Marzo 18th, 2025 Riccardo Fucile
SALVINI IN MISSIONE A TEL AVIV, DUE VELIVOLI SEPARATI PER LOLLOBRIGIDA E SANTANCHE’… E NORDIO CHE FA SPESSO SCALO A TREVISO
Ancora un anno con tanti voli di Stato per il governo Meloni. Dopo i numeri record del
2023 (quando gli aerei in dotazione a Palazzo Chigi erano stati utilizzati 165 volte), lo scorso anno i transfert sono stati 121. E scorrendo l’elenco non mancano le curiosità. Tanti gli aerei partiti anche per tratte interne piuttosto servite da compagnie di linea. Spiccano ministri come Carlo Nordio che, come era accaduto in passato, tornano a fare scalo con una certa frequenza nell’aeroporto più vicino a casa. E ancora, casi in cui l’utilizzo del mezzo contrassegnato col tricolore risulta ancora più ambiguo. Accade per esempio quando la missione istituzionale finisce col trasformarsi in impegno politico (e viceversa), sebbene oltre confine: protagonista stavolta è Matteo Salvini, volato a Budapest e a Tel Aviv per appuntamenti da ministro delle Infrastrutture e al contempo da protagonista di incontri da “patriota” e primo trumpiano d’Italia con Orban e Netanyahu. Per non dire dei ministri di Fratelli d’Italia Daniela Santanchè e Francesco Lollobrigida che con due diversi voli sono andati a ricordare i caduti italiani a El Alamein, in Egitto, a ottobre.
I numeri innanzitutto, appena resi noti da Palazzo Chigi: nel 2024 i voli sono stati 121, si diceva. Cifre, quelle del governo meloniano, in media elevate rispetto al passato: nel 2022 erano stati 157 (quasi tutti del governo Draghi, ma 30 dell’esecutivo Meloni), nel 2021 invece 126 (sempre governo Draghi e due mesi di governo Conte II). Saltando il 2020, anno della pandemia, nel 2019 erano stati appena 49 (governo Conte I). Il sottosegretario Alfredo Mantovano in una nota interna resa nota nella polemica per il caso dei voli di Stato chiesti dal procuratore di Roma Francesco Lo Voi (e negati da Palazzo Chigi), ha sottolineato che in media il costo di questi voli è di almeno 13 mila euro a tratta.
Nel 2024 i componenti dell’esecutivo che hanno utilizzato più voli sono stati il ministro degli Esteri Antonio Tajani (40 volte, ma comprensibile alla luce del ruolo), il ministro della Difesa Guido Crosetto (18), quello del Made in Italy Adolfo Urso (12), degli Interni Matteo Piantedosi (11), dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida (8) e dell’Università Anna Maria Bernini (5). Nei primi due mesi del 2025 i voli resi noti da Palazzo Chigi sono stati 25. Lo scorso 11 febbraio il ministro della Giustizia è volato prima a Istanbul e poi ad Ankara. Ma come scalo di partenza e di arrivo è stato scelto l’aeroporto di Treviso: la sua città. E non è la prima volta che accade. Lo scorso 26 agosto un volo di Stato è atterrato a Treviso per imbarcare il Guardasigilli e portarlo a Reggio Calabria.
Matteo Salvini ha utilizzato due voli di Stato: lo scorso 20 settembre per andare a Budapest al consiglio informale dei ministri dei Trasporti Ue. Una giornata anche molto politica: il leader del Carroccio ha incontrato il premier Viktor Orban, che con il suo partito siede al fianco del Carroccio a Bruxelles tra i Patrioti. «Salvini è il nostro eroe», ha detto il premier ungherese. Lo scorso 11 febbraio il segretario della Lega e vicepremier invece è volato alla volta di Tel Aviv e ha incontrato il premier Benjamin Netanyahu: «Con lui abbiamo parlato del futuro di Gaza e ho stretto con orgoglio la mano a un leader democraticamente eletto, mi dispiace che qualcuno se ne abbia a male», ha detto riferendosi alla Corte penale internazionale che ha spiccato un mandato di arresto contro il primo ministro d’Israele per «i crimini commessi a Gaza». Salvini in quel viaggio ha annunciato poi una collaborazione con Tel Aviv sul tema delle risorse idriche
Nell’elenco di Palazzo Chigi non mancano infine i voli di Stato utilizzati per tratte interne: ad aprile il ministro Tajani ha utilizzato il mezzo di Stato per raggiungere Torino e pochi giorni dopo Venezia, la ministra dell’Università Bernini per spostarsi da Roma a Brescia. Tutto legittimo. Resta una questione di opportunità.
(da La Repubblica)
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Marzo 18th, 2025 Riccardo Fucile
I DATI DIMOSTRANO IL CINISMO DI MELONI
L’Istat ha confermato quello che molte associazioni, enti del terzo settore, sindacati e esponenti dell’opposizione denunciavano da tempo: la cancellazione del Reddito di cittadinanza ha avuto un effetto negativo sul reddito per 850mila famiglie. Una perdita media da 2.600 euro all’anno, per circa 620mila nuclei familiari che sono stati esclusi dal nuovo sostegno (l’Assegno di inclusione) e altri 230mila che vi sono rientrati, ma con un aiuto più ridotto.
Fanpage.it ha intervistato Pasquale Tridico, ex presidente dell’Inps – proprio negli anni in cui fu lanciato il Rdc – e oggi eurodeputato del Movimento 5 stelle. Tridico non solo ha rivendicato che i dati Istat danno ragione a ciò che il M5s sostiene da tempo, ma anche smentito la ‘difesa’ lanciata oggi dal centrodestra, cioè che cancellare il Reddito avrebbe aiutato ad aumentare l’occupazione.
Cosa pensa del nuovo rapporto Istat, che ha anche misurato il risultato della cancellazione del Reddito di cittadinanza?
Oggi l’Istat certifica una cosa molto grave: aumenta la povertà e aumentano le disuguaglianze. Tutta la revisione di trasferimenti e contributi effettuata dal governo, e anche la riforma fiscale, alla fine peggiorano la situazione di tutti i redditi delle famiglie italiane.
Le 850mila famiglie colpite dall’eliminazione del Rdc, tra le più povere, vedono peggiorare la propria situazione perché gli è stato tolto uno strumento di sostegno al reddito. Ma ci sono anche lavoratori con redditi medio-bassi che subiscono un peggioramento.
Però l’Istat certifica anche che la riforma Irpef varata per lo scorso anno ha aumentato il reddito di 11,8 milioni di famiglie.
Eppure la disuguaglianza è aumentata. Lo dimostra l’indice di Gini (usato per misurare le disuguaglianze economiche, ndr), non lo dico io. Noi l’avevamo già previsto: il presidente Conte stesso aveva denunciato che la combinazione tra la riforma dell’Irpef e l’aumento della base imponibile per il taglio del cuneo avrebbe causato una perdita netta di reddito per quelle famiglie. Gli unici che sono avvantaggiati dalla riforma dell’Irpef sono i redditi alti.
Tornando al Reddito di cittadinanza e al nuovo Assegno di inclusione: il problema è l’approccio del governo Meloni alla povertà?
Sì, è questo il punto. Ci hanno detto che avrebbero tolto il Reddito di cittadinanza ai cosiddetti ‘occupabili’, come se bastasse questo per far lavorare le persone. Invece questo non è successo. Hanno tolto il reddito di cittadinanza a 850mila famiglie, che sono le più povere nella distribuzione del reddito italiano. Questo è un atto di grandissimo cinismo da parte del governo Meloni, che le fa sprofondare nel disagio più assoluto. L’avevamo detto, e purtroppo oggi l’Istat a un anno di distanza ne dà pienamente conto con i suoi dati.
Il centrodestra, al contrario, ha rivendicato che cancellare il Reddito di cittadinanza è servito ad aumentare l’occupazione, che effettivamente è a livelli molto alti (anche se resta bassa in confronto con l’Europa).
Non è assolutamente vero, non è andata così.
Perché?
I dati di cui oggi il centrodestra si vanta sono cumulativi, dal 2020 al 2024, quindi in gran parte si riferiscono al periodo in cui c’era il Reddito. Per chiarire cosa è successo bisogna tornare al 2020. Quell’anno fu introdotta la più importante politica attiva del Paese.
Si riferisce al programma Gol (Garanzia di occupabilità dei lavoratori)?
Esatto. La ministra del Lavoro era Nunzia Catalfo, del Movimento 5 Stelle. Le riforma non fu solo sulla carta: grazie alle risorse portate in Italia attraverso il Pnrr dal governo Conte due si misero su quella partita 5,2 miliardi di euro. Tutti i governi precedenti avevano fatto politiche attive, ma nessuno aveva messo soldi veri.
Questa politica prende in carico non soltanto i beneficiari del Reddito di cittadinanza, ma tutti i beneficiari di sussidi (inclusi Naspi e altri). Quindi, quanti più sono questi percettori, tante più sono le persone prese in carico. A causa della riforma Meloni, invece, molte persone escono dai sussidi, in particolare dal Reddito di cittadinanza, e perciò non vengono più prese in carico.
Quindi in realtà cancellare il Rdc avrebbe anche indebolito i programmi per aiutare chi è in difficoltà a trovare lavoro?
Certo. Con il programma Gol sono state prese in carico tre milioni di persone. Un terzo di queste, ovvero circa un milione, ha un contratto di lavoro, dunque la presa in carico ha avuto esito positivo. Ma se la platea fosse stata più ampia, senza eliminare il Reddito di cittadinanza, tutti avrebbero partecipato al programma Gol.
Siamo arrivati a un milione di prese in carico positive grazie al Reddito di cittadinanza, e ad altri sussidi inseriti nel progetto. Ma era un progetto del governo Conte due. All’epoca io ero alla guida dell’Inps, e già nel 2019 dicevo che saremmo arrivati all’inserimento di un milione di persone nel mercato del lavoro grazie a questa ‘seconda gamba’ del Rdc. La riforma disegnata dal governo Conte è stata indebolita fortemente nel 2024.
A proposito dell’Inps, come reputa che sia guidato attualmente l’Istituto?
Io non mi permetterei mai di mettere in discussione o criticare gli attuali vertici dell’Inps, che ho conosciuto e che applicano e rispettano le leggi. La differenza rispetto alla stagione in cui io ero presidente, piuttosto, è il mandato politico dato dal governo. All’epoca c’era un chiaro indirizzo di investimento sulle politiche sociali e di contrasto alla povertà, che la mia amministrazione ha recepito.
Oggi questo indirizzo politico, da parte dell’esecutivo , chiaramente non c’è. E non penso solo al Rdc, ma a una serie di misure che vengono tolte ai cittadini. L’Assegno di inclusione e il Supporto formazione e lavoro, per esempio, non sono certo un’invenzione dell’Inps: è il governo che ha varato questi veri e propri percorsi a ostacoli per i cittadini più poveri che cercano di ottenere un sussidio. Si chiama Assegno di inclusione, ma dovrebbe chiamarsi Assegno di esclusione.
Oggi lei siede al Parlamento europeo, come presidente della sottocommissione sul Fisco. Che tipo di interventi servirebbero, secondo voi, per migliorare la situazione della povertà in Italia?
Proprio in questa settimana ci stiamo occupando di due questioni strettamente collegate. La prima riguarda un un approccio diverso, più equo alla giustizia fiscale. Il 18 marzo, qui al Parlamento europeo, si terrà un simposio insieme a parlamentari e ministri di altri Stati membri, ma anche esperti e professori, in cui mi farò promotore di una proposta di Gabriel Zucman, direttore del think tank Eu tax observatory.
Di che si tratta?
Tassare i super ricchi, cioè coloro che hanno una ricchezza oltre i cento milioni di euro. Una piccolissima minoranza: in Italia sono 71 persone. Facendo pagare loro una tassa con aliquota del 2 o 3%, si arriverebbe a raccogliere tra gli 8 e i 15 miliardi di euro. Pensiamo che l’invalidità in Italia costa 20 miliardi di euro, il Reddito di cittadinanza ne è costato 8.
La seconda questione di cui parlava?
Una politica industriale a sostegno dell’automotive. La mattina del 21 marzo, come Movimento 5 Stelle e insieme a Sinistra italiana, che fa parte del nostro gruppo qui al Parlamento Europeo (Left), terremo un’iniziativa a Torino davanti ai cancelli di Mirafiori. Nel pomeriggio, al Museo dell’automobile, ci sarà un convegno che coinvolgerà personalità politiche e sindacali.
Come sono collegate le due cose?
Una tassa del 2 o 3% sui super ricchi in Italia consentirebbe anche di avere le risorse per fermare il declino industriale. Favorire la transizione verso l’elettrico. Sarebbe certamente una prospettiva migliore rispetto a quella di sperperare denari, come chiede di fare il piano ReArm Eu della von der Leyen.
(da fanpage)
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Marzo 18th, 2025 Riccardo Fucile
COMPRATE 100.000 BOTTIGLE DA MEZZO LITRO PER LA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO
Scelto come ornitore per i prossimi due anni la società proprietaria dei marchi Egeria e
Tullia, che ha concesso al governo un piccolo sconto per la singolare “benedizione”.
Qualche difficoltà con la sua squadra di alleati in queste settimane è stata evidente. Certo non tutto è filato liscio per Giorgia Meloni, che forse è anche un pizzico scaramantica. Così la presidente del Consiglio ha deciso che a Palazzo Chigi servisse se non una bella benedizione, un po’ di acqua santa. Anzi, un bel po’ di acqua santa, visto che ne ha appena ordinate la bellezza di 100 mila bottigliette da mezzo litro.
Centomila bottigliette di acqua minerale naturale e frizzante acquistate fino al 2026Non ci sono a dire il vero acquasantiere o tonache di mezzo, ma la commessa è stata ordinata proprio alla società Acqua Santa di Roma srl, di proprietà della famiglia Mari, che dal 1948 ha iniziato ad imbottigliarla sotto diverse etichette. Per soddisfare la sete della Meloni, dei suoi collaboratori e dei dipendenti del palazzo a fianco di Montecitorio sono state infatti ordinate 66 mila bottigliette da 0,5 litri di acqua oligominerale naturale e 34 mila bottigliette con la stessa capienza di acqua frizzante. Tutte e 100 mila in vetro, impegnandosi a rendere il vuoto alla società imbottigliatrice.
Prezzo scontato a 0,23 euro a bottiglie per un totale di 23 mila euro più Iva
Le etichette di Acqua Santa di Roma scelte dalla Meloni e dai suoi sono Egeria e Tullia e la fornitura deve servire a spegnere la sete di Palazzo da qui a fine del 2026, e il prezzo offerto dalla società dei Mari è scontato: 0,23 euro a bottiglia più Iva. In tutto quindi la fattura biennale approvata ammonterà a 23 mila euro oltre all’Iva, assicurando l’Acqua Santa al governo per due anni.
(da Open)
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Marzo 18th, 2025 Riccardo Fucile
LE NUOVE GENERAZIONI VIVONO IN UN COSTANTE STATO DI INCERTEZZA CHE IMPEDISCE LORO DI DIVENTARE “GRANDI” … NON È UN CASO CHE IL 70 PER CENTO DEI GIOVANI UNDER 30 DICHIARI DI NON SENTIRSI PRONTO PER DIVENTARE GENITORE: C’È CHI INCOLPA L’INCERTEZZA LAVORATIVA, CHI INVECE NON PUÒ SOSTENERE LE SPESE
Stanze in affitto che dovevano essere solo temporanee ma che vanno oltre il 4+4, contratti di lavoro che durano quanto una stagione mentre fuori dalle rotte tradizionali i freelance rimbalzano fra progetti rimandati a data da destinarsi, a “quando c’è budget”.
Da questa interferenza si ricava la formula del fallimento generazionale: stipendi fermi contro affitti in ascesa. Un monolocale a Milano costa quanto uno stipendio medio, una stanza singola può arrivare a 900 euro. […] In questo scenario, i trentenni e ventenni di oggi si distinguono solo per il momento della disillusione: i primi l’hanno vissuta come un tradimento, i secondi come un dato di partenza.
Vivere in un costante stato di transizione non è solo una questione pratica, ma diventa un filtro che modella il modo di pensare al futuro e di costruire rapporti duraturi.
Non sono più scelte, sono necessità che riscrivono le traiettorie di un’intera generazione. Il “posto fisso” non esiste più, ma nemmeno il “posto” (inteso come luogo in cui si vive o lavora) è così fisso. Bart Schepens lavorava per una società di leasing ma era stanco della ripetitività della vita di ufficio. Durante il Covid inizia a non potere più del lavoro e si dimette. Un mese dopo lascia il Belgio e inizia a girare l’Europa in van
«La ragione principale per cui ho deciso di vivere in un camper è stata la mancanza di
avventura e libertà nella mia vita», spiega Bart. «Invece di cercare un appartamento, ho continuato a vivere con i miei genitori per risparmiare il più possibile». Dopo tre anni non si è ancora pentito di questa scelta.
La vita va avanti tra velleità e adattamenti. Un contratto che scade diventa l’occasione per reinventarsi freelance. Le passioni si trasformano in side hustle (attività parallele) poi magari in lavoro principale, poi di nuovo in hobby quando i conti non tornano.
«Avrei una vita quasi idilliaca sulla carta», riflette Giulia Ascani, consulente, «con un lavoro a Milano che posso fare da remoto a Perugia, dove vive il mio compagno. Eppure mi ritrovo a lottare con me stessa e i sensi di colpa, sentendo di aver rinunciato a una parte di me, quella più ambiziosa e indipendente, per un futuro di coppia che altrimenti non sarebbe possibile».
Per lei il “cosa” è chiaro: vuole allineare lavoro e vita privata, trasformando la sua professione in consulenza in qualcosa di più appagante dato che il lavoro che sta facendo non la convince più. È il “come” che le sfugge, ed è per questo che ha iniziato un percorso con una coach.
Il peso delle scadenze esistenziali si accumula nell’era dell’instabilità. L’idea di fare un figlio si scontra con la fragilità economica: secondo un recente report di Save the Children del 2024, il 40 per cento delle donne under 35 in Italia rinuncia alla maternità per motivi economici, mentre il 65 per cento delle famiglie con figli segnala difficoltà nel conciliare lavoro e cura dei bambini.
A questo si aggiunge un altro dato: il 70 per cento dei giovani under 30 dichiara di non sentirsi pronto per diventare genitore a causa dell’incertezza lavorativa e dell’impossibilità di accedere a un alloggio stabile. I progetti di maternità si misurano in metri quadri e avanzamenti di carriera, mentre il costo della vita continua a salire. Per alcuni è questione di “quando”, per altri di “se”.
«Qualche anno fa ho congelato gli ovuli – prosegue Giulia –. Devo dire che vedere le mie amiche affrontare la maternità mi ha fatto venire qualche dubbio in più rispetto a prima, quando ero certa e sicura al 100 per cento di volerli. Le riflessioni sulla maternità sono diventate più frequenti, soprattutto sul “dove”. Lui non ha intenzione di spostarsi a Milano, e comunque non avremmo un vero sostegno familiare o una rete di appoggio. In provincia, invece, avremmo più agevolazioni nella vita quotidiana. È un discorso complesso, e ogni giorno mi pongo nuove domande».
Il tempo è uscito dai cardini, trascinando con sé una generazione che rimbalza tra gli stessi problemi: la ricerca di un lavoro che sappia tanto appagare quanto pagare, l’equilibrio tra vita privata e professionale, tra io e noi, tra desideri e necessità. I vecchi modelli non funzionano più, i nuovi si scrivono adattandosi.
(da agenzie)
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Marzo 18th, 2025 Riccardo Fucile
“LE RETI RUSSE E CINESI AMPLIFICANO RECIPROCAMENTE I CONTENUTI. QUESTO AVVIENE CON LA PROMOZIONE INCROCIATA FATTA DA MEDIA CONTROLLATI DALLO STATO COME RIA NOVOSTI, RT, SPUTNIK, CGTN E GLOBAL TIMES” … NEL 2024, 90 PAESI E 322 ORGANIZZAZIONI SONO STATI BERSAGLIO DI ATTACCHI INFORMATIVI STRANIERI: L’UCRAINA È IL PRINCIPALE BERSAGLIO CON L’OBIETTIVO DI “PLASMARE LA PERCEZIONE DELLA GUERRA A FAVORE DELLA NARRAZIONE INGANNEVOLE DELLA RUSSIA”
“Le reti russe e cinesi amplificano reciprocamente i contenuti, rafforzando la
messaggistica anti-occidentale”. È uno dei passaggi cruciali del terzo rapporto del Servizio europeo d’azione esterna (Seae) sulle operazioni di manipolazioni e interferenze informative straniere (Fimi), in cui si parla di un “allineamento strategico” tra i cluster Fimi di Mosca e Pechino, “principalmente attraverso la promozione incrociata fatta da media controllati dallo Stato come RIA Novosti, RT, Sputnik, Cgtn e Global Times”.
Il rapporto, che analizza 505 incidenti Fimi nel periodo che va dal 4 novembre 2023 al 4 novembre 2024, prende in esame per la prima volta l’architettura messa in piedi specificamente da Russia e Cina per condurre le loro operazioni Fimi. Con la cosiddetta Matrice di esposizione Fimi, si svela come gli attori delle minacce costruiscono e sfruttano diversi livelli di infrastruttura digitale per eseguire le operazioni Fimi
“Alcuni nodi” della rete “si impegnano con entrambe le parti, diffondendo contenuti da canali attribuiti alla Russia e alla Cina” scrivono gli esperti, sottolineando come questa convergenza sia più evidente nelle “narrazioni comuni che prendono di mira le istituzioni occidentali” ritraendo spesso Ue, Usa e Nato come “deboli, instabili o impegnati nel neocolonialismo e nelle provocazioni regionali”.
“Allo stesso tempo – si legge ancora – i media russi e cinesi ritraggono la propria leadership come forte e sostenuta a livello mondiale, contrapponendola alla presunta instabilità che associano ai Paesi occidentali”. La propaganda russa ha puntato il mirino, come era prevedibile, anche sulle Europee del 2024. “Le elezioni sono state un obiettivo chiave degli attacchi” di manipolazioni e interferenze informative straniere (Fimi) “in un anno in cui oltre la metà della popolazione mondiale si è recata alle urne, con 42 tentativi Fimi russi registrati durante le elezioni europee di giugno”, spiega il rapporto.
Nel 2024, novanta Paesi e 322 organizzazioni sono stati bersaglio di attacchi da parte di manipolazioni e interferenze informative straniere (Fimi). È quanto emerge dal terzo rapporto del Servizio europeo d’azione esterna (Seae) sulle operazioni Fimi. L’Ucraina è il principale obiettivo degli attacchi Fimi russi con quasi la metà degli incidenti registrati. “L’obiettivo generale è plasmare la percezione globale della guerra a favore della narrazione ingannevole della Russia”, si legge nel report. Le piattaforme social sono il focolaio dell’attività Fimi, con X che “da solo rappresenta l’88% delle attività rilevate”.
Il rapporto prende in esame 505 incidenti Fimi verificatisi tra il 4 novembre 2023 e il 4 novembre 2024 che hanno coinvolto circa 38.000 canali su 25 piattaforme diverse, e sottolinea la “portata globale” di questo tipo di operazioni. Come per il 2023, l’Ucraina rimane la principale vittima degli attacchi Fimi russi, con quasi la metà degli incidenti registrati, 257, nel campione analizzato.
Secondo gli esperti, l’infrastruttura Fimi russa si rivolge da un lato agli ucraini per “indebolire la resistenza del Paese” alla guerra, e dall’altro agli alleati occidentali per “indebolire il sostegno” a Kiev all’Ucraina”. Dopo l’Ucraina, la Francia è il Paese più colpito. Tra i principali obiettivi, i giochi Olimpici e Paralimpici di Parigi e le elezioni legislative francesi.
Analoga sorte è toccata alla Germania e in particolare il governo di coalizione. “Nei 73 casi individuati – scrivono gli esperti – gli attacchi sono avvenuti in occasione di eventi politici, visite internazionali e proteste degli agricoltori, che hanno suscitato grande attenzione da parte dei media”. Tra gli Stati più colpiti, anche la Moldavia, dove si sono tenute le presidenziali e il referendum per l’adesione all’Ue, e l’Africa, con i membri dell’Alleanza degli Stati del Sahel (Mali, Niger e Burkina Faso) che sono stati “bersagli frequenti” degli attacchi Fimi.
“L’Ue è uno dei principali obiettivi”, si legge ancora nel report, in cui si sottolinea come ad essere maggiormente esposti siano da un lato i Paesi dell’Est e i Baltici e dall’altro, la Germania e la Francia “regolarmente bersaglio di campagne localizzate”.
Le operazioni Fimi non si sono limitate ai Paesi, ma hanno preso di mira anche organizzazioni e individui. L’Ue, la Nato, i media indipendenti e i difensori della Fimi, come Bellingcat, EU DisinfoLab e Correctiv sono stati tra i più attaccati. Nel mirino anche funzionari di alto livello come la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e gli l’alta rappresentante Ue in carica Kaja Kallas e il suo predecessore, Josep Borrell.
(da agenzie)
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Marzo 18th, 2025 Riccardo Fucile
DOPO DUE GIORNI DI TAGLIA E CUCI PREVALE IL TERMINE “RADICALE” A “PROFONDA”, NEANCHE FOSSE IL TRATTATO DI VERSAILLES … SPACCARE IL CAPELLO IN QUATTRO DEL POLITICHESE COME IL PD O IL PACIFISMO D’ACCATTO DI CONTE SONO LA MIGLIORE GARANZIA PERCHE’ MELONI GOVERNI ALTRI 10 ANNI… IN UE SOCIALISTI E VERDI EUROPEI SONO PER IL RIARMO SENZA TANTE CAZZATE
Il lavoro di taglia e cuci per trovare un accordo tra le diverse anime del Partito Democratico ha dato i suoi frutti: «Il piano Rearm Europe di Ursula von der Leyen necessita di una “revisione radicale”», è la formula fondamentale per l’intesa.
Alla fine i dem sono riusciti a mettere a punto una risoluzione condivisa che vada bene a tutti, dai vicinissimi alla segretaria Elly Schlein fino ai riformisti. Questa risoluzione verrà presentata oggi in Senato e domani alla Camera, in risposta (e in opposizione) alle comunicazioni della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che illustrerà davanti a deputati e senatori la posizione dell’Italia sui temi che saranno discussi al Consiglio europeo di giovedì e venerdì, a cui la premier prenderà parte.
E tra i temi più controversi all’ordine del giorno a Bruxelles ci sarà proprio il Piano per il riarmo dell’Europa, il Rearm Europe.
Per questo, il Pd (ma non solo, anche la stessa maggioranza di governo che ha problemi con la Lega di Salvini) si è riunito in incontri interni fino all’ultimo momento per trovare una soluzione che potesse conciliare le diverse posizioni.
L’ultima riunione si è conclusa intorno alle 12 di oggi, 18 marzo.
Ha vinto l’aggettivo “radicale”
Proprio quell’aggettivo “radicale” ha tenuto i democratici col fiato sospeso fino a tarda serata ieri, mentre erano impegnati nella stesura minuziosa della risoluzione. I filo-Schlein spingevano per mantenere quella dicitura, mentre i riformisti chiedevano di sostituirla con la parola “profonda”. Alla fine, però, la decisione della segretaria ha prevalso.
Uscendo per primo dalla riunione, il dem riformista Alessandro Alfieri ha sottolineato il buon lavoro di condivisione che è stato fatto tra le parti. «Di fronte alle divisioni del centrodestra, ribadiamo con chiarezza le linee fondamentali della nostra politica estera: sostegno incondizionato all’Ucraina con ogni mezzo necessario e il suo coinvolgimento nelle principali iniziative per costruire una difesa europea solida».
Il contenuto
L’Impegno 8 è uno dei più densi di significato. Nel testo, che verrà presentato a breve in Senato, si sottolinea l’importanza di promuovere, nel corso del negoziato che seguirà la presentazione del Libro Bianco sulla difesa europea e i suoi strumenti, «tutti gli elementi che puntano a una governance democratica chiara del settore».
Tra gli obiettivi principali, gli investimenti «comuni necessari per realizzare l’autonomia strategica e colmare i deficit alla sicurezza europea, al coordinamento e all’integrazione delle capacità industriali europee e dei comandi militari, all’interoperabilità dei sistemi di difesa verso un esercito comune europeo». Il Pd chiede al governo di «promuovere una radicale revisione del piano di riarmo proposto dalla presidente von der Leyen», ma anche di «assicurare investimenti comuni effettivi non a detrimento delle priorità sociali di sviluppo e coesione, e di condizionare tutte le spese e gli strumenti europei alla pianificazione, lo sviluppo, l’acquisizione e la gestione di capacità comuni per realizzare un’unione della difesa».
(da Open)
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Marzo 18th, 2025 Riccardo Fucile
“DI ROVINOSE RITIRATE E DI SANGUINOSI ACCERCHIAMENTI PARLANO SOLO PUTIN E TRUMP PER IMPRESSIONARE L’OCCIDENTE E MANIPOLARE I NEGOZIATI”
“Gli ucraini hanno dimostrato di essere coraggiosi e di saper tener testa all’esercito ex
numero due del mondo”. Pertanto, nel caso a Kiev dovesse essere imposta una “pace” eccessivamente ingiusta, “presumo che proseguirebbero nella lotta per la difesa del proprio Paese con tutte le armi a loro disposizione”.
A dirlo, intervistato da Fanpage.it, il generale di Corpo d’Armata in quiescenza Luigi Chiapperini commentando gli ultimi sviluppi sul conflitto che da oltre tre anni vede contrapporsi Russia e Ucraina, una guerra arrivata ora a un crocevia decisivo: nelle prossime ore infatti si terranno per la prima volta colloqui diretti tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’ipotesi di un cessate il fuoco di trenta giorni.
Dopo la riconquista di Sudzha da parte dei russi gli ucraini hanno iniziato una ritirata. A cosa si deve questa evoluzione del conflitto nel Kursk? Quanto ha pesato lo stop di Trump agli aiuti militari?
Gli ucraini a Kursk non sono al momento circondati e non credo che si arrenderanno. Di rovinose ritirate e di sanguinosi accerchiamenti parlano solo Putin e Trump per impressionare l’Occidente e orientare i futuri negoziati. In realtà la situazione sul terreno è ben diversa. Le forze ucraine si sono effettivamente ritirate sotto la pressione russa verso il confine internazionale ma, a parte piccoli nuclei rimasti isolati come sempre può avvenire in questi contesti, il grosso delle forze ha manovrato ordinatamente combattendo con efficacia ed evitando grosse perdite . L’interruzione temporanea degli aiuti militari in termini di sistemi d’arma non può aver influito in questa fase della guerra in quanto prima che l’effetto di una decisione del genere si manifesti passa del tempo. Fatto sta che dopo otto mesi gli ucraini stanno perdendo una delle carte da giocare sul tavolo dei futuri negoziati pur avendo comunque raggiunto lo scopo minimo di distogliere forze di Mosca dalle regioni del sud e di logorarle proprio nella loro madrepatria.
Quanto ha inciso, sull’attuale situazione sul campo, la temporanea sospensione di informazioni di intelligence da parte degli Stati Uniti?
Quella della insufficienza temporanea di informazioni può aver influito in maniera molto più determinante sul ripiegamento ucraino da Sudzha. Non conoscere o avere solo la parziale conoscenza dei movimenti delle truppe nemiche risulta uno dei fattori di maggiore criticità che può determinare l’esito di uno scontro militare.
Nell’offensiva ucraina di Kursk sarebbero stati impiegati circa 12mila soldati ucraini ben addestrati ed equipaggiati con materiale occidentale. È noto, o è possibile stimare, quanti uomini e quanto di questo materiale è andato perso?
Risulta arduo poterlo determinare ma al riguardo vanno fatte alcune considerazioni che possono rendere l’idea delle perdite dell’una e dell’altra parte. Quando gli ucraini sono entrati nella regione del Kursk, hanno verosimilmente subito perdite irrisorie poiché i russi sono stati colti di sorpresa e hanno potuto opporre scarsa resistenza. Al contrario, negli otto mesi di azioni controffensive volte a liberare la regione, russi e nordcoreani hanno dovuto lanciare furiosi attacchi contro forze ben addestrate e dotate di mezzi performanti, subendo perdite rilevanti, in alcune fasi anche centinaia di soldati e mezzi al giorno. Il fatto stesso che gli ucraini in questi giorni siano riusciti a manovrare ordinatamente in ritirata fa supporre che abbiano subito delle perdite ma non così pesanti come riportato da alcuni commentatori. Le foto e i filmati di mezzi militari distrutti sul campo di battaglia sono il risultato di mesi di combattimenti e non solo della ritirata da Sudzha.
Cosa ne sarà ora dell’offensiva ucraina nel Kursk? Kiev cercherà di mantenere un “presidio” minimo o si ritirerà completamente da quell’oblast?
L’intenzione è di mantenere almeno un presidio proprio per i motivi che esponevo prima. I negoziati stanno entrando nella fase viva. Bisognerà vedere se gli ucraini saranno in grado di resistere allo sforzo offensivo russo.
Un’ultima domanda sui negoziati. Ieri il Ministro degli Esteri ucraino Andrii Sybiha ha posto le condizioni per la pace: integrità territoriale, ingresso nella NATO e nell’UE, nessuna restrizione esterna alle dimensioni dell’esercito. Le posizioni tra Kiev e Mosca (e Washington) sembrano inconciliabili. È possibile, secondo lei, arrivare a una qualche forma di compromesso?
Al momento le posizioni appaiono effettivamente incompatibili ma è uno scenario normale in una situazione come questa. Prima di qualsiasi negoziato i contendenti avanzano il massimo delle pretese possibili. Putin ha recentemente affermato che la “Novorossiya”, che comprende tutta l’Ucraina orientale e meridionale, quindi la Crimea, le regioni oggi parzialmente occupate (Lugansk, Donetsk, Zaporizhzhia e Kherson) ma anche gli oblast di Kharkiv, Dnipropetrovsk, Odessa e Mykolaiv che sono ancora saldamente nelle mani di Kiev, deve essere considerata parte integrante della Russia. Ha anche ribadito il no all’ingresso dell’Ucraina nella NATO e il diniego alla presenza di forze dell’Alleanza Atlantica come forze di mantenimento della pace. Un compromesso quindi appare molto difficile da raggiungere. Se proprio ci si voglia sbilanciare, potrebbero decidere un cessate il fuoco sulle posizioni attualmente raggiunte dai due eserciti senza però il riconoscimento da parte ucraina dell’annessione di quelle terre alla Federazione Russa. Quindi non si tratterebbe di una vera pace poiché si lascerebbe irrisolta la questione territoriale da affrontare
diplomaticamente in futuro. La Russia potrebbe per altro “concedere” all’Ucraina la possibilità di entrare nell’UE e restituire una centrale all’Ucraina (quella nucleare di Zaporizhzhia?) come segno di presunta, o meglio presuntuosa, magnanimità. Insomma concessioni di facciata che non laverebbero il crimine di aver invaso un Paese e priverebbero quest’ultimo delle prerogative fondamentali di una nazione sovrana come ad esempio le dimensioni del proprio esercito o la scelta legittima di far parte di un’organizzazione internazionale. Risulta complessa anche la questione della nazionalità delle truppe di peacekeeping da schierare dopo un eventuale cessate il fuoco. Qui vanno distinti due contesti. Su eventuali truppe di interposizione e monitorizzazione lungo la linea di contatto è comprensibile che esse siano gradite dai due contendenti. Meno accettabile è che la Russia pretenda di decidere quali nazioni non debbano fornire truppe all’interno del territorio ucraino.
Un accordo di “pace” che scontenti molto l’Ucraina quali conseguenze avrebbe?
Il tentativo di umiliare completamente l’Ucraina potrebbe portare Kiev a continuare la guerra, specialmente se la coalizione di volenterosi attualmente a guida franco-britannica dovesse confermare la volontà di supportare fino alla fine il paese aggredito. Gli ucraini hanno dimostrato di essere coraggiosi e di saper tener testa all’esercito ex numero due del mondo e pertanto presumo che proseguirebbero nella lotta per la difesa del proprio Paese con tutte le armi a loro disposizione. Se e quando fermare veramente la guerra ritengo che spetti agli ucraini, fintanto gli sarà possibile.
(da Fanpage)
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Marzo 18th, 2025 Riccardo Fucile
INTEGRITA’ TERRITORIALE, ALLEANZE INTERNAZIONALI, CAPACITA’ DI DIFESA NON LIMITATA
Alla vigilia dell’attesissima telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin sul un eventuale cessate il fuoco in Ucraina il ministro degli Esteri di Kiev, Andrii Sybiha, ha illustrato le tre condizioni fondamentali per eventuali negoziati con la Russia volti a porre fine alla guerra.
In un’intervista rilasciata oggi a RBC-Ucraina, Sybiha ha confermato che alcuni principi restano non negoziabili per Kiev, rifiutando tuttavia il concetto di “linee rosse”. “Ci sono elementi fondamentali che non possono essere messi in discussione”, ha affermato. Tra questi, il primo e più importante è il rispetto dell’integrità territoriale e della sovranità dell’Ucraina. Il ministro ha ribadito che Kiev non riconoscerà mai i territori annessi dalla Russia, posizione già espressa dal presidente Volodymyr Zelensky il 12 marzo.
Il secondo punto chiave, ha spiegato Sybiha, è il diritto dell’Ucraina di scegliere le proprie alleanze internazionali. Il ministro ha sottolineato che nessun Paese deve avere potere di veto sulle aspirazioni di Kiev di entrare nella NATO e nell’Unione Europea. L’Ucraina ha ufficialmente presentato la richiesta di adesione all’Alleanza Atlantica nel settembre 2022 e, nel 2024, la NATO ha definito il percorso verso tale adesione “irreversibile”, pur senza concedere ancora un invito formale.
Infine, Sybiha ha ribadito che la capacità di difesa dell’Ucraina non deve essere limitata, escludendo qualsiasi restrizione sulle forze armate di Kiev. “La Russia deve essere ritenuta responsabile. Questi sono tutti elementi di una pace duratura”, ha dichiarato.
Oltre che con le pretese di Putin, tuttavia, le richieste di Sybiha devono tenere conto anche di quelle di Donald Trump: la Casa Bianca ha recentemente suggerito la necessità di un compromesso tra Ucraina e Russia, definendo “irrealistico” l’obiettivo di Kiev di ripristinare i confini precedenti al 2014. Attualmente, Mosca controlla circa il 20% del territorio ucraino, dove continuano a emergere denunce di repressioni, torture e deportazioni forzate.
Intanto, il 13 marzo, il presidente russo Vladimir Putin ha espresso la disponibilità ad accettare una tregua di 30 giorni proposta dagli Stati Uniti, ma solo a condizione che Kiev interrompa la mobilitazione, l’addestramento militare e la ricezione di aiuti stranieri. Richieste che, secondo gli analisti, potrebbero lasciare l’Ucraina esposta a nuove aggressioni.
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Marzo 18th, 2025 Riccardo Fucile
“NELL’UE CI SONO TROPPE REGOLE E TROPPO FRAMMENTATE” … “I RITARDI ACCUMULATI DALL’UNIONE SONO PREOCCUPANTI. QUELLO SULL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE FORSE È INCOLMABILE” -… “L’EFFETTO DEL FRAZIONAMENTO È DELETERIO. LA DIFESA COMUNE È UN PASSAGGIO OBBLIGATO”
“E’ la prima volta che torno in Parlamento dopo la fine del mio mandato da Presidente
del Consiglio. E vedo dei ministri che erano nel governo che ho avuto l’onore di presiedere”.
E devo dire che rientro “con un po’ di emozione e con tanta gratitudine per quello che questa istituzione ha saputo fare in anni molto complicati per il Paese, e per quanto sta ancora facendo”. Così l’ex premier Mario Draghi in apertura dell’audizione davanti alle commissioni riunite Bilancio, Attività produttive e Politiche Ue della Camera e del Senato sul Rapporto sul futuro della competitività europea, nel ringraziare tutti i presenti.
“La nostra sicurezza è oggi messa in dubbio dal cambiamento nella politica estera del nostro maggior alleato rispetto alla Russia che , con l’invasione dell’Ucraina, ha dimostrato di essere una minaccia concreta per l’Unione Europea. L’Europa è oggi più sola nei fori internazionali, come è accaduto di recente alle Nazioni Unite , e si chiede chi difenderà i suoi confini in caso di aggressione esterna e con quali mezzi”. Così Mario Draghi al Senato in audizione davanti alle commissioni congiunta Industria, Bilancio e Politiche Ue.
“La nostra sicurezza è oggi messa in dubbio dal cambiamento nella politica estera del nostro maggior alleato rispetto alla Russia che, con l’invasione dell’Ucraina, ha dimostrato di essere una minaccia concreta per l’Unione Europea”.
“Gli indirizzi della nuova amministrazione hanno drammaticamente ridotto il tempo disponibile” – ha detto Draghi – “l’Europa è oggi più sola nei fori internazionali”
L’Unione Europea ha garantito per decenni ai suoi cittadini pace, prosperità, solidarietà e, insieme all’alleato americano, sicurezza, sovranità e indipendenza. Questi sono i valori costituenti della nostra società europea. Questi valori sono oggi posti in discussione”
“La nostra prosperità, già minacciata dalla bassa crescita per molti anni, si basava su un ordine delle relazioni internazionali e commerciali oggi sconvolto dalle politiche protezionistiche del nostro maggiore partner. I dazi, le tariffe e le altre politiche commerciali che sono state annunciate – ha detto Draghi – avranno un forte impatto sulle imprese italiane ed europee”
“Costi dell’energia così alti pongono le aziende – europee e italiane in particolare – in perenne svantaggio nei confronti dei concorrenti stranieri” mettono a rischio “la sopravvivenza di alcuni settori tradizionali dell’economia, ma anche lo sviluppo di nuove tecnologie ad elevata crescita”.
Lo ha detto Mario Draghi, consulente speciale della presidente della Commissione Ue ed ex premier e presidente Bce, spiegando che “una seria politica di rilancio della competitività europea deve porsi come primo obiettivo la riduzione delle bollette – per imprese e famiglie”.
Per la difesa europea “occorre definire una catena di comando di livello superiore che coordini eserciti eterogenei” e che “sia in grado di distaccarsi dalle priorità nazionali operando come sistema della difesa continentale”.
Lo ha detto Mario Draghi, consulente speciale della presidente della Commissione Ue, secondo cui “occorrerebbe che l’attuale procurement europeo per la difesa – pari a circa 110 miliardi di euro nel 2023 – fosse concentrato su poche piattaforme evolute invece che su numerose piattaforme nazionali”. Un frazionamento “deleterio”: a fronte di investimenti complessivi comunque elevati, i Paesi Ue alla fine acquistano gran parte delle piattaforme militari dagli Stati Uniti.
In Italia “non possiamo unicamente aspettare le riforme a livello europeo”, sono disponibili “decine di gigawatt di impianti rinnovabili in attesa di autorizzazione o di contrattualizzazione. È indispensabile semplificare e accelerare gli iter autorizzativi, e avviare rapidamente gli strumenti di sviluppo”. Lo ha detto Mario Draghi: il problema dei prezzi all’ingrosso dell’energia, pari in Europa a due o tre volte i livelli Usa, è “ancora più marcato in Italia, dove i prezzi dell’elettricità all’ingrosso nel 2024 sono stati in media superiori dell’87% rispetto a quelli francesi, del 70% rispetto a quelli spagnoli, e del 38% rispetto a quelli tedeschi.
“La difesa comune dell’Europa diventa un passaggio obbligato per utilizzare al meglio le tecnologie che dovranno garantire la nostra sicurezza. Persino la nostra valutazione dell’investimento in difesa, oggi basata sul computo delle sole spese militari, andrà modificata per includere gli investimenti su digitale, spazio e cybersicurezza che diventano necessari alla difesa del futuro. Per tutto ciò occorre iniziare un percorso che ci porterà a superare i modelli nazionali e a pensare a livello continentale”. Così l’ex premier Mario Draghi in apertura dell’audizione davanti alle commissioni riunite Bilancio, Attività produttive e Politiche Ue della Camera e del Senato sul Rapporto sul futuro della competitività europea.
“Secondo recenti sviluppi, i modelli di Intelligenza Artificiale si stanno avvicinando sempre di più – o stanno addirittura superando – le capacità di ricercatori in possesso di dottorato. Agenti autonomi si avviano ad essere in grado di prendere decisioni operando in completa autonomia. In Europa continuiamo a perdere terreno su questo fronte: otto dei dieci maggiori large language models sono sviluppati in Usa e i rimanenti due in Cina. In quest’area il Rapporto prende atto che il ritardo europeo è probabilmente incolmabile ma suggerisce che l’industria, i servizi e le infrastrutture sviluppino l’impiego dell’AI nei loro rispettivi settori.
L’urgenza è essenziale perché i ‘llm’ si stanno espandendo anche verticalmente”. “L’effetto del frazionamento è deleterio: a fronte di investimenti complessivi comunque elevati, i Paesi europei alla fine acquistano gran parte delle piattaforme militari dagli Stati Uniti”.”Se l’Europa decidesse di creare la sua difesa e di aumentare i propri investimenti – ha aggiunto Draghi – superando l’attuale frazionamento, invece di ricorrere in maniera così massiccia alle importazioni, essa ne avrebbe certamente un maggior ritorno industriale, nonché un rapporto più equilibrato con l’alleato atlantico anche sul fronte economico”.
“Quando la Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, mi ha chiesto di redigere un Rapporto sulla Competitività, i ritardi accumulati dall’Unione apparivano già preoccupanti. L’Unione Europea ha garantito per decenni ai suoi cittadini pace, prosperità, solidarietà e, insieme all’alleato americano, sicurezza, sovranità e indipendenza. Questi sono i valori costituenti dell’Unione europea, la nostra Unione europea”.
“Questi valori sono oggi posti in discussione. La nostra prosperità, già minacciata dalla bassa crescita per molti anni, si basava su un ordine delle relazioni internazionali e commerciali oggi sconvolto dalle politiche protezionistiche del nostro maggiore partner. I dazi, le tariffe e le altre politiche commerciali che sono state annunciate avranno un forte impatto sulle imprese italiane ed europee”, aggiunge.
“Occorre certamente accelerare lo sviluppo di generazione pulita e investire stesamente nella flessibilità e nelle reti, ma occorre anche disaccoppiare il prezzo dell’energia prodotta dalle rinnovabili e dal nucleare da quello dell’energia di fonte fossile. Non possiamo però aspettare unicamente le riforme a livello europeo. In Italia sono disponibili decine di gigawatt di impianti rinnovabili in attesa di autorizzazione o di contrattualizzazione”.
“È indispensabile accelerare e semplificare gli iter autorizzativi. Questo- ha proseguito Draghi- abiliterebbe nuova produzione a costi più bassi di quella a gas, che rappresenta in Italia ancora il 50% del mix elettrico, a fronte del 15% in Spagna e di meno del 10% in Francia. Inoltre, senza aspettare una riforma europea, possiamo slegare la remunerazione rinnovabile da quella a gas, sia sui nuovi impianti sia su quelli esistenti, adottando più diffusamente certe tipologie contrattuali già vastamente impiegate in altri Paesi dell’Unione europea, si pensi soprattutto alla Svezia”
(da Agenzie)
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