6 miliardi, mentre la sola Irap fa registrare una mancata contribuzione di 7,6 miliardi. Il mancato versamento dei contributi, invece, risulta pari a 2,6 miliardi per il lavoratore dipendente e a 8,5 per il datore di lavoro”
Tra i 3,3 milioni di lavoratori sfruttati dalle “false imprese – aggiungono Gardini, Lusetti e Begani – ce ne sono 100.000 vessati nelle false coop. E’ in questo contrasto all’illegalità che si colloca l’impegno dell’Alleanza delle cooperative italiane, a fianco delle istituzioni. Anche altri settori dovrebbero interrogarsi e adoperarsi. Noi facciamo la nostra parte, chiediamo di inasprire, con l’estensione delle sanzioni penali, la ‘lotta alle false cooperative’ costituite solo per sfuggire alle norme che tutelano il lavoro. La lotta alle false cooperative e alle imprese sfruttatrici di lavoro si combatte anche con misure che colpiscano la committenza, perchè chi utilizza le false coop e le false imprese è altrettanto responsabile e perseguibile. Su questo versante vorremmo sentire i sindacati più in prima linea insieme a noi e agli organi di vigilanza”.
Per rendere “ancora più efficace” l’attività di vigilanza, l’Alleanza delle coop chiede, inoltre, “l’istituzione di un Organismo unico di regolazione e di governo dell’attivita’ di vigilanza con la collaborazione tra tutti i soggetti: Pa, Centrali cooperative, Agenzia delle Entrate, Ispettorato nazionale del lavoro, Banca d’Italia”.
La promozione della cultura della legalità “è una grande opportunità . L’illegalità altera la concorrenza, danneggia l’economia, mortifica le persone. Riteniamo fondamentale – conclude la nota – calendarizzare in Parlamento la lotta contro le false coop”.
(da Globalist)
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Dicembre 1st, 2018 Riccardo Fucile
SE LE PRIMARIE LE VINCE ZINGARETTI ESCE ALLO SCOPERTO, SE VINCE MINNITI ASPETTA
Dopo l’articolo sul Corriere della Sera, il Fatto Quotidiano oggi torna sul presunto partito (o
movimento) di Renzi, raccontando che l’ex premier si trova ancora nell’indecisione perchè è impossibile per lui prevedere l’esito delle primarie del Partito Democratico, che potrebbe dare un’accelerata (in caso di vittoria di Zingaretti) o una frenata decisiva al progetto:
I piani si incrociano e si confondono, perchè la strategia viene ritarata, un giorno dopo l’altro. Renzi, da una parte guarda al governo. Se dura, l’idea è quella di lanciare una lista già per le Europee. Se invece l’orizzonte sono le Politiche a breve, si può aspettare. Poi, c’è la questione congresso: se Marco Minniti si fa commissariare (e vince), allora diventa meno urgente uscire dal Pd.
Questi sono i ragionamenti. Ma come e cosa fare, l’ex premier non l’ha deciso ancora, ma ha invece chiaro che lo spazio da occupare è quello di un soggetto di centro, “liberale”.
Si parte da Forza Italia. Renzi e i suoi parlano con tutti, a partire da Niccolò Ghedini e Paolo Romani. Gli interlocutori sono quelli di sempre: da Luca Lotti a Maria Elena Boschi, passando per gente come Lorenzo Guerini e Antonello Giacomelli.
La squadra in campo lavora su più tavoli.
Ivan Scalfarotto (ex sottosegretario della Boschi) gestisce i Comitati civici. Sono arrivati a circa 500: una riserva a cui attingere, per attirare elettori moderati. Comitati della nazione. Ad aiutare lui (e Roberto Cociancich, il tesoriere) è Mattia Peradotto, il giovane collaboratore di Francesco Bonifazi, da lui portato pure nella Fondazione Eyu.
La Boschi intrattiene relazioni trasversali, quelle strette negli anni di Palazzo Chigi, da Gianni Letta a Paolo Romani.
Peraltro, mantiene qualche pedina in luoghi cruciali: come il suo ex capo di gabinetto, Cristiano Ceresani, ora con Lorenzo Fontana.
Lotti ha il compito di marcare stretto Marco Minniti, per commissariarlo: vuol fare il coordinatore della mozione, l’altro resiste.
(da “NextQuotidiano”)
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Dicembre 1st, 2018 Riccardo Fucile
ALLA FACCIA DELLO SVILUPPO… LE PICCOLE AZIENDE SOFFRONO PER LA MANCATA INTRODUZIONE DELL’IRI, LE GRANDI PER LE MANCATE DEDUZIONI SUGLI AMMORTAMENTI
In attesa di capire dove porterà la trattativa con la Ue che dovrà per forza di cose modificare radicalmente l’impianto della Manovra di bilancio, la Cgia di Mestre si unisce al coro di rilievi già intonato dalla Confindustria e denuncia che – allo stato attuale – dalla legge di Bilancio deriva un prelievo fiscale netto di oltre 6 miliardi a carico delle imprese.
La maggior parte di questi denari – 4,5 miliardi circa – sono in capo alle imprese non finanziarie e quasi 1,8 miliardi a carico di banche e assicurazioni.
Secondo l’Ufficio studi della Cgia, “tra nuove misure che appesantiranno la tassazione, la rimozione/differimento di altre che avrebbero dovuto essere applicate e l’introduzione di novità che invece alleggeriranno il prelievo, nel 2019 le imprese italiane subiranno un incremento di gettito di 6,2 miliardi di euro”.
L’impatto è visto in calo negli anni seguenti: nel 2020 “la crescita del prelievo si ridurrà a soli 374 milioni di euro, per cambiare completamente segno nel 2021, quando il sistema delle imprese, le banche e le assicurazioni beneficeranno di una diminuzione del prelievo fiscale per un importo di circa 1 miliardo di euro”.
L’occasione dei calcoli è colta dagli artigiani veneti per ricordare come “il malumore che serpeggia tra il mondo delle imprese trova una parte di giustificazione nei risultati che emergono da questa ricerca. In campagna elettorale, in particolar modo al Nord, oltre al tema della sicurezza e allo smantellamento della legge Fornero, Lega e 5 Stelle hanno riscosso un forte consenso tra gli elettori perchè si erano impegnati a tagliare pesantemente le tasse. Se con questa manovra e col decreto sicurezza una buona parte di questi impegni è stata mantenuta, sul fronte della riduzione delle imposte, invece, le aspettative, in particolar modo dei piccoli e medi imprenditori, sono state clamorosamente disattese”.
Aspettative tradite, dunque, che assumono un peso specifico ancora maggiore in un contesto di economia in rallentamento, come certificato venerdì dall’Istat che ha registrato il primo segno negativo per il Pil italiano nel terzo trimestre, cosa che non accadeva da oltre quattro anni.
“Certo — segnala il segretario della Cgia, Renato Mason — con la legge di Bilancio attualmente in discussione alla Camera è stata introdotta la flat tax a favore dei lavoratori autonomi con ricavi inferiori a 65 mila euro all’anno. Nonostante ciò, nel 2019 l’alleggerimento fiscale sarà di soli 331 milioni di euro. Un piccolo passo nella giusta direzione che, comunque, rimane ancora del tutto insufficiente, anche se a regime il risparmio di imposta sarà di 1,3 miliardi di euro”.
Dall’analisi delle signgole voci, dettagliano gli artigiani di Mestre, emerge che nel 2019 la misura più negativa per le imprese è l’abrogazione dell’Iri (nuova imposta sui redditi delle società di persone con aliquota al 24 per cento) che, dopo una serie di slittamenti avvenuti nella scorsa legislatura, doveva entrare in vigore l’anno prossimo. La mancata introduzione di questa nuova imposta non consentirà a queste piccole imprese in contabilità ordinaria di ridurre il carico fiscale per un importo di quasi 2 miliardi di euro.
Le grandi imprese, invece, subiranno un aggravio di gettito importante, a seguito del differimento sia della deducibilità delle quote di ammortamento relative al valore dell’avviamento (art. 87), sia della deducibilità delle riduzioni del valore dei crediti e altre attività finanziarie (art. 85). Se la prima misura costerà alle aziende 1,3 miliardi di euro, la seconda, invece, quasi 1,2 miliardi.
(da agenzie)
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Dicembre 1st, 2018 Riccardo Fucile
SERVONO 75 MILIARDI L’ANNO PER RESTARE ENTRO I 2 GRADI DI RISCALDAMENTO, MA C’E’ TROPPA IGNORANZA IN GIRO
Da quando abbiamo cominciato a guardare i termometri (più o meno un paio di secoli) ci sono
stati solo tre anni più caldi del 2018, certifica la World Meteorological Organization.
Quel che è peggio, i venti anni più caldi sono stati tutti dopo il 1996.
Quanto basta a dire che Macron sarà antipatico a molti, ma, nello scontro con i “gilet gialli”, ha ragione lui.
Molto, probabilmente, si può fare per attutire l’impatto delle misure per l’efficienza energetica sulle fasce più deboli della popolazione, come il cameriere che viene a lavorare in un ristorante in città , evocato da Pierluigi Bersani, ma la direzione è quella giusta.
Rottamare le vecchie auto e sostituirle con macchine più efficienti è una leva fondamentale per garantire a figli e nipoti un mondo meno bollente e meno inquinato. E nessuno ha mai detto che sarebbe stato gratis.
Anzi, l’Unione europea ha provato, in un rapporto uscito in questi giorni, a stendere il conto. E’ un conto assai salato.
Se gli europei vogliono fare la loro parte per salvare il mondo, devono prepararsi a investire pesantemente in nuove energie e in nuove infrastrutture, sborsando da un minimo di 75 miliardi ad un massimo di 290 miliardi di euro l’anno, a seconda degli obiettivi, da qui al 2050.
Che non usciranno dal nulla, precisa Bruxelles, ma, in buona sostanza, dalle tasche di famiglie e imprese, sotto forma di tasse (come quelle di Macron sui carburanti) o di bollette.
L’equivalente di una cifra fra 150 e 600 euro l’anno, in media, per ogni europeo.
Sono un sacco di soldi e la forchetta è assai ampia. Questo perchè la Commissione non ha precisato degli obiettivi (saranno i singoli governi e il nuovo Parlamento di Strasburgo a dover decidere), ma ha fissato i paletti entro cui muoversi. Eccoli.
Se nessuno fa niente, la temperatura del globo (media, ai tropici e nel Mediterraneo sarà di più) sarà nel 2100 più calda di 3 gradi rispetto agli anni prima della rivoluzione industriale, un risultato, fra inondazioni e deserti, che gli scienziati definiscono catastrofico.
Volete contenere l’aumento – come caldeggiato alla conferenza di Parigi, tre anni fa – entro 1,5 gradi?
Bisogna far scendere a zero le emissioni entro il 2050. Stiamo andando, oggi, troppo piano.
Le emissioni, in Europa, sono scese del 22 per cento fra il 1990 e il 2017 e si riuscirà solo a contenerle del 40 per cento entro il 2030.
Per trovare il ritmo giusto, occorre investire nella nuova energia (elettricità con vento e sole, auto elettriche, isolamento degli edifici) fra 175 e 290 miliardi di euro l’anno. Vogliamo, invece, incrociare le dita e accontentarci di fermare il riscaldamento a due gradi, l’obiettivo minimo indicato a Parigi?
Le emissioni di Co2 vanno ridotte, entro il 2050, dell’85 per cento. Costo: investimenti fra 75 e 175 miliardi di euro l’anno.
Ma non sono solo soldi a perdere. Al contrario.
Un’energia più efficiente ha anche un ritorno sotto forma di soldi. Arrivare a emissioni zero significa abbattere del 70 per cento le importazioni di petrolio e gas, che oggi costano 266 miliardi di euro l’anno.
Sono 2-3 mila miliardi di euro di risparmi, da qui al 2050, che potrebbero essere, man mano, investiti per la modernizzazione dell’economia e per ridurre l’impatto dei costi della transizione energetica, aiutando, ad esempio, il cameriere di Bersani a rottamare il suo diesel.
Purtroppo, l’Europa, pur con i suoi ritardi, è un paradigma di virtù, isolato in un mondo che – Usa in testa – continua ad aumentare (più 10 per cento nel 2017) le emissioni globali di gas serra.
E, infatti, l’Onu calcola che, per rientrare anche solo nel tetto di 2 gradi al 2100, l’economia mondiale dovrebbe triplicare gli sforzi attuali di contenimento delle emissioni. In più, l’orologio ticchetta: se non si riesce ad imprimere alla produzione di gas serra una svolta verso il basso entro il 2030, l’obiettivo di 1,5 gradi sarà per sempre fuori portata.
Fossero tutti efficienti come sono già gli automobilisti europei, il mondo risparmierebbe il 6 per cento del petrolio che consuma oggi.
Il problema è che l’eccesso di virtù è faticoso. E finisce che uno apre il cofano e tira fuori il gilet giallo.
(da “La Repubblica”)
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Dicembre 1st, 2018 Riccardo Fucile
AVEVA 94 ANNI, IL RICORDO DI OBAMA: “UN GRANDE PATRIOTA”
E’ morto l’ex presidente americano George H.W. Bush. Aveva 94 anni.
Bush padre è stato il 41 º presidente Usa dal 1989 al 1993. Lo ha reso noto il figlio George W. Bush, presidente degli Stati Uniti per due mandati, con una nota.
Nello scorso aprile era morta all’età di 93 anni la moglie Barbara. La coppia era sposata da 73 anni.
Il portavoce della famiglia Bush, Jim McGrath, ha spiegato che l’ex presidente, che da anni soffriva del morbo di Parkinson ed era costretto su di una sedia a rotelle, è deceduto poco dopo le 10 di sera di venerdì.
George H. Bush, eroe della seconda guerra mondiale e alla Casa Bianca dal 1989 al 1993, nel periodo della fine della Guerra fredda, visse il suo momento più alto di popolarità con la Guerra del Golfo del 1991, quando gli Usa sconfissero l’Iraq dopo l’invasione del Kuwait.
Popolarità che fu poi travolta dalla crisi economica di quegli anni che lo condannò ad essere presidente di un solo mandato. A sconfiggerlo nelle urne fu Bill Clinton.
Negli ultimi anni era stato ricoverato più volte, ma era sempre riuscito a riprendersi, non nascondendo in diverse occasioni anche la sua avversità verso le posizioni dell’attuale presidente Donald Trump, che alle primarie del 2016 sconfisse l’altro suo figlio, Jeb Bush
Cordoglio è stato espresso da Donald Trump e dalla moglie Melania in una dichiarazione diffusa dall’Argentina, dove il presidente sta partecipando al vertice G20.
“Ha ispirato – queste le parole di Trump – generazioni di americani”. “Con giudizio, buon senso e impassibile leadership Bush ha guidato il nostro Paese e il mondo verso una pacifica e vittoriosa fine della Guerra fredda”, scrive Trump. “Il suo esempio continuerà a ispirare gli americani a perseguire le cause più giuste”, conclude il presidente americano.
Immediata la reazione dei suoi successori democratici, Bill Clinton e Barack Obama che ha twittato il suo ricordo: “Abbiamo perso un patriota e un umile servitore dell’America”. “Sarò per sempre grato per l’amicizia creata”, è il messaggio dell’ex presidente Clinton che ha aggiunto: “Pochi americani sono stati, o saranno mai, in grado di eguagliare il primato del servizio di Bush per l’America e la gioia che ne traeva”.
Tra i primi a manifestare la commozione per la scomparsa di Bush sr anche l’ex governatore della California, Arnold Schwarzenegger: “Questa sera dovremmo tutti prenderci un minuto per guardare al cielo e offrirgli un silenzioso ringraziamento”.
E l’attrice Goldie Hawn: “Un essere umano autenticamente amorevole che non ha mai nascosto la sua verità “. Poi le parole di Tim Cook, ceo di Apple: “Abbiamo perso un grande americano. Ha insegnato a tutti la leadership, il sacrificio e il decoro”.
Anche l’ex presidente dell’Unione Sovietica Mikhail Gorbaciov ha espresso profonde condoglianze per la morte di Bush. “Le mie profonde condoglianze alla famiglia di George Bush e a tutti i cittadini statunitensi per la scomparsa del 41 presidente degli Stati Uniti”, ha dichiarato l’ex capo del Cremlino.
“Ho molti ricordi di quest’uomo, abbiamo avuto l’opportunità lavorare insieme durante l’era dei grandi cambiamenti. E’ stato un periodo drammatico, che ha richiesto a tutti di essere tremendamente responsabili. Il risultato è stato la fine della guerra fredda e della corsa agli armamenti nucleari”, ha detto Gorbaciov.
“Rendo omaggio al contributo di George Bush a questo accordo storico. Era un vero partner”.”Raisa Maksimovna e io abbiamo sempre apprezzato l’attenzione, amabilità e facilità nella comunicazione caratteristica di George e Barbara Bush, di tutta la loro grande e famiglia”.
L’ex presidente sovietico si dice fiducioso che “il ricordo di George Bush, come statista e come uomo, rimarrà a lungo nel cuore di molte persone per molto tempo”.
(da agenzie)
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Dicembre 1st, 2018 Riccardo Fucile
CON LE BANCHE CENTRALI E I GRANDI FONDI IN RITIRATA
“Il Mef comunica che, in considerazione dell’ampia disponibilità di cassa e delle ridotte esigenze di
finanziamento, le aste di titoli a medio-lungo termine previste per il giorno 13 dicembre 2018 non avranno luogo“. Secco, asciutto, essenziale.
Il comunicato con cui il ministero dell’Economia e delle Finanze annunciava la cancellazione delle emissioni previste per metà dicembre, ovviamente, non tradiva allarmismo. Come da prassi.
La giustificazione addotta, poi, è di quelle buone per ogni stagione. Come una giacca blu che va su tutto.
Certo, quando però lo spread è stato in altalena fino all’altro ieri e di fronte a te, oltre a un contenzioso da ricomporre con la Commissione Ue, hai necessità di finanziamento per oltre 400 miliardi per il 2019, cui devi far fronte senza più gli acquisti della Bce, i cattivi pensieri emergono e stuzzicano.
Soprattutto, quando si pensa che il 13 dicembre si terrà la riunione del board della Bce e nel primo pomeriggio Mario Draghi parlerà con la stampa per illustrarne i contenuti.
Fino a un mese fa, nessuno aveva particolari attese al riguardo: la fine del Qe era certa, così come un più che probabile primo aumento dei tassi nel secondo semestre dell’anno prossimo.
Ora, però, qualcosa pare tornato in discussione e il mercato comincia a guardare a quel giorno con interesse e, con il passare delle ore e l’approssimarsi dell’appuntamento, con un po’ di apprensione.
L’attesa di tutti non è certo quella di prolungamento sic et simpliceter del programma di acquisto come finora intrapreso ma almeno un paio di alternative vengono prezzate: aste di rifinanziamento a lungo termine per le banche e una qualche alchimia all’atto del reinvestimento dei titoli già in detenzione all’Eurotower, ad esempio uno swap fra scadenze brevi e lunghe per garantire ancora un po’ di scudo anti-spread ai debiti più sensibili.
Leggi, Italia, Spagna e Portogallo. Ecco che allora andare in asta con titoli a medio-lungo termine a poche ore dalla decisione della Bce avrebbe potuto rappresentare un azzardo, di quelli politicamente pesanti.
Un eventuale flop con rendimenti troppo al rialzo, infatti, avrebbe un potenziale psicologico in grado di rovinare il Natale e, certamente, di non spianare la strada alle ultime emissioni dell’anno, quelle del 27 e 27 dicembre (rispettivamente Bot e Ctz e medio-lungo termine).
Ma al netto dei trucchi, quanto c’è da preoccuparsi per il 2019, se davvero la Bce non dovesse garantire un minimo di supporto, anche indiretto? Quali sono le prospettive dell’appetito obbligazionario per l’anno prossimo?
A dare un risposta al quesito, analizzando le cifre del 2018 e le dinamiche post-Qe globale, ci ha pensato JP Morgan nel suo ultimo report, il quale non pare proprio offrire il cosiddetto silver lining alle speranze del governo italiano di poter collocare debito senza troppi patemi d’animo e, soprattutto, senza svenarsi a livello di rendimenti da offrire come premio di rischio.
L’assunto di base è semplice: stante il calo da oltre 1000 miliardi di dollari degli acquisti delle quattro principali Banche centrali (G4) nel 2018 rispetto all’anno precedente, “questo minore appetito da parte dei compratori di ultima istanza (e, nel caso dell’Italia, quasi di unica istanza, ndr) sarà il key driver nel cambio di dinamica domanda/offerta per i bond governativi, con il rischio di innescare un aumento generalizzato dei rendimenti“.
Non una bella premessa.
Insomma, l’anno prossimo le operazioni poste in atto dalle Banche centrali — fra dimagramento del bilancio, fine o riduzione degli acquisti — “costringerà il mercato ad assorbire un ulteriore decremento di domanda pari a oltre 400 miliardi di dollari“. Ma, unendo l’impatto del lato della domanda con quello dell’offerta, il minor flusso garantito dalle G4 imporrà un altro calo di 550 miliardi per il 2019.
Il report, poi, si addentra ad esaminare quelli che sono i principali soggetti attivi nel mercato obbligazionario sovrano: ovvero, banche commerciali, pubblico retail, investitori istituzionali esteri e fondi pensione. E anche qui, il quadro appare tutt’altro che roseo.
A partire proprio dalle banche commerciali, di fatto il polmone d’acciaio cui sono legate le emissioni di debito del Tesoro, stante l’accertata fuga di investitori stranieri e lo stop del Qe.
Già oggi il cosiddetto doom loop fra istituti di credito e detenzioni di debito sovrano rappresenta la criticità maggiore del sistema Italia, non a caso bersagliato dai mercati che, al minimo accenno di tensione politica, accoppiano all’azione sullo spread quella sul sistema bancario, duramente colpito a Piazza Affari proprio per la sua eccessiva esposizione ai Btp e alla loro variazione di valore a bilancio.
Il consensus degli analisti si attendeva che quest’anno le banche commerciali avrebbero controbilanciato per circa 500 miliardi il “dimagrimento” da oltre 1.000 miliardi di dollari dei flussi della Banche centrali, stima basata sul fatto che nei cinque anni precedenti, i 7.000 miliardi di acquisti legati ai vari cicli di Qe delle Banche centrali avevano visto gli istituti di credito assorbire circa 3.000 miliardi di dollari di controvalore in bond in meno di quanto non avrebbero fatto senza programmi di stimolo.
Le ultime stime, ci dicono invece che l’effetto di controbilanciamento da parte delle banche per quest’anno sia stato solo di circa 200 miliardi di dollari rispetto al flusso di acquisti degli istituti centrali, ovvero un moltiplicatore di circa 0,2 rispetto a quello di oltre 0,4 atteso.
Dunque, se i piani delle G4 non cambieranno e se, soprattutto, la Fed non fermerà in qualche modo il suo piano di roll-off sui bond a maturazione per 50 miliardi di dollari al mese, cominciato a pieno solo nel trimestre in corso, le banche commerciali non potranno assolutamente essere viste come un controbilanciamento sufficiente a colmare il gap crescente fra domanda e offerta nel 2019.
C’è poi la clientela retail, la stessa che ha snobbato in maniera clamorosa la recente emissione del Btp Italia, inviando un pessimo segnale al governo e mostrando — seppur striminzito e senza colpi di scena — un trailer del film cui rischiamo di dover assistere il prossimo anno ad ogni asta.
Anche qui, gli animal spirits non sembrano voler entrare in azione a forza quattro. Dopo la domanda di obbligazioni superiori agli 800 miliardi di dollari di controvalore del 2017, Jp Morgan si attendeva un risultato finale più o meno simile per l’anno che sta per concludersi, non fosse altro per il periodo di transizione che ha rappresentato in seno alle dinamiche di uscita/rallentamento dai cicli di Qe.
Così non è stato, invece. Dopo la fortissima domanda registrata in gennaio, infatti, le turbolenze sui mercati dei mesi immediatamente successivi hanno portato a un netto raffreddamento degli acquisti, tanto che l’attesa per il dato finale per l’intero 2018 si attesterebbe a un poco confortante controvalore di 320 miliardi.
Si tratta del livello più basso dal 2015 e negli ultimi dieci anni, soltanto due volte — 2011 e 2013 — si era registrata una domanda così debole.
Prospettive per il 2019? Per Jp Morgan, l’attesa è quella di un incremento di circa 80 miliardi rispetto all’anno in corso: insomma, circa 400 miliardi, al di sotto della media a dieci anni di 480 miliardi. E senza più Qe a garantire sostegno price insensitive.
Ci sono poi gli investitori istituzionali esteri, di fatto le riserve valutarie dei mercati emergenti (Cina in testa) che girano per il mondo in cerca di investimenti fruttuosi e rendimenti che valgano il rischio.
Questi grafici mostrano però due cose. Primo, rispetto alle stime annualizzate dell’Fmi, relative ai dati del primo semestre e fissate in 230 miliardi di dollari, la realtà parla di una crescita delle riserve degli emergenti già in indebolimento per i secondi sei mesi dell’anno.
Per Jp Morgan, facendo riferimento alle cifre disponibili alla fine di ottobre, si parla di un calo di circa 15 miliardi di dollari, cifra che porta il ritmo di crescita annualizzato a circa 130 miliardi per l’intero 2018, qualcosa come 100 miliardi meno del 2017.
E per il 2019? Il secondo grafico parla chiaro e mette in prospettiva numerica l’impatto di quello che viene definito il driver principale nel rallentamento della domanda di bond da parte di questa categoria di investitori: la politica monetaria cinese e il contrasto all’eccessivo deprezzamento dello yuan.
Di fatto, per il prossimo anno l’attesa è per una domanda di bond sovrani pari a circa 130 miliardi di dollari, cifra che può davvero poco per controbilanciare il netto calo dell’appetito obbligazionario delle Banche centrali.
Infine l’unica nota positiva, ovvero i fondi pensione. I quali, al netto della maggior regolamentazione prudenziale e della necessità di futura supervisione negli investimenti prospettata per quelli dell’eurozona dallo stesso Mario Draghi parlando allo European Systemic Risk Board il 26 novembre, quest’anno dovrebbero presentare un dato di domanda aggregata di bond per circa 700 miliardi di controvalore, dato leggermente più alto delle attese e dovuto a un maggior appetito dei fondi pensione statunitensi, spinti all’acquisto dallo shock fiscale di Trump che consente loro di beneficiare di un tasso maggiore di sconto sulle future liabilities.
Ma al netto dell’impatto di quel taglio delle tasse, destinato a svanire entro l’estate del 2019, il dato generale per l’anno prossimo parla di domanda comunque in calo a circa 600 miliardi di dollari, ancora maggiore della media a dieci anni di 550 miliardi ma ben lontana dal potere agire da efficace offset al disimpegno delle G4.
Insomma, le dinamiche di domanda e offerta previste, al netto delle attuali politiche delle Banche centrali, fra tutte le principali categorie di investitori obbligazionari sovrani per il 2019: il deterioramento nel bilancio netto fra domanda e offerta di bond appare palese e marcato, poichè ai circa 130 miliardi di aumento stimato della prima si vanno a sommare i -350 miliardi della seconda, dovuti appunto al disimpegno delle Banche centrali.
Cifre e analisi che freddamente mettono in prospettiva le liabilities strutturali del comparto a livello mondiale che attendono il Tesoro italiano l’anno prossimo per le sue enormi necessità di finanziamento.
E che, di fatto, non contemplano l’eventuale aggravamento delle condizioni di emissione dovute a tensioni politiche interne o con l’Ue.
Qui si parla, meramente, di domanda e offerta , al netto di quanto comunicato dalle Banche centrali e dai trend a dieci anni degli investitori obbligazionari.
Il carico da novanta su quella che già pare un’impresa improba lo sta mettendo, scientemente e giorno dopo giorno, il governo giallo-verde.
Lo stesso che ha annullato l’asta a medio e lungo termine prevista per il 13 dicembre. Forse, sperando nel regalone di Natale anticipato di Mario Draghi.
(da “Business Insider”)
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Dicembre 1st, 2018 Riccardo Fucile
IL RUOLO DEI MEDIA RUSSI, LE INFILTRAZIONI DEI SERVIZI, I FINANZIAMENTI: “UN AGENTE DEL KGB NON E’ MAI UN EX”
Torna la tensione tra Mosca e Kiev, e subito sui media di Stato russi rimbalza contro il nazionalismo ucraino l’accusa di “nazismo”. Su Sputnik in particolare e su Rt .
Nel contempo, però, gli stessi media pompano massicciamente vari leader xenofobi europei, da Marine Le Pen a Salvini passando per Wilders o perfino Alba Dorata . Come è possibile questa apparente contraddizione?
Una spiegazione ce la diede nel 2017 Anton Shekhovtsov: un politologo ucraino Visiting Fellow all’austriaco Institute for Human Sciences. e uno dei più importanti esperti europei nel campo delle relazioni tra Putin e i movimenti populisti.
Come tale, il 3 giugno 2017 fece una relazione a un convegno tenutosi a Roma a cura di Atlantic Council e Istituto Gino Germani di Scienze Sociali e Studi Strategici, su “La strategia di influenza della Russia in Europa: Mosca e i movimenti populisti europei di destra e di sinistra”.
Il 30 agosto sempre del 2017 i suoi studi sono stati riversati nel libro Russia and the Western Far Right: Tango Noir, pubblicato dalla prestigiosa casa editrice britannica Routledge. Foto eloquente in copertina, Putin che stringe la mano a Marine Le Pen.
Va detto che, ben lungi dal tipico complottista che tende a gonfiare le cose, Shekhovtsov è invece un tipo di studioso rigoroso che smorza il più possibile, e tende perfino a rimproverare il giornalista che prova a strappargli dichiarazioni sconvolgenti.
“Sono uno scienziato politico che si occupa di evidenze e non di rumors”, spiega.
La Russia si è lanciata in una grande operazione di conquista dell’Europa, gli avevamo ad esempio chiesto? Ma no, risponde. Quello potrebbe essere un sogno di lungo periodo, ma attualmente la strategia russa è di tipo difensivo.
Punta più che altro a destabilizzare seminando il caos per battere sul tempo l’Occidente prima di essere a sua volta destabilizzata: una analisi che di recente è stata riproposta da un rapporto del Center for European Policy Analysis.
Però Shekhovtsov aveva insistito su due concetti.
Il primo è che Putin veniva dal Kgb, e “un agente del Kgb non è mai un ex”. Ci ricordava l’esistenza di “un prontuario di Misure Attive che i manuali del Kgb elencavano per agire contro l’Occidente, e Putin appunto agisce con le mosse di questo Manuale”.
In particolare secondo il principio: “sfruttare ogni possibile contraddizione del nemico. A un decennio dalla Grande Guerra Patriottica, l’Unione Sovietica comunista non ebbe il minimo scrupolo a finanziare gruppi neo-nazisti tedeschi, pur di ostacolare l’adesione tedesca alla Nato”.
Il secondo concetto era che gli esponenti dell’estrema destra verrebbero usati soprattutto in chiave propagandistica, più che come forza di urto diretta.
Da una parte, si dà loro spazio sui media di regime. Dall’altra, molti osservatori provenienti da questi movimenti vengono usati per dare legittimità a appuntamenti elettorali non riconosciuti dalla comunità internazionale: Abkhazia, Transnistria, l’Ossezia del Sud, Crimea, Donbass.
Spiegava Shekhovtsov: “entrambi questi strumenti servono per dimostrare all’opinione pubblica interna che non è vero che Putin è isolato, ma gode invece di vaste simpatie e appoggi in tutto il mondo”.
Una “ong governtiva” russa che che organizza monitoraggi elettorali è ad esempio l’Associazione Controllo Civico. Tra i partiti che partecipano alle sue missioni ci sono la Lega delle Famiglie Polacche, l’ungherese Jobbik, il bega Vlaams Belang, il British National Party, il bulgaro Ataka, il Pvv olandese e anche il Movimento Sociale — Fiamma Tricolore, oltre alla tedesca Linke.
Estreme destre di mezza Europa e post-comunisti tedeschi uniti dalla simpatia per Putin.
Però tutto ciò rientra nell’ambito della convergenza tattica, di fronte al comune obiettivo Unione Europea.
L’interesse di Tango Noir è che ricostruisce l’esistenza anche di un diverso approccio più strategico, che teorizza proprio l’esistenza di interessi comuni tra la destra radicale e la Russia in quanto sistema geopolitico a prescindere dal tipo di regime al potere. D’altronde, nel 1917 erano stati i Servizi del Kaiser a aiutare la Rivoluzione di Ottobre, pur di togliere gli eserciti russi dallo schieramento Alleato.
Sebbene negli anni successivi la estrema destra europea tenda a essere anti-russa, anti-sovietica e anti-comunista allo stesso tempo, non mancano i pensatori, leader e movimenti che invece guardano a Mosca con interesse.
Nella Germania di Weimar, ad esempio, c’è un movimento nazional-bolscevico. Nella Germania Ovest post- 1945 c’è un neutralismo di Estrema Destra. In particolare nel 1949 è fondato un Partito Socialista del Reich che si pone come erede del nazismo, e che in chiave anti-Usa prende posizioni filo-sovietiche. Leader del partito era Otto Ernst Remer: un ex-ufficiale della Wehrmacht che era stato ferito in combattimento nove volte, e che aveva avuto un ruolo chiave nel far fallire il complotto contro Hitler del 20 luglio 1944.
Oltre a negare l’Olocausto, dire che erano stati gli americani a costruire Dachau dopo la guerra per farci film fake e chiedere una “soluzione al problema ebraico” Remer spiegava che se l’Armata Rossa avesse invaso la Germania le avrebbe “mostrato la via del Reno”, ed avrebbe chiesto ai militanti del partito di arruolarsi come vigili del traffico, in modo da permettere ai russi di arrivare in Francia il più velocemente possibile.
Alle elezioni del 1949 il partito ottiene un deputato, cui nel 1950 se ne aggiunge un secondo. Nel maggio 1951 prende l’11% dei voti e 16 seggi in Bassa Sassonia. A ottobre il 7,7% e 8 seggi a Brema. Ma nel 1952 il Partito Socialista del Reich è il primo partito a essere messo fuori legge dal Tribunale Costituzionale Federale come nemico dell’ordinamento liberaldemocratico in base alla procedure previste dalla Legge Fondamentale.
Il secondo e ultimo sarà nel 1956 il Partito Comunista: ma poi verranno ricostuiti un nuovo partito neo-nazista chiamato Nazional-Democratico e anche un nuovo Partito Comunista che si affretterà a dichiarare la propria lealtà al sistema.
Pure fautori di un’integrazione tra un’Europa di destra e la Russia sono da un lato l’americano Francis Parker Yockey, teorico di un “European Imperium” e amico anche di Nasser. Dall’altro il belga Jean Thiriart; una ex-Ss divenuto poi ammiratore di Mao e del Black Power, teorico di un Impero Euro-Sovietico da Vladivostock a Dublino. Idee all’epoca eccentriche.
Nel 1968 un pittore che si chiama Ilya Glazunov e che è un agente del Kgb visita a Parigi un ex-militare e ex-deputato che all’epoca sopravvive venendo vinili di marce naziste e che si chiama Jean-Marie Le Pen.
Negli anni ’90 sono esponenti di una destra russa anti-Eltsin a prendere contatti con le estreme destre europee: in particolare il geopolitico Aleksandr Dugin, il leader del Partito Liberal Democratico Vladimir Zhirinovsky e Sergey Glazyev che tra 1992 e 1993 è ministro delle Relazioni Economiche Estere dello stesso Eltsin, prima di rompere con lui.
Non sono il governo russo, ma abituano certi ambienti a guardare a Mosca, ed anche a viaggiarvi. Poi dopo che Putin è arrivato al potere, vengono dopo le “rivoluzioni colorate” del 2003 in Georgia e del 2005 in Ucraina e in Kirghizistan.
Un segnale che il Cremlino si è convinto che gli occidentali stanno puntando alla destabilizzazione del regime e inizia appunto a prendere le sue contromisure può essere forse considerato nel 2008 la nomina di Dugin a professore di Sociologia all’Università di Mosca.
Ma è dopo le proteste anti-Putin del 2011-13 che l’offensiva parte. E dal 2013 un crescente numero di organizzazioni di estrema destra europee iniziano a dichiararsi filo-Putin.
In Italia nel settembre del 2013 fanno particolare impressione i manifesti del Fronte Nazionale di Adriano Tilgher “Io sto con Putin” dal fortissimo tono omofobo. Come spiega lo stesso Tilgher, “Putin ha assunto posizioni coraggiose, contro la potentissima lobby gay che, con un’azione capillare, punta quasi a colpevolizzare chi omosessuale non è, e contro le centrali finanziarie mondiali che vogliono la guerra in Siria. Noi stiamo con Putin, senza se e senza ma: un attacco in Siria aprirebbe le porte a un conflitto mondiale e la posizione russa rappresenta un argine contro l’irresponsabilità di Obama e di tutti i guerrafondai”.
Secondo Tango Noir, quando il 15 giugno 2015 al Parlamento Europeo Lega, Front National, Pvv, Vlaams Belang, Fpà¶ austriaco e AfD tedesca costituiscono il gruppo Europa delle Nazioni e della Libertà “Mosca si assicurata una struttura in gran parte ad essa fedele nel cuore della democrazia europea”.
(da “NextQuotidiano”)
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