Febbraio 2nd, 2020 Riccardo Fucile
LA VERA EMERGENZA ITALIANA SONO 1,8 MILIONI DI PERSONE A BASSISSIMO REDDITO… OCCORREREBBERO 50 MILIARDI CHE SI POSSONO DILUIRE IN 5-10 ANNI… L’IGNOBILE SILENZIO DELLA SEDICENTE DESTRA E DEL M5S SUL TEMA E LA PALLIDA ASSENZA DELLA SEDICENTE SINISTRA
Due contemporanee ricerche in corso di rinomati istituti immobiliari, Nomisma da una parte e Cresme dall’altra, entrambe dirette a rilevare la quantità e la dislocazione degli italiani che sono così poveri da non riuscire o riuscire a malapena a pagare l’affitto o la rata del riscatto di un alloggio popolare, mostrano se non altro che comincia ad affacciarsi una nuova sensibilità politica sulla questione della casa per i nuclei familiari svantaggiati. Entrambe le ricerche sono state commissionate da enti pubblici: per i partiti al governo è un’occasione unica per mettere sotto i riflettori e impostare una politica concreta a favore dei ceti più deboli.
Dopo l’abbuffata di Quota 100 per i pensionati, si potrebbe ora scoprire che le vere emergenze sono altre rispetto a quella di consentire a chi ha un lavoro di lasciarlo anticipatamente: ci sono in Italia ben 1,8 milioni di famiglie “povere” che vivono in condizioni di disagio abitativo: si considerano tali quei nuclei dove serve – per pagare l’affitto o la rata per il riscatto – più del 30 per cento delle entrate.
Non è certo che tutte le attuali 800 mila abitazioni dell’Edilizia residenziale pubblica (Erp), gestite dagli ex Iacp, vadano ad alleviare la situazione di chi si trova in uno stato di così grave disagio per un bene fondamentale come la casa.
Tuttavia, anche sottraendo questa quota, rimane circa 1 milione di famiglie che sicuramente non se la passa bene perchè fatica a tirar fuori i soldi per il canone di locazione, che può oltrepassare in certi casi anche il 50 per cento del reddito familiare, mentre ha gravi difficoltà anche per sfamare le persone che vivono in casa.
Le famiglie in povertà assoluta, circa 849.000 nel 2018, secondo il Cresme abitano per il 78 per cento in abitazioni di privati, quindi con un canone di mercato.
La vera emergenza
Di fronte a una situazione così grave, che colpisce un bene essenziale come il diritto ad avere un tetto sopra la testa, stupisce che nessun governo, negli ultimi 10 o 20 anni, abbia trovato soluzioni ragionevoli per costruire più alloggi.
Ora però qualcosa sta per cambiare: si comincia a capire che l’esasperazione delle periferie abbandonate crea un malcontento diffuso che poi si trasforma in una guerra fra poveri (di solito italiani contro immigrati) e che a sua volta finisce per rimpinguare i voti dei sovranisti
Gli amanti del laissez-faire, i liberali che pensano che debba sempre essere il mercato a risolvere tutti i problemi, qui si conviene che restino fuori dal dibattito.
Perchè è ovvio che il libero mercato della casa non può sciogliere questo nodo. I proprietari privati non possono praticare, al di là di singole generose scelte in tal senso, una drastica riduzione dei canoni per aiutare queste famiglie.
E l’evoluzione degli ultimi anni nelle città più grandi o d’arte, con il boom degli affitti brevi, ha inoltre tolto dal mercato moltissime unità , con ciò contribuendo a far lievitare i canoni di quelle rimaste.
La sola politica fiscale di incentivazione degli affitti concordati (10 per cento contro il 21 per cento di cedolare secca sugli altri) non sembra poter dare una volta.
“Per affrontare il problema – scrive Raffaele Lungarella sulla “Voce.it” – è necessario incrementare la disponibilità di case popolari, costruendone di nuove e riconvertendo a residenza gli immobili pubblici che ora hanno una diversa destinazione urbanistica. È necessario anche promuovere, con l’impiego di risorse più adeguate di quanto fatto finora, programmi di recupero e messa a norma degli alloggi che ne hanno bisogno per evitare che restino sfitti per lunghi periodi, con il rischio che siano occupati abusivamente. Tutto questo sarebbe inutile se si continuasse a consentire l’alienazione del patrimonio esistente”.
I piani del passato
L’Italia ha in passato dimostrato di saper attivare risorse per cercare di dare a tutti una casa. Il piano Gescal (finanziato con una piccola ritenuta su tutte le buste paga), il piano Fanfani, sono progetti di cui tutti conservano un seppur vago ricordo familiare, e contribuirono nell’Italia degli anni 50 e 60 a dare a molte famiglie bisognose l’accesso all’affitto o alla proprietà della casa.
Successivamente, però, la questione-casa è andata perdendo centralità nella discussione politica e sociale. Inoltre, non soltanto è cessato a un certo punto l’afflato per la costruzione di nuovi alloggi, ma ne è stata fatta scomparire una larga fetta.
Il processo di dismissione del già scarso patrimonio pubblico ha tolto dal mercato “protetto” circa 200 mila unità tra il 1993 e il 2001, grazie alla Legge Nicolazzi che facilitò la vendita di parte del patrimonio agli inquilini.
Intanto, le famiglie con disagio non sono affatto diminuite. Anzi, sono leggermente aumentate negli anni dopo la crisi del 2008, sebbene non così tanto da modificare i termini della questione.
Guardando i grandi numeri la situazione, a partire dagli anni 2000 in poi, resta a grandi linee abbastanza statica. Sia la popolazione totale che le famiglie povere sono, sostanzialmente, più o meno le stesse. E negli ultimi 40 anni la popolazione italiana è aumentata soltanto di pochissimo: eravamo 56 milioni nel 1980, ora siamo poco più di 60 milioni.
Vuol dire circa il 7 per cento circa in più in un lasso di tempo così lungo. Possiamo quindi considerare abbastanza statica la popolazione italiana, anche se dobbiamo registrare una diminuzione degli italiani autoctoni e un aumento dei cittadini provenienti da altri paesi. Anche la quota di 1,8 milioni di famiglie a disagio abitativo sono più o meno le stesse almeno negli ultimi 10 anni, sebbene la quota di stranieri regolari e con il diritto a entrare nelle graduatorie per una casa pubblica sia aumentata (gli italiani sono il 67 per cento secondo Nomisma).
Servono soldi veri
Perchè allora non si è fatto finora nada de nada? Già , è questo il punto. È ovvio che per fare qualcosa non bastano in questo caso le chiacchiere (e non è strano che neppure Salvini, nella sua fantasiosa ricerca di temi da imporre a 360 gradi nella sua eterna propaganda politica se ne sia tenuto sempre lontano), ma servono fatti.
E per avere dei fatti occorrono soldi veri. Quanti? I conti, a grandi linee, son presto fatti. Se si dovessero costruire, tutte insieme e subito, 1 milione di case mancanti, a 50 mila euro l’una (ma qualcuno dice 100 mila…), servirebbero almeno 50 miliardi.
Una cifra insostenibile, che nessun governo potrebbe mai pensare di mettere in campo in una sola volta. In realtà basterebbe soltanto cominciare a costruirle perchè una parte dell’investimento sarebbe poi recuperato attraverso i canoni che, seppur bassi, non sono inesistenti.
Cominciare: una parola che non piace in genere ai politici, che preferiscono spendere quei pochi soldi che ci sono in cose che si vedono subito.
Ma qui occorre fare un salto di qualità perchè la gente non è scema: se si riuscisse a far decollare un programma pluriennale del genere chi lo crea potrebbe spiegare che ci vorranno molti anni per vederlo finito, anche quando il suo governo non ci sarà più. Sarebbe tuttavia sicuro che la gente lo capirebbe. Perchè la casa è come la Tara di Via col Vento, è una cosa che dura. E si ricorda.
Dove mancano le case
Per sapere dove si dovrebbe costruire o recuperare patrimonio da destinare a edilizia popolare, si dovrebbe prima di tutto sapere in quali precise aree l’emergenza sia più sentita.
“I cittadini a cui mancano le risorse per avere una casa in affitto a canone calmierato – spiega Luca Dondi, amministratore delegato di Nomisma, che sta completando un aggiornamento della ricerca già svolta nel 2016 per Federcasa, la federazione degli ex Iacp – sono distribuiti sul territorio in maniera omogenea, contrariamente a ciò che si pensa. Se non vi sono dubbi che il fenomeno sia più accentuato nei grandi centri, dall’analisi non sembrano emergere zone franche, con una diffusione che interessa anche capoluoghi di medie dimensioni e centri minori”. Insomma, quelle famiglie disagiate che abbiamo fatto finta di non vedere sono dappertutto, intorno a noi, nei grandi ma anche nei piccoli centri. E sarà interessante vedere se la ricerca di Nomisma, e anche quella del Cresme, saranno in grado di fare completa chiarezza sulla distribuzione geografica del bisogno. Un primo passo in avanti.
I progetti concreti
Ma, come si diceva prima, se a mancare finora è stata la volontà politica, di certo – anche se questa fosse recuperata – l’elemento-chiave sono i soldi.
Nessuno può pensare di risolvere in un sol colpo il problema, ma secondo Luca Talluri, presidente di Federcasa, si potrebbe dare inizio a un programma di interventi “per almeno 300 mila case popolari da affiancare alle attuali. Con l’aggiunta di una gestione efficace ed efficiente degli enti (cosa che accade già oggi in molte parti d’Italia), che permetta bassa morosità , poche occupazioni e rotazione di alloggi in funzione delle esigenze reali (inutile che un anziano abbia 4-5 stanze)”.
Da dove pescare i soldi che servono? Di certo non da un aumento della pressione fiscale, che sarebbe insostenibile (e forse politicamente improponibile): “Per questo motivo – spiega Dondi – occorre intanto cominciare con uno stanziamento significativo, a cui un domani si potrebbero aggiungere lievi prelievi sulle buste paga come fu fatto in passato con Gescal e Piano Fanfani”.
“I soldi – sostiene Talluri – possono essere messi con il classico fondo perduto (Gescal o altro, nazionale o regionale…insomma, scelgano al Mef) oppure fondi stile Bei (Banca europea degli investimenti, Ndr) da restituire con garanzia dello Stato, ma in questo caso permettendo di costruire nelle singole operazioni non soltanto case di edilizia residenziale pubblica ma anche di edilizia sociale (per le classi medie che hanno comunque difficoltà ad accedere all’acquisto, Ndr) e alloggi-volano per l’emergenza abitativa: in questo modo si potrebbe avere una redditività che consentirebbe di restituire parte della somma investita”.
La politica ha cominciato a percepire l’importanza di dare una risposta ai bisogni abitativi della fascia sociale più debole.
Non è un caso che il governo abbia stanziato un piano con 850 milioni di euro, da distribuire fra mille rivoli e solo in piccola parte al sostegno alla costruzione di nuovi edifici.
Troppo poco, e sicuramente troppo poco mirato. Se crescerà la consapevolezza, grazie anche al bisogno primario dei partiti di non perdere l’elettorato delle periferie, forse un nuovo Piano Casa potrà essere rilanciato
Con la certezza che forse non sarà possibile eliminare del tutto la povertà , come pensava ingenuamente Luigi Di Maio con il reddito di cittadinanza, ma che con un serio programma pluriennale sulla casa si potrà eliminare almeno la perenne emergenza abitativa.
(da “Huffingtonpost”)
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Febbraio 2nd, 2020 Riccardo Fucile
IL LEGHISTA ANNUNCIA ANCHE UNA “PASSEGGIATA” A BALLARO’, IL QUARTIERE POPOLARE DEL CAPOLUOGO, PREVISTE CONTESTAZIONI
“La Sicilia non si Lega”: è questo lo slogan che ricorre su numerosi striscioni comparsi in giro per Palermo alla vigilia della visita di Matteo Salvini, in programma domani pomeriggio in città .
Dalla zona Malaspina-Palagonia, alla stazione centrale, passando per corso Tukory e arrivando fino a Portella di Mare, a Misilmeri (in provincia), sono comparsi lenzuoli ai balconi per protestare contro l’arrivo del leader della Lega, che alle 18.30 terrà un evento pubblico al Teatro Al Massimo.
Ma pare sia prevista prima una passeggiata dell’ex ministro a Ballarò.
La protesta è stata lanciata dalle Sardine di Palermo. “Apprendiamo dalla stampa che il segretario della Lega Nord prima dell’incontro al teatro Al Massimo compirà una passeggiata a Ballarò – scrivono sulla loro pagina Facebook -. Ci domandiamo se abbia reale contezza della realtà nella quale andrà a svolgere la consueta campagna elettorale permanente. Al netto dei diversi problemi che l’affliggono, Ballarò è un quartiere dove operano diverse realtà sociali che hanno fatto dell’integrazione un valore imprescindibile, un quartiere figlio della tradizione sicula e ricco di culture diverse che la animano e la caratterizzano”.
Organizzato anche un “silent” flash mob in piazza Verdi, più o meno alla stessa ora dell’evento di Salvini al teatro Al Massimo, dal titolo: “Citofona a Salvini per regalargli una copia della Costituzione”.
(da agenzie)
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Febbraio 2nd, 2020 Riccardo Fucile
“E’ TEMPO DI UNA RIFORMA ORGANICA DELLA GIUSTIZIA”
“Se in principio c’è stata perplessità per il metodo in cui è stato dato il via libera alla riforma della prescrizione di Bonafede e, subito dopo, c’è stato sconcerto per il compromesso che il governo pretendeva di raggiungere distinguendo condannati e assolti in primo grado, oggi posso dire che da parte mia c’è amarezza”.
E l’amarezza di cui parla Giovanni Maria Flick riguarda la “profonda crisi”, per usare parole sue, della giustizia.
All’indomani dell’inaugurazione dell’anno giudiziario e delle cerimonie fatte in corte di Cassazione prima e nelle corti d’Appello poi, resta l’allarme lanciato dal primo Presidente della Suprema corte sul “carico insostenibile” che nei prossimi anni potrebbe gravare sulle sezioni penali della Cassazione se alla riforma entrata in vigore il primo gennaio non dovesse aggiungersi un intervento più organico in materia. E restano due immagini: la prima arriva da Milano, la seconda da Napoli.
Nel capoluogo lombardo gli avvocati, in polemica con la presenza di Piercamillo Davigo, chiamato a rappresentare il Csm, sono usciti dall’aula portando dei cartelli in mano. Sui fogli i richiami a tre articoli della Costituzione. A Napoli, invece, i legali hanno sfilato con la toga sulle spalle e le manette ai polsi, in polemica con la ‘nuova’ prescrizione voluta dai 5 stelle. Sono immagini che per il professor Flick, già Guardasigilli, presidente emerito della Corte costituzionale, restituiscono l’idea di un “battibecco un po’ indecoroso”. Lo scontro tra magistrati e avvocati per Flick è che la conseguenza dell’attitudine a “non affrontare i temi della giustizia in maniera globale, limitandosi a interventi singoli o, addirittura, a lavorare sulle questioni partendo non dalla testa ma dalla coda”.
Professore, il primo presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Mammone, ha lanciato un allarme: senza correttivi, la riforma della prescrizione metterà in crisi la Suprema Corte, perchè la graverà di carichi di lavoro insostenibili. Cosa ne pensa?
Il presidente ha espresso una serie di critiche di merito molto articolate sulla nuova legge. E, soprattutto, ha ribadito un concetto mai abbastanza sottolineato: è dalla fine degli anni ’90 che non sono state fatte riforme di carattere organico della giustizia. Ci sono stati solo interventi settoriali, frammentari, che lasciano permanere le criticità . Il presidente ha lanciato un segnale estremamente serio. Non è più la solita lamentela che eravamo abituati a sentire in passato. Non si dice più soltanto “dateci più soldi, dateci più magistrati” ma “dateci più riforme, fate interventi legislativi che affrontino tutte le criticità della materia”. Io condivido il suo ragionamento perchè, come ho detto in altre occasioni, il metodo di partire dalla coda è sbagliato. C’è poi un altro aspetto rilevante nel discorso del presidente, riguarda la scopertura dell’organico: quella dei magistrati è del 9,83% e quella del personale amministrativo è del 22,82%. Un fattore tutt’altro che irrilevante, che richiederebbe quantomeno una valutazione approfondita. C’è, però, un altro messaggio importante che è stato lanciato nell’Aula magna della Cassazione. L’ho ascoltato nel discorso del procuratore generale, Giovanni Salvi.
Quale?
La richiesta della sobrietà nella comunicazione. Esattamente il contrario (mi sembra) di quanto avvenuto ieri, 1 febbraio. Mi riferisco al comportamento avuto da alcuni avvocati nell’inaugurazione dell’anno giudiziario in alcune corti d’Appello. E di quello avuto, in precedenza, da alcuni magistrati, che è stato la premessa di quanto accaduto ieri. Il pubblico ministero non deve cercare consenso nell’opinione pubblica, deve semmai cercare di dare e di riscuotere fiducia. Una comunicazione enfatizzata rischia di sovrapporre i valori che il pm ritiene di dover far valere, e che sono proposti dall’opinione pubblica, ai valori fondamentali della Costituzione. Ecco, tutto ciò provoca quel ‘battibecco indecoroso’ a cui stiamo assistendo da qualche tempo.
Si riferisce ai cartelli contro Davigo a Milano e alle manette che gli avvocati hanno messo a Napoli, in dissenso con la riforma Bonafede. Gesti forti ma un po’ eccentrici, non trova?
Uno stile che non condivido, che ho contestato anche in passato. Non mi piacque quando, nel 2002, i magistrati sfilarono, a Milano, il giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, alzando la Costituzione contro ‘le leggi di Berlusconi’. E, a maggior ragione, non mi piace quello che è successo ieri. Io credo che, soprattutto in un momento come questo, sia necessario un minimo di rispetto delle istituzioni. Capisco la risposta alle reciproche provocazioni, ma non mi pare il caso di tenere comportamenti del genere che mi sembrano lontani dalla professionalità , come ha detto il procuratore generale in Cassazione. Penso che lo scontro cui abbiamo assistito sia la conseguenza di un metodo sbagliato e dell’assenza di un intervento legislativo organico. È come dire che alla signora la quale chiede se è incinta, il medico risponda “un poco”. In principio, da parte mia, c’è stata perplessità per il modo cui è stato dato il via libera alla riforma di Bonafede. Dopo c’è stato sconcerto per il compromesso che il governo Conte bis proponeva di raggiungere al suo interno distinguendo condannati e assolti in primo grado. Oggi posso dire che c’è amarezza.
Amarezza per cosa?
Per la situazione che si è nuovamente creata tra magistratura e avvocatura. Sembrava si fosse aperto un dialogo tra le due categorie. I recenti fatti, invece, dimostrano come ci la contrapposizione si stia via via inasprendo. E tutto ciò fa male alla giustizia. Una giustizia che, peraltro, già esce con le ossa un po’ rotte dallo scandalo che ha investito il Csm nella primavera scorsa.
Lei prima faceva riferimento ai pm che “cercano il consenso nell’opinione pubblica”. Ci spiega meglio?
Non è più tempo del pubblico ministero che propone la sua posizione come quella del ‘cavaliere senza macchia e senza paura, portatore di valori suoi’, come mi sembra abbia indicato il procuratore generale in Cassazione. Sono i valori della Costituzione che contano; e uno dei primi tra quei valori è il dialogo, il confronto continuo. Non il proposito di ‘rivoltare l’Italia come un calzino’. Anche se naturalmente chiunque ha la libertà di manifestazione del pensiero.
A proposito di questo, gli avvocati che hanno sfilato a Milano contestavano a Davigo le sue opinioni sulla prescrizione e alcune sue esternazioni sul ruolo della difesa. La colpisce il fatto che si arrivi a definire sgradita la presenza di un rappresentante del Csm per un pensiero che ha espresso?
Io mi auguro preliminarmente che le opinioni dei magistrati, come quelle degli avvocati, abbiano una certa sobrietà . E mi sembra che questa non ci sia nè da una nè dall’altra parte. Certamente ognuno ha diritto ad avere la propria opinione, ma non si può negare che si sia creato un corto circuito dannoso; ferma restando la perplessità di fronte a chi contesta e rifiuta la presenza di una persona che rappresenta il Csm. Chi ha a cuore le sorti della giustizia non può che essere rammaricato.
(da “Huffingtonpost“)
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Febbraio 2nd, 2020 Riccardo Fucile
IL FILANTROPO ODIATO DAI SOVRANISTI E DAI POPULISTI ESPRIME IL SUO PENSIERO
«Credo che stiamo vivendo un momento rivoluzionario. Di conseguenza, in pratica tutto è possibile e la fallibilità regna sovrana», scrive George Soros nell’introduzione del suo nuovo libro, «Democrazia! Elogio della società aperta», pubblicato in Italia da Einaudi e in libreria da martedì.
Si tratta di una raccolta degli scritti recenti del miliardario filantropo, personaggio odiato e invidiato, in passato spesso attaccato per i suoi raid finanziari, oggi nel mirino per le sue prese di posizioni pubbliche.
Ma, a 89 anni e un patrimonio stimato di 8,3 miliardi di dollari, Soros non rinuncia a essere in prima linea per combattere le tendenze autoritarie, che minacciano «la sopravvivenza delle società aperte».
È «una delle due grandi sfide del nostro tempo», sostiene sapendo di essere il nemico pubblico per eccellenza dei sovranisti e populisti di tutto il mondo. (L’altra sfida, «una crisi ancora più grande», è il cambiamento climatico).
Perciò, una settimana fa, al World Economic Forum di Davos, Soros ha annunciato «il progetto più importante» della sua vita: una donazione di un miliardo di dollari per sviluppare l’Open Society University Network, una piattaforma internazionale per l’insegnamento e la ricerca.
Perchè «l’accesso a un’istruzione di qualità è la nostra migliore speranza», spiega. In particolare, «un’istruzione che rinforza l’autonomia dell’individuo, coltivando il pensiero critico ed enfatizzando la libertà accademica».
Il titolo originale del libro, nell’edizione inglese, è «In difesa della società aperta». Corriamo seriamente il rischio di alzare nuovi muri, rinunciando alla globalizzazione per abbracciare il protezionismo, e diventare una società chiusa?
«Esistono due tipi di governi: il primo è quello di una società aperta, dove i rappresentanti democraticamente eletti dovrebbero mettere gli interessi degli elettori davanti ai loro. Nel secondo, totalmente diverso, un governante usa il suo potere per rimanere al comando e trarre benefici personali e finanziari: è un regime approfittatore e repressivo. Una quarantina di anni fa, quando sono stato coinvolto in quella che chiamo la mia filantropia politica, la società aperta e la democrazia stavano guadagnando potere: l’Unione sovietica stava collassando, mentre l’Unione europea si stava sviluppando. La marea è cambiata dopo la crisi finanziaria del 2008 e il nazionalismo ha guadagnato influenza in un numero sempre maggiore di Paesi. All’inizio dell’anno scorso, speravo che la marea potesse cambiare di nuovo direzione verso più cooperazione internazionale, ma a fine anno le mie speranze si sono infrante, a causa della grande sconfitta della Brexit, e dell’ascesa dei partiti e movimenti populisti».
È più preoccupato per l’America o per l’Europa?
«L’Europa è minacciata da due pericoli: la sopravvivenza della società aperta e il cambiamento climatico, che potrebbe distruggere la civiltà . Ma va verso una direzione migliore. Il climate change è diventato la priorità della nuova Commissione Ue e il primo desiderio dei cittadini. Oggi la Ue ha intrapreso un ruolo guida per combattere. Devo riconoscere, inoltre, che da un sistema di selezione disfunzionale è emersa una leadership piuttosto buona ed efficace. Sono sviluppi sorprendenti e molto positivi. Dirò di più: dalla fine dell’anno abbiamo visto un’accelerazione di eventi niente male, ecco perchè ho speranza, anche se sarebbe più facile disperarsi. Faccio due esempi: il fenomeno delle Sardine, un movimento dal basso, che ha davvero fatto arrabbiare… come si chiama? Ah sì, Salvini. E poi un fenomeno dall’alto: i sindaci sono diventati molto attivi in tutto il mondo, ma in particolare in Europa: si sono impegnati nel cambiamento climatico, nelle migrazioni interne, e in altre questioni. Sono gli stessi temi che preoccupano i giovani. Ecco, se queste iniziative si svilupperanno, combinando le spinte dal basso con quelle dall’alto, potrà diventare un movimento molto importante a favore dell’Europa e della società aperta».
Lei ha 89 anni e ripone le sue speranze nei giovani, per cambiare di nuovo il verso della marea. Ha citato le sardine e ci sono i ragazzi dei «Fridays for Future» guidati da Greta. Eppure i giovani sono in difficoltà , soprattutto in Italia, dove la disoccupazione giovanile è intorno al 30%.
«È proprio la mancanza di lavoro a causare le migrazioni interne. Chi non trova un’occupazione nel suo Paese, la cerca in Germania. Che perciò beneficia di questa situazione. Anche se in questo momento l’economia tedesca non va molto bene, perchè sono così concentrati sull’industria automobilistica, dopo lo scandalo delle emissioni dei motori diesel. E il rallentamento della Germania ora nuoce al resto d’Europa. Detto questo, la Germania beneficia dell’immigrazione. Al contrario, l’Italia soffre per l’emigrazione delle elite: i più qualificati e competenti vanno in Germania, a Londra, in altre parti del mondo»
Ha parlato di sconfitta della Brexit. Quale sarà il costo dell’addio del Regno Unito alla Ue?
«Brexit è un danno sia per l’Europa che per il Regno Unito. La Gran Bretagna è relativamente piccola e una larga percentuale del suo commercio è con la Ue. È un peccato. Ma il futuro resta molto incerto. Il premier Boris Johnson vuole allentare i legami, mentre la Ue vorrebbe mantenerli più stretti. È una situazione conflittuale, di cui è difficile prevedere l’evoluzione, perchè dipende da decisioni ancora da prendere».
Crede che il presidente americano Donald Trump a novembre sarà rieletto, come prevedono molti?
«Ho visto Trump parlare al Forum di Davos in tv. Mi è sembrato molto convincente. Ovviamente ha fornito informazioni false, ma devo ammettere che è bravo. Ha molto talento a convincere la gente, ma è un truffatore e un narcisista. Sarà rieletto? Si è preparato molto bene. Facebook, che è stata molto strumentale nella sua elezione nel 2016, può ancora pubblicare le dichiarazioni dei candidati senza essere legalmente responsabile, se non corrispondono alla verità , perchè la legge non è cambiata e non cambierà finchè Trump sarà al potere. Perciò Facebook rappresenta un grande aiuto per Trump, che sa usare i social media e li sfrutta. Il problema è che per Zuckerberg il principio guida è massimizzare i profitti».
Perchè i democratici sembrano incapaci di trovare un vero leader per fronteggiare Trump?
«Credo ci siano 16 candidati ancora in gara, e ognuno di loro probabilmente potrebbe essere un buon leader. Il problema è che il processo di selezione dura troppo. Perciò c’è poco tempo per diventare un contendente serio alle elezioni contro Trump. Questo è un altro vantaggio per Trump, oltre a Facebook. L’unico vero ostacolo alla rielezione di Trump è il suo comportamento e la reazione del pubblico. Il numero di quelli che credono veramente in lui si sta riducendo a causa del suo cattivo comportamento. Le prospettive non sono buone, ma conto su Trump e sulla sua capacità di deludere sempre più elettori. L’ordine di uccidere il generale iraniano Soleimani è stato molto pericoloso, ma ai suoi seguaci è piaciuto. Ecco, se fosse successo a ridosso delle elezioni, Trump avrebbe vinto di sicuro. Un rischio è che surriscaldi l’economia, perchè è difficile mantenerla al punto di ebollizione troppo a lungo. Perciò il problema vero di Trump è che mancano ancora 10 mesi al voto».
Come dice nel libro, è cresciuto con l’ascesa dei populismi, perciò li conosce bene. Oggi il populismo ha toccato il picco?
«Di solito i populisti vanno al potere perchè sono popolari. Ma quando i risultati del loro operato sono chiari, cosa che richiede del tempo, perdono popolarità . Anche se non è assicurato. Come nel caso di Orban, ad esempio, che usa il suo potere solo per conservare il suo posto all’infinto. Ora c’è una rivolta contro di lui, i cittadini sono contro Orban, ma lui resta al suo posto».
E Vladimir Putin?
«È al potere ancora da più tempo e ora ha disegnato un nuovo sistema per conservarlo più a lungo. Una volta eletto, puoi essere senza scrupoli ed egoista e usare qualsiasi sistema, alcune volte molto doloroso per la gente, per mantenere il potere».
In Italia molti la ricordano ancora come l’uomo che nel 1992 ha scommesso contro la lira e la sterlina, costringendo le due valute a una pesante svalutazione e all’uscita dal sistema monetario europeo. Si è mai pentito di averlo fatto? Ha altri rimpianti nella sua lunga storia che ha attraversato crisi, boom e rivoluzioni?
«Nessun rimpianto, ho semplicemente anticipato gli eventi. Perciò lo considero un mio successo. Ho sempre agito nel rispetto delle regole. Se non lo considerassi un comportamento appropriato, non lo difenderei mai. Ho sempre separato la mia attività sui mercati dalle mie critiche ai mercati, e sono stato molto aperto e chiaro nel chiedere cambiamenti. Ad esempio, sono a favore della tassa sulla ricchezza proposta dalla candidata democratica Elisabeth Warren».
Perchè è tanto odiato?
«Oggi mi considero solo un intellettuale, da tempo non opero più sui mercati. Critico gli eccessi e i mercati senza controllo, credo che i mercati vadano regolamentati. Le mie critiche però fanno male a molte persone ricche e potenti, perciò è naturale che mi vogliano distruggere, perchè colpisco i loro interessi. E mi attaccano non solo i ricchi, ma in misura sempre maggiore anche i politici».
(da “il Corriere della Sera”)
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Febbraio 2nd, 2020 Riccardo Fucile
VOGLIONO CACCIARE LA CONSIGLIERA M5S PERCHE’ ENTRA IN UNA GIUNTA PD, COLPEVOLE DI FARE QUELLO CHE HANNO FATTO I VERTICI GRILLINI… I MILITANTI SONO CON LEI (COSI’ IL PRESTANOME DI DI MAIO RIUSCIRA’ A FAR PERDERE ALTRI VOTI AL MOVIMENTO)
L’entrata in giunta a Pesaro è incompatibile con il MoVimento 5 Stelle. Ti consiglio di autosospenderti. Firmato: Vito Crimi. Ieri il sindaco del Partito Democratico di Pesaro Matteo Ricci ha chiamato in giunta Francesca Frenquellucci, ex candidata sindaca del M5S e consigliera comunale.
La notizia è stata accolta dai grillini con la solita, pacata schizofrenia: il reggente Crimi ha fatto sapere alla Frenquellucci che nei suoi confronti verrà aperto un procedimento disciplinare. Perchè? Perchè Frenquellucci ha fatto a Pesaro quello che il MoVimento 5 Stelle ha fatto a Roma: andare al governo con il PD.
Una cacciata che gela il sangue della consigliera, appena terminata la riunione coi militanti: «Ma perchè? Io non sto facendo nulla di diverso da quel che fanno a livello nazionale. Resto allibita se mi cacciano fuori. In ogni caso non cambio idea: entro in giunta più convinta di prima. Oggi gli attivisti mi hanno detto tutti brava. Faccio quello che mi chiedono. Dalla giunta potrò proporre atti che realizzino il programma del Movimento». Quanto all’autosospensione, «ci rifletterò», anche se, aggiunge, «diventando assessore io mi dimetto da consigliere 5 Stelle, quindi non vedo dove sia il problema».
S’infuria pure Ricci, che lavora al laboratorio pesarese da ottobre, collaborando con la sua ex sfidante Frenquellucci per riportare una sede universitaria a Pesaro, culminata pochi giorni fa con l’apertura di un corso di ingegneria. «Ma è surreale. Stiamo governando insieme il Paese. È come se si dicesse che tutti i ministri 5 Stelle si devono autosospendere, visto che governano col Pd» attacca il dem.
Il motivo di cotanta reazione lo spiega oggi Silvia Bignami su Repubblica: il patto pesarese, con Ricci che ha annunciato ieri l’ingresso in giunta di Frenquellucci con delega all’Innovazione, va infatti in rotta di collisione con la decisione già presa da Vito Crimi, Danilo Toninelli e dalla “facilitatrice” 5 Stelle Mirella Emiliozzi di non allearsi «mai» nelle Marche «con chi ha causato il declino della Regione».
E così Frenquellucci è stata messa alla porta in nome del centralismo democratico del partito meno ideologico di sempre.
Destra e sinistra non esistono, la disciplina di partito sì.
(da “NextQuotidiano”)
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Febbraio 2nd, 2020 Riccardo Fucile
A POLIZZI GENEROSA ANCHE GLI ASSESSORI IMPEGNATI PER TENERE APERTA LA STRUTTURA… CI SONO RAPPRESENTANTI DELLE ISTITUZIONI CHE ONORANO IL NOSTRO PAESE
Non si può fare… era la laconica risposta dei burocrati, e dopo l’ennesima alzata di spalle, Giuseppe Lo Verde, sindaco di Polizzi Generosa, paese di tremila abitanti nell’entroterra del Palermitano, ha trovato da sè la soluzione: stamattina alle 9.30 ha deciso di aprire lui il museo etno-antropologico inaugurato da appena una settimana.
“Cos’avrei dovuto fare – spiega – tagliare il nastro e chiudere in attesa di tempi migliori?”. Lo Verde ha al suo fianco l’intera giunta e, infatti, assessori e primo cittadino si sono dati il cambio per consentire ai turisti della domenica e ai residenti di visitare il museo che si trova nello stesso edificio dell’Archeologico, l’ex Collegio dei Gesuiti, che per fortuna non ha problemi di personale.
Possibile che non ci sia qualcuno da impiegare per questo servizio? “Oggi è diventato tutto difficile – dice Lo Verde – Parliamo tanto di turismo, ma non si riesce ad avere dipendenti, nemmeno per due giorni alla settimana, per aprire e vigilare su un museo importante. Con la quota cento sono andate via parecchie persone. Recentemente abbiamo stabilizzato 24 precari, che lavorano 4 ore al giorno, ma non ci sono figure con un inquadramento che consenta la copertura dei turni festivi al museo”.
Lo Verde garantisce che il museo ha uno straordinario appeal, soprattutto per i turisti che nel week end affollano il paesino che ricade nel Parco delle Madonie (a Polizzi ha sede anche il Mam, Museo ambientalistico madonita) e che ha dato i natali a un grande scrittore del nostro Novecento, Giuseppe Antonio Borgese, costretto nel ’31 all’esilio negli Stati Uniti perchè inviso al fascismo. Appeal a parte, stamattina c’era un motivo in più per visitare il museo: vedere all’opera sindaco e assessori nell’insolita veste di custodi.
L’iniziativa ha avuto un buon successo e sarà ripetuta, promette Lo Verde: “Accadrà così per tutti gli altri week end, fino a quando non si riuscirà a trovare una soluzione”. Soluzione che potrebbe arrivare presto, come sottolinea lo stesso sindaco: “Vedrò di superare l’intoppo sottoscrivendo una convenzione con associazioni di volontariato e pro loco”.
L’apertura, almeno nel week end, per il primo cittadino non è negoziabile. “Nel fine settimana i visitatori arrivano, eccome, attratti dalle bellezze monumentali e naturalistiche di Polizzi Generosa”. E anche gastronomiche: qui si produce lo sfoglio, un dolce al formaggio pecorino e cioccolato, ricetta delle monache benedettine che risale al Seicento.
(da agenzie)
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Febbraio 2nd, 2020 Riccardo Fucile
FRANCESCA E’ UNA RICERCATRICE “PRECARIA” STIPENDIATA 16.726 EURO LORDI L’ANNO… ROSARIA E’ LA RESPONSABILE DEL LABORATORIO DI VIROLOGIA… CONCETTA DIRIGE L’UNITA’ VIRUS EMERGENTI
La pagina facebook dell’assessorato alla Salute del Lazio fa sapere che sono Maria Rosaria Capobianchi, Francesca Colavita e Concetta Castilletti le donne del servizio sanitario regionale che hanno isolato il Coronavirus di Wuhan 2019-nCov.
La consigliera regionale Marta Bonafoni scrive inoltre che «è stata un’èquipe di donne a riuscire nell’impresa mondiale, tra loro anche una ricercatrice precaria. Segniamoci i loro nomi: Maria Rosaria Capobianchi , Francesca Colavita, Concetta Castilletti. Grandissime!».
Nella foto pubblicata sulla pagina dell’assessorato le vediamo in compagnia di Alessio D’Amato, assessore alla salute del Lazio (a sinistra), e Roberto Speranza, ministro della Salute. Francesca Colavita è al centro: è lei la ricercatrice “precaria”: in una pagina sul sito dell’ospedale Spallanzani si scrive che ha un “Incarico di co.co.co. per l’espletamento di attività di ricerca nell’ambito del Progetto FILAS-RU-2014-1154” per un compenso di 16726 euro (lordi, si immagina).
A capo del Laboratorio di Virologia dello Spallanzani c’è la dottoressa Maria Rosaria Capobianchi: 67enne nata a Procida, laureata in scienze biologiche e specializzata in microbiologia, dal 2000 lavora allo Spallanzani e ha dato un contributo fondamentale nell’allestimento e coordinamento della risposta di laboratorio alle emergenze infettivologiche in ambito nazionale, nel contesto del riconoscimento dell’istituto quale centro di riferimento nazionale.
Mentre è una giovane ricercatrice Francesca Colavita, da 4 anni al lavoro nel laboratorio dopo diverse missioni in Sierra Leone per fronteggiare l’emergenza Ebola.
E poi Concetta Castilletti, responsabile della Unità dei virus emergenti (“detta ‘mani d’oro’, ha raccontato il direttore dell’Istituto Giuseppe Ippolito), classe 1963, specializzata in microbiologia e virologia.
A loro si aggiungono Fabrizio Carletti, esperto nel disegno dei nuovi test molecolari, e Antonino Di Caro che si occupa dei collegamenti sanitari internazionali.
I virologi dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani”, a meno di 48 ore dalla diagnosi di positività per i primi due pazienti in Italia, sono quindi riusciti ad isolare il virus responsabile dell’infezione.
Lo spiega lo stesso Istituto sottolineando che “avere a disposizione in modo così tempestivo il virus è un passo fondamentale, che permetterà di perfezionare i metodi diagnostici esistenti ed allestirne di nuovi. La disponibilità nei laboratori del nuovo agente patogeno permetterà inoltre — continua lo Spallanzani — di studiare i meccanismi della malattia per lo sviluppo di cure e la messa a punto del vaccino”.
La sequenza parziale del virus isolato nei laboratori dello Spallanzani, denominato 2019-nCoV/Italy-INMI1, è stata già depositata nel database GenBank, e a breve anche il virus sarà reso disponibile per la comunità scientifica internazionale. Nino Cartabellotta, presidente e direttore scientifico della Fondazione GIMBE, scrive però su Twitter che il virus era già isolato dal 17 gennaio e disponibile in GenBank, prendendosela con i media che sono “troppo sensazionalistici”: in realtà è stato lo Spallanzani a comunicare che il virus era stato isolato per la prima volta.
Il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri (Fnomceo), Filippo Anelli, ha invece inviato questa nota alle agenzie di stampa: — “Ci uniamo ai ringraziamenti del ministro della Salute, Roberto Speranza, rivolti ai medici e a tutti i ricercatori dell’Istituto nazionale malattie infettive ‘Lazzaro Spallanzani’ di Roma che, a meno di 48 ore dalla diagnosi di positività per i primi due pazienti in Italia, sono riusciti, primi in Europa, a isolare il nuovo coronavirus. Una delle tante testimonianze dell’eccellenza del nostro Servizio sanitario nazionale, che va sostenuto e salvaguardato”.
Maria Capobianchi, Direttore del laboratorio di Virologia dell’INMI, ha spiegato che il risultato ottenuto “è il frutto del lavoro di squadra, della competenza e della passione dei virologi di questo Istituto, da anni in prima linea in tutte le emergenze sanitarie nel nostro Paese. “L’isolamento del virus ci permetterà di migliorare la risposta all’emergenza coronavirus, di conoscere meglio i meccanismi dell’epidemia e di predisporre le misure più appropriate”, ha aggiunto Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani.
“Il risultato ottenuto dai nostri virologi — ha concluso Marta Branca, direttore generale dell’INMI — è una ulteriore testimonianza dell’eccellenza scientifica dello Spallanzani, Istituto dove la ricerca non è mai fine a se stessa, ma ha come obiettivo ultimo e concreto il miglioramento delle cure per i pazienti”.
“Con l’isolamento del virus da parte dell’èquipe di virologi dello Spallanzani si conferma l’assoluta qualità delle strutture sanitarie della nostra regione”, dice Alessio D’Amato, assessore alla sanità della Regione Lazio. “La grande professionalità dei nostri medici, biologi e ricercatori — ha concluso Roberto Speranza, Ministro della Salute — ci fornisce ulteriori strumenti di contrasto per fronteggiare questa emergenza sanitaria, e conferma la qualità e l’efficienza del nostro Servizio Sanitario Nazionale su cui dobbiamo”.
Capobianchi, a margine della conferenza stampa sul coronavirus a Roma, ha spiegato che ora la possibilità di avere un vaccino per 2019-nCov è più vicina: “Adesso sarà più semplice trovare un vaccino per il coronavirus, la coltivazione del virus è un fatto fondamentale per qualsiasi allestimento credibile di presidi e nuove strategie. Avere a disposizione il virus significa partire da una buona base”.
“Fino a pochi giorni fa erano disponibili i dati di sequenza del virus che avevano pubblicato i cinesi — ha aggiunto — che non hanno fatto uscire il virus dalla Cina pur avendolo isolato. I dati e la diagnostica messa a punto era su dati teorici, hanno funzionato bene, sono stati disegnati dei controlli però adesso possiamo avere il vero controllo, cioè il virus”. “La diagnosi — ha detto ancora la dottoressa Capobianchi — è stata fatta su base molecolare, e cioè la ricerca dell’rna del virus, e in tempo di record, sui primi nostri due pazienti. Sempre a tempo di record abbiamo ottenuto il virus isolato in coltura, cioè il campione biologico del paziente che è stato fatto crescere su delle cellule. Dopo circa 24 ore abbiamo osservato l’effetto citopatico. In quella coltura abbiamo riscontrato la presenza del virus in quantità compatibile con il fatto che stava crescendo”.
Alla domanda se la scoperta aiutasse la ricerca su una cura per il Coronavirus, Capobianchi ha risposto: “Quando si scoprono virus nuovi il materiale di partenza iniziale cruciale è proprio il virus — ha risposto — Averlo a disposizione, e avere anche un sistema di crescita e coltivazione in vitro, ci dà uno strumento per perfezionare l’attuale diagnosi, che è molecolare, e perfezionare i test sierologici che ancora non ci sono, cioè la ricerca degli anticorpi nel sangue. Poi avere a disposizione il virus ci permette di provare farmaci in vitro e di avere grandi quantità di virus che possono servire per la messa a punto di un vaccino, oppure di antigeni e preparazioni che poi servono alla diagnostica. Infine, avere a disposizione la coltura ci permette di fare studi sulla patogenesi ossia di capire i meccanismi di replicazione, i rapporti tra il virus e la cellula ospite che possono essere bersaglio delle strategie terapeutiche — ha concluso la ricercatrice — ci permettono di capire come funziona la replicazione del virus”.
(da agenzie)
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Febbraio 2nd, 2020 Riccardo Fucile
SCOPERTA DALL’ARCHIVIO DI STATO UNA RELAZIONE SUI CRIMINI COMMESSI DA TRUPPE USA, INGLESI E CANADESI… 342 OMICIDI, 6.489 FURTI E RAPINE, CENTINAIA DI STUPRI E 1.250 MORTI INVESTITI DAI MEZZI MILITARI IN UN ANNO
Immaginate un dossier sulla sicurezza in Italia reso noto – poniamo ieri – dal Viminale, uno di quelli che pubblicano i giornali corredandolo con puntuali numeri su delitti, incidenti stradali, grafici e statistiche.
Ecco, a questo punto girate la lancetta dell’orologio all’indietro e fate scorrere il tempo – mescolando storia e cronaca – sino ai giorni attorno alla fine della guerra e poco dopo. Siamo (all’incirca) tra 8 settembre 1943, 25 aprile 1945 ma anche dopo il conflitto, fino al 2 giugno 1946 e pochi mesi successivi.
Immaginate adesso la prima pagina di questo corposo dossier (che ne contiene almeno 2.000) titolata così: «Statistica incidenti e crimini commessi da truppe alleate».
Nella parte alta del foglio la grossa dicitura: «Ministero della guerra». Poco sotto l’elenco di tutti coloro a cui la relazione è stata mandata: in primis la presidenza del Consiglio, poi il ministero degli Esteri, quello degli Interni e il comando generale dell’Arma dei carabinieri.
E di seguito alcuni dati riepilogativi: quelli sugli «incidenti automobilistici» che hanno provocato 1.250 morti «tra il settembre 1943 e il dicembre 1944». E che diventano 3.047 in un altro focus esteso al giugno 1947.
«Dispregio per le norme di disciplina stradale”
Sinistri «da imputarsi per la maggior parte al dispregio per le norme di disciplina stradale manifestato dai conduttori». E poi: «342 omicidi, risultante di atti spavaldi e malvagi prodotti da militari avvinazzati» dediti «a molestie alla popolazione civile, specialmente donne, sia nella pubblica strada, sia nelle abitazioni private».
Quanto alla cifra su furti e rapine (6.489) «pur considerevole, è da ritenersi molto inferiore a quella reale per il fenomeno –spiegabilissimo – della mancata denuncia per il timore del peggio».
Il corposo studio sui crimini commessi dalle truppe americane, inglesi, canadesi e francesi nella Penisola è stato ritrovato in questi giorni all’Archivio Storico di Stato dell’Eur, il maggiore presidio in cui viene conservata la nostra memoria.
Autore della scoperta è Emiliano Ciotti, vigile del fuoco di professione e ricercatore storico per diletto. Assai scrupoloso e appassionato nei suoi studi, il pompiere, 47 anni, è anche il presidente dell’«Associazione nazionale vittime delle marocchinate».
Un suo prozio, Anastasio Gigli, venne stuprato e ucciso dai goumiers – le truppe coloniali francesi composte da marocchini, tunisini, algerini e senegalesi – nel Basso Lazio. Anche per questo, da tempo, Ciotti si dedica alla ricostruzione delle violenze (parliamo, per intenderci, di quelle stesse narrate nel romanzo di Alberto Moravia «La ciociara» poi divenuto celeberrimo film con Sophia Loren) commesse tra il luglio 1943 (dopo lo sbarco in Sicilia) e l’inverno 1944, quando i coloniali vennero trasferiti nel fronte del Nord Europa a seguito delle fortissime proteste italiane indirizzate al comando alleato per quegli stupri di massa.
Del tutto casualmente il vigile, cercando all’Archivio la documentazione sulle atrocità dei soldati francesi , si è imbattuto nel dossier, più complessivo e inedito, sui crimini degli Alleati.
Sono pagine e pagine provenienti dalle stazioni dell’Arma e dai commissariati. Minuziosi e dettagliati rapporti scritti a macchina da carabinieri e poliziotti che hanno raccolto – nè più nè meno come si farebbe oggi – le denunce straziate dei genitori di un bimbo calpestato dai cingoli di un tank guidato da un carrista ubriaco o dai familiari di una donna stuprata, e uccisa, dentro casa da militari senza nome.
Colpiscono tante cose, in quei rapporti: intanto l’idea di un apparato di sicurezza, e se vogliamo di uno Stato, che in qualche modo, pur tra le macerie, dava l’idea di funzionare. Mentre infuriava la guerra, addirittura nei giorni del collasso dell’8 settembre, Arma e Polizia erano lì ad ascoltare i cittadini, avviando indagini, per quanto possibile, e scontrandosi con l’indifferenza, se non l’irrisione, dei comandi alleati.
In «presa diretta» come in un film neorealista
Ma poi, soprattutto, ci sono i fatti raccontati: le frasi dattilografate a macchina fotografano l’Italia di allora, quasi in presa diretta come in un film neorealista.
Vediamo alcuni rapporti. Uno a caso da Lucca: «18 marzo 1944, un camion alleato, guidato dal caporale americano G. L. Bouer, investì e uccise il motociclista Torcigliani Turiddu».
Da Salerno, il giorno dopo: «Un autocarro alleato, non identificato, investì e uccise Musella Giuseppa». Ad Avellino un ufficiale dei Royal Marines inglesi «investe uccide Barletta Grazia». E via così sino ad arrivare al numero di 1.250 vittime in sedici mesi.
Il confronto che ora proponiamo ha poco senso dato che strade e traffico allora erano completamente differenti da oggi. Però rende l’idea: nel 2018 i pedoni morti in Italia sono stati 612. Vale a dire 51 al mese contro i 78 di allora (che diminuiscono a 66 nel conteggio esteso al giugno 1947).
Reati contro il patrimonio
Poi il capitolo dei «reati contro il patrimonio», sovente storielle minime che però raccontano i tempi: a Mondragone «il 15 marzo u.s. certo Riccio Pasquale denunziò all’Arma che il giorno precedente era stato rapinato da 5 individui, indossanti la divisa dell’esercito americano, di 5.600 lire e una bicicletta».
Un’altra rapina a Perugia «dove tre individui indossanti le uniformi degli eserciti alleati penetrarono nell’abitazione di Pievaioli Guglielmo e lo rapinarono di 47.000 lire». Ruberie a tappeto vengono effettuate da «truppe canadesi e greche appartenenti all’Ottava armata tra Jesi e Cattolica, nella Marche».
«Atti spavaldi e malvagi»
Un «rapporto segreto» rivela che dopo la fuga dei tedeschi dalla linea gotica «ogni casa fu visitata e tutti gli effetti dei civili sistematicamente asportati». «Nella maggior parte gli abitanti rimasero unicamente con i vestiti che in quel momento indossavano».
Un convento fu saccheggiato e nulla valsero i «turni di guardia» degli sfollati che qui si erano rifugiati portando i loro averi. «Le popolazioni di Cattolica e Riccione, già vessate dai tedeschi, e che attendevano con ansia le truppe liberatrici, rimasero terrorizzate» da uccisioni «per pura brutalità » e i saccheggi contro cui a nulla valse il «tentativo di mettere un freno da parte del sindaco di Riccione» che parlava «un ottimo inglese».
Chi all’epoca scrisse il riepilogo del rapporto nota che «molti dei conduttori investitori continuano per la loro strada senza portare alcun aiuto agli investiti».
E nel capitolo «omicidi, ferimenti, aggressioni e violenze» aggiunge che «tali fatti non debbono essere considerati nella grandissima maggioranza come manifestazioni di malvolere delle truppe alleate verso di noi».
No, sarebbe «la risultante di atti spavaldi e malvagi prodotti da iniziativa di militari avvinazzati; molestie alla popolazione civile, specialmente donne, sia in strada che in casa»; «provocazioni a militari italiani». «Molti omicidi sono stati commessi a danno di civili (spesso genitori, fratelli o mariti) per la resistenza fatta o la difesa da essi esercitata allo scopo di impedire violenze carnali».
Il dossier (si apprende dopo la pubblicazione iniziale di questo articolo, ndr) è custodito anche negli archivi dell’Ufficio Storico dell’Esercito; un approfondimento accurato sui fatti in questione si trova pure in «Arrivano gli alleati», edito da Laterza e scritto da Maria Porzio, storica e ricercatrice.
Ciotti, nelle sue ricerche, ha messo le mani su quattro dossier – «ne sto ancora studiando i dati» – dal senso piuttosto simile. Oltre a quello dei «crimini commessi dagli alleati» e all’altro (di cui la stampa si è già occupata) degli stupri ad opera dei goumiers, ce ne sono altri due che focalizzano momenti e situazioni di cui ancora poco sappiamo: uno riguarda «i crimini commessi dai francesi ai danni dei deportati italiani nella stessa Francia» subito dopo la nostra «pugnalata alle spalle»; l’ultimo ha a che fare con «i crimini francesi commessi sui soldati italiani detenuti nei campi di prigionia nel Nord Africa».
Domanda inevitabile: Ciotti, la sua non sarà una tesi revisionista? «È un’accusa che mi fanno spesso. Ma tutto quello che sostengo lo raccontano i documenti che trovo negli Archivi di Stato. Carte che stanno lì da decenni e che meritano di essere divulgate il più possibile».)
(da “il Corriere della Sera”)
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Febbraio 2nd, 2020 Riccardo Fucile
DECISIONE PRESA SENZA CONSENSO DEL GOVERNO, TANTO E’ VERO CHE TRENTA E TONINELLI SI RIFIUTARONO DI CONTROFIRMARE IL DIVIETO DI INGRESSO… E NONOSTANTE L’ORDINANZA DEL TAR HA CONTINUATO A VIOLARE LA LEGGE
Matteo Salvini non potrà nemmeno chiamare in causa Giuseppe Conte per difendersi dall’accusa di sequestro di persona per il diniego allo sbarco di Open Arms.
Di più: se per la Gregoretti la linea difensiva di Salvini punta sulla rivendicazione di una decisione politica sposata da tutto il governo, stavolta il quadro probatorio delineato dai pm di Agrigento e fatto proprio dalla Dda di Palermo è molto diverso e ben più pesante.
E si trascina dietro il capo di gabinetto del Viminale Matteo Piantedosi, anche lui indagato per gli stessi reati.
Ieri il Capitano ha preso la notizia dell’indagine con la solita flemma tipica del leader di centrodestra maturo e consapevole, strillando al complotto dei magistrati e dei giornalisti (con annesso Sanremo) in una sobria diretta Facebook nella quale mancava solo l’annuncio dell’invasione della Kamchatka.
Il problema è che il caso Open Arms è diverso da quello della Gregoretti perchè la decisione di Salvini è stata presa senza il resto del governo, visto che nel frattempo l’esecutivo gialloverde si stava sfaldando a colpi di mojito, come provato dal fatto che i ministri Trenta e Toninelli si rifiutarono di cofirmare il decreto che vietava alla Open Arms di entrare in acque italiane, dando così un esempio di umanità a intermittenza che i più maligni — come noi, ad esempio — tradussero piuttosto con l’urgenza politica di mettere spalle al muro il Capitano che voleva cacciare Conte per prendere il suo posto.
Spiega oggi Alessandra Ziniti su Repubblica:
Mettiamo in fila gli elementi: dopo aver salvato 164 persone in zona Sar libica il primo agosto e aver chiesto invano un porto sicuro, la Ong spagnola dichiara lo stato di emergenza e fa ricorso al Tar del Lazio contro il divieto di ingresso in acque italiane firmato da Salvini.
Il Tar autorizza l’ingresso con una motivazione sposata in pieno ora dal tribunale dei ministri: i naufraghi non possono essere considerati un rischio per la sicurezza e devono essere subito sbarcati. Ma Salvini rifirma il divieto, Trenta e Toninelli no.
La nave ottiene dalla Capitaneria un punto di fonda davanti a Lampedusa, il Viminale tace. Alla vigilia di ferragosto a bordo arriva Richard Gere a portare rifornimenti, ma la situazione degenera, dal punto di vista sanitario e psicologico: migranti che si gettano in acqua, tentativi di rivolta che l’equipaggio allo stremo fatica a governare. Una situazione ad altissimo rischio risolta solo con l’intervento dell’autorità giudiziaria.
Spiega oggi Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera che a dispetto delle grida di complotto l’intenzione del tribunale dei ministri di Palermo e della Procura che al termine delle indagini hanno concluso per la trasmissione degli atti al Parlamento sollecitando il processo, sembra solo quella di applicare la legge, per come l’hanno interpretata
In 110 pagine di motivazioni inviate venerdì al Senato, le tre magistrate Caterina Greco, Lucia Fontana e Maria Cirrincione (collegio diverso da quello che nel 2018 s’era occupato del caso Diciotti) spiegano i motivi per cui il leader leghista, negli ultimi giorni in cui è rimastoministro dell’Interno, alla fine del primo governo Conte, ha commesso i reati contestati
Stavolta c’è la piena condivisione fra tribunale dei ministri e Procura, a differenza di quanto avvenuto a Catania nelle precedenti vicende.
Inoltre la Open Arms è una nave straniera, mentre Diciotti e Gregoretti sono italiane. Ma per i magistrati palermitani è indubbio che l’obbligo di soccorso derivante dalle convenzioni internazionali, con la conseguente concessione del permesso del Pos («Place of safety», sbarco in luogo sicuro) valga anche con le imbarcazioni estere e delle Ong.
Il 14 agosto il Tar del Lazio aveva annullato l’interdizione del ministro, e dunque l’accesso alle acque territoriali della nave con i profughi fu del tutto lecito.
A quel punto la concessione del Pos sarebbe stata ancor più un atto dovuto, ma il leader leghista ha continuato a negarlo. Con una decisione che, secondo i giudici e la Procura, non fu un atto politico insindacabile dalla magistratura ordinaria, bensì un atto amministrativo dettato da motivazioni politiche, in quanto tale non sottratto al codice penale (come ritenne pure il tribunale dei ministri di Catania per la Diciotti e la Gregoretti).
(da agenzie)
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