Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile
E PRIMA CHE SOPRAGGIUNGA UN CROLLO DI CONSENSI, MEGLIO COGLIERE IL MOMENTO PROPIZIO, DA QUI ALLA PRIMAVERA 2026, PER CONSOLIDARE IL GOVERNO (SEMPRE CHE MATTARELLA DECIDA DI SCIOGLIERE LE CAMERE) … ALTRA ROGNA PER GIORGIA E’ IL FUTURO DI FORZA ITALIA: I PARLAMENTARI CHE FANNO CAPO A MARINA BERLUSCONI SCALPITANO DA UN PEZZO PER UN GOVERNO PIU’ LIBERAL ED EUROPEISTA. MA UN SOSTITUTO DELL’INETTO TAJANI NON SI TROVA
La testolina di Giorgia Meloni, e del suo fido braccio destro Fazzolari, sta seriamente coltivando l’idea di trascinare l’Italia a elezioni anticipate nel 2026, anticipando di un anno la fine della legislatura).
A spingerla a un passo così audace non c’è solo il conflitto quotidiano, divenuto sempre più rovente, con il suo esagitato vicepremier, Matteo Salvini.
Non c’è solo la consapevolezza di aver raggiunto ormai l’apice del consenso elettorale (Fratelli d’Italia ormai oscilla tra il 25 e il 30% ma non riesce ad andare oltre). E, nello stesso tempo, la certezza che non troverà mai più un’opposizione così disgregata e litigiosa.
A dare un’accelerata alla pazza idea di far saltare il banco e andare alle urne c’è il timore (eufemismo) per la situazione economica del Paese che, nei prossimi mesi, andrà quasi sicuramente a peggiorare.
I dazi by Trump non faranno che far lievitare l’inflazione e potrebbero esserci ripercussioni anche sul Pil e sull’occupazione (oggi la Meloni festeggia i dati “record” sugli occupati, ma con la guerra commerciale innescata dal trumpismo rischiano di saltare aziende e molti posti di lavoro).
La nebulosa di incertezza che grava sull’Italia rinsalda la convinzione che sia meglio capitalizzare adesso, in un momento in cui l’opposizione è sfarinata e latitante, e non aspettare la fine della legislatura (2027) quando, a causa di una recessione, gli equilibri potrebbero essere totalmente cambiati a suo sfavore.
Con un voto anticipato a stretto giro, Fratelli d’Italia è convinta di portare a casa almeno un 27%, Forza Italia si attesterebbe tra il 10 e l’11% e una Lega intorno al 9 diventerebbe sempre meno determinante e sempre più obbligata a stare nella coalizione di centrodestra
Fuori da quel perimetro, Salvini non ha sbocchi politici: con chi si allea? Con Conte e Schlein? Con Calenda e Renzi? Con Forza Nuova e Casapound? Dopo lo strappo, ritornerà a capo chino all’ovile meloniano.
Ma un forte stimolo arriva anche dal fatto che, aprendo le urne il prossimo anno, sarà nel 2029 un governo by Meloni a gestire il voto dei parlamentari (e l’Underdog Giorgia fra due anni festeggerà i suoi primi cinquat’anni, cioè l’età necessaria per salire sul Colle più alto. E, come ben sappiamo, non c’è un politico che non sogni di diventare presidente della Repubblica…).
A titillare l’inquietudine di Giorgia Meloni c’è anche il rapporto sempre più complesso con Marina e Pier Silvio Berlusconi. I parlamentari di Forza Italia vicini alla Cavaliera scalpitano perché si riconoscono sempre meno, loro liberali e europeisti, in una maggioranza a trazione trumpiana eurocritica.
Andare al voto a breve, per la Meloni, significherebbe mettere in cassaforte Forza Italia così com’è oggi, annacquata dalla guida flebile di un Tajani, accondiscendente “servo di scena”, di un governo che, in sostanza, è diventato un monocolore targato Fratelli d’Italia.
Aspettare la fine della legislatura, invece, la Melona corre il rischio di trovarsi accanto una Forza Italia diversa, profondamente “ristrutturata” nella leadership e nelle posizioni politiche grazie all’impronta della “Family” di Arcore, proprietaria del simbolo e gran finanziatrice del partito.
Il valore delle fideiussioni a carico dei figli di Berlusconi, concesse a suo tempo da Silvio e rinnovate negli anni per tenere a galla Forza Italia, è passato da 90 a 104 milioni.
La fragile Cavaliera, lentissima nel prendere decisioni, coltiva il sogno di riportare Forza Italia a quella dimensione vagheggiata (a parole) dall’adorato Papi Silvio: un partito liberale, moderato, europeista e “moderno” sui diritti civili (molto cari alla Rampolla).
Per farlo, come abbiamo più volte scritto, bisogna prima rispedire in Ciociaria quel merluzzo lesso di Antonio Tajani, ormai ridotto ad accondiscendente “servo di scena” della Ducetta, e di piazzare alla guida del partito una personalità di spessore, dotata di leadership.
L’identikit del possibile leader, in realtà, l’aveva individuato anni fa un malconcio Silvio Berlusconi, delusissimo per il trattamentgo ricevuto dal suo ex ministro dei Giovani, alias Meloni Giorgia, e portava al nome di Guido Crosetto, il democristiano piemontese che l’aveva mollato per fondare con l'”Ingrata” e La Russa, Fratelli d’Italia. All’attuale ministro della Difesa, il Cav avrebbe affidato volentieri la guida di Forza Italia, e arrivò a prospettarglielo in un incontro faccia a faccia ad Arcore
Una proposta che lo “Shreck piemontese”, fu ben felice di accettare. Ma l’emozione durò pochissimo: mezz’ora dopo aver varcato l’uscita di Villa San Martino, sulla strada del ritorno a casa, Crosetto fu raggiunto da una telefonata del Cav.: “Caro Guido, come non detto…”.
A fargli cambiare idea furono le altre due presenze all’incontro: la moglie morganatica del “Sire di Arcore”, Marta Fascina e il mitologico Antonio Angelucci, all’epoca parlamentare di Forza Italia.
(da Dagoreport)
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Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile
“MEGLIO NON PARLARE CON LUI, QUELLO CHE STA FACENDO È INAMMISSIBILE. ABBIAMO RESO LA DEMOCRAZIA UNA CARICATURA DI SE STESSA. A ZELENSKY DICO DI NON ACCETTARE NESSUN COMPROMESSO SENZA VALORE”… “L’EUROPA PUÒ DISSOLVERSI? SÌ, SE PERMETTIAMO A PUTIN E TRUMP DI GUIDARE IL GIOCO ILLUDENDOCI DI AVERE UN DIALOGO”
Il sogno dell’Europa unita e le responsabilità della politica nel declino della democrazia
rappresentativa, la risposta all’espansionismo putiniano e al disimpegno trumpiano, il senso della Storia e della lotta per una giusta causa: il Nobel per la pace e primo presidente della Polonia libera Lech Walesa riflette sulle sfide del presente, dal destino dell’Ucraina all’avanzata di autoritarismi ed estremismi, che richiedono uno slancio nuovo in un’ottica insieme europea e globale. In quello spirito
pragmatico che diede forza e concretezza alla pacifica rivoluzione del sindacato Solidarnosc, ponendo da Danzica le basi per la fine della guerra fredda.
Presidente Lech Walesa, cosa resta oggi di quella fame e fede nella democrazia?
«All’epoca di Solidarnosc il sistema limitava tutte le libertà e la domanda era: come liberarci da questa prigionia? Abbiamo distrutto il vecchio sistema ma l’abbiamo fatto perché volevamo costruire il nuovo. Oggi l’epoca dei blocchi contrapposti è disintegrata ma il nuovo, la globalizzazione e l’unione degli Stati, non è ancora nato».
Quali i pericoli maggiori?
«Dobbiamo uscire dalla logica dei blocchi, della gestione territoriale, concentrarci su tecnologia e globalizzazione. La cosa peggiore è che pensiamo in modo vecchio».
L’Europa può dissolversi?
«Sì, se permettiamo a Putin e Trump di guidare il gioco illudendoci di avere un dialogo quando non ci ascoltano».
Cosa vuole Putin?
«Putin non ha via d’uscita perché ha fatto così tanto male, causato la morte di così tante persone che non può più tornare indietro, può essere fermato solo con la forza e la solidarietà tra europei, non si può dargliela vinta».
Con Trump come si parla?
«Meglio non parlare con lui, ma osservare cosa fa ed eventualmente rispondere».
L’Occidente ha perso potere di attrazione, perché?
«Le ragioni fondamentali sono due: l’eccessivo benessere e la mancanza di idee su come dovrebbe essere il nostro futuro comune. Il nostro modo di affrontare le questioni dovrebbe avere un carattere sia continentale sia globale, perché né gli Usa né la Cina né altri risolveranno i problemi che affliggono il mondo. La nostra generazione ha avuto il privilegio o il destino, se preferisce, di poter capire cosa è giusto e cosa non lo è e noi invece di agire chiudiamo gli occhi di fronte alle grandi sfide. Opporsi vuol dire fare quel che sappiamo e rafforzare il nostro essere».
Da Est a Ovest le destre estreme non temono più di risvegliare nostalgie per i nazionalismi del passato.
«Queste forze populiste e demagogiche dominano perché non c’è un’opposizione efficace. Oggi le persone non credono più nella democrazia e quindi non la difendono. Dobbiamo salvarla. Ai partiti propongo semplici punti: limiti ai mandati, chi viene eletto può essere destituito, trasparenza sui finanziamenti nel senso più ampio possibile contro la disonestà così diffusa tra i politici.
Così si salva la democrazia facendo sì che le persone tornino ad appassionarsi. Oggi chiamiamo democrazia le libere elezioni ma non è solo questo. Bisogna ridefinire cosa vuol dire sinistra e cosa destra, in base a quali principi gli europei si uniranno di nuovo, su quali basi vogliamo costruire la globalizzazione, quale sistema economico possa rispondere ai nostri tempi moderni».
Dopo lo scontro con Zelensky ha paragonato l’approccio intimidatorio di Trump alle tecniche della polizia politica comunista.
«Quello che sta facendo è contrario a qualsiasi nostro ideale, è inammissibile. Abbiamo reso la democrazia una caricatura di se stessa. I politici ragionano in termini di mandato e di distretti elettorali, oggi non abbiamo politici con una visione, bensì molti politici in televisione».
L’Italia cerca un difficile equilibrio tra atlantismo ed europeismo: quale consiglio darebbe a Giorgia Meloni?
«L’Europa ha abolito le frontiere, superato guerre e rivoluzioni, è andata molto avanti e dovrebbe essere da esempio per altri continenti. L’America sta regredendo. È una risposta, questa».
(da Corriere della Sera)
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Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile
CON GLI STATI UNITI INAFFIDABILI AGLI OCCHI DEI LORO ALLEATI, PER IL DRAGONE SI APRONO PRATERIE… MARTIN WOLF: “ PERSINO L’EUROPA CERCHERÀ RELAZIONI PIÙ AMICHEVOLI CON PECHINO. L’“AMERICA FIRST” DI TRUMP FINIRÀ PER TRADURSI IN AMERICA DA SOLA” LAVORO
Nelle ultime due settimane ho visitato Pechino e Hong Kong. Questa visita mi ha reso
evidente che, nel mondo di oggi, gli Stati Uniti sono una potenza rivoluzionaria — o, più precisamente, reazionaria — mentre la Cina, che si definisce comunista, è una potenza di conservazione dello status quo.
Da questo punto di vista, l’Unione Europea ha molto in comune con la Cina. I governanti cinesi sono soddisfatti del modo in cui stanno andando il mondo e la Cina stessa. L’UE, invece, non è così compiaciuta.
Consapevoli delle sfide economiche e di sicurezza che affrontano, le élite europee sanno che è necessario un cambiamento profondo. Ma anch’esse preferiscono di gran lunga il mondo che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump sta cercando di distruggere rispetto al caos che sta cercando di creare. Ecco cosa ho imparato.
1) I miei interlocutori cinesi hanno paragonato i disordini odierni negli Stati Uniti alla loro stessa rivoluzione culturale, iniziata quasi sessant’anni fa. Mao Zedong sfruttò il suo prestigio di leader insurrezionale per fare guerra alle élite burocratiche e culturali della Cina.
Allo stesso modo, Trump sta utilizzando il suo potere in quanto leader eletto di un movimento insurrezionale per rovesciare le élite burocratiche e culturali degli Stati Uniti.
L’avversione profonda per la rivoluzione culturale è ampiamente condivisa, almeno tra i membri più anziani dell’élite cinese di oggi. E anche la rivoluzione di Trump non è affatto di loro gradimento.
2) Molti di coloro che riuscirono a fuggire dalla Cina degli anni Ottanta e Novanta per studiare nelle università d’élite dell’Occidente ammiravano i valori che vi scoprirono e speravano di vederli radicati anche nel proprio paese.
Lo Stato di diritto, la libertà personale e la scienza moderna apparivano loro ideali ammirevoli. Per queste persone, ciò che sta accadendo oggi in America è fonte di dolore. Questi rimpianti per il tradimento, da parte degli Stati Uniti, dei propri stessi principi non sono esclusivi della Cina.
3) I miei interlocutori riconoscono che ciò che sta accadendo agli Stati Uniti comporta vantaggi evidenti per la Cina. Ormai è chiaro a quasi tutti che la firma di Trump non ha alcun valore. Un uomo che cerca di demolire l’economia canadese non sarà un alleato affidabile per nessun altro.
Di conseguenza, le alleanze di cui gli Stati Uniti avranno bisogno per bilanciare l’influenza della Cina nella sua regione — o altrove — saranno probabilmente molto fragili. Questo vale anche per Giappone e Corea del Sud, per non parlare degli altri vicini.
In un simile contesto, la Cina, che è la principale potenza commerciale dell’Asia-Pacifico e una potenza militare in rapida ascesa, è destinata a dominare non solo la
regione, ma anche ben oltre. Persino l’Europa, preoccupata dalla Russia e apertamente abbandonata dagli Stati Uniti, cercherà relazioni più amichevoli con Pechino. L’“America First” di Trump finirà inevitabilmente per tradursi in America da sola.
4) Il successo di DeepSeek ha dato alla Cina una forte iniezione di fiducia. C’è la convinzione che gli Stati Uniti non siano più in grado di bloccare l’ascesa cinese. Un mio buon amico mi ha spiegato che Xi Jinping ha tre obiettivi fondamentali: la stabilità del regime, il progresso tecnologico e la crescita economica.
Oggi, la leadership cinese è ancora più fiduciosa nel secondo punto rispetto a qualche anno fa.
Molti osservatori ritengono che le sfide demografiche finiranno per distruggere l’economia cinese. Ma il problema attuale non è la carenza di lavoratori, bensì la carenza di buoni posti di lavoro. È un problema di domanda, non di offerta potenziale. E lo resterà ancora a lungo, a causa della sovrabbondanza di manodopera proveniente dalle aree rurali.
5) Questo problema di domanda è effettivamente di vasta portata, come ho sostenuto in passato, ma non è irrisolvibile. Nelle mie discussioni in Cina, l’attenzione si è concentrata su questioni relativamente a breve termine, come la debolezza del settore immobiliare, l’impatto del calo dei prezzi delle case sui bilanci familiari, le conseguenze di questi cambiamenti per le finanze delle autorità locali e il calo dei prezzi al dettaglio.
Tutti questi elementi ricordano l’economia giapponese nel periodo successivo allo scoppio della bolla immobiliare. Eppure, si tratta in realtà di problemi strutturali, non ciclici. La realtà di fondo è che la capacità di investire in modo produttivo l’enorme risparmio cinese (ancora oltre il 40% del PIL) è oggi crollata.
Una prova di ciò è il forte aumento dell’indice ICOR (Incremental Capital Output Ratio), cioè il rapporto tra il tasso di investimento e il tasso di crescita economica.
All’inizio di questo secolo, il problema della domanda interna fu in parte compensato da un enorme surplus delle partite correnti. Quando questo non fu più possibile, dopo la crisi finanziaria, il vuoto — ancora più ampio — venne colmato con un’ondata massiccia di investimenti nell’edilizia residenziale e nelle infrastrutture.
Ma ora il settore immobiliare è già in calo. E investire ulteriormente nella manifattura non farebbe che aumentare la capacità produttiva in eccesso, generando inevitabilmente nuove ondate di esportazioni cinesi e quindi protezionismo da parte dei paesi destinatari.
In questo contesto, anche gli europei finiranno per seguire l’esempio di Trump, proprio a causa della deviazione delle esportazioni cinesi verso i loro mercati come
effetto delle barriere imposte dagli Stati Uniti.
Oggi, i responsabili della politica economica cinese parlano di “investimenti nei consumi”. È un concetto interessante. Ma i requisiti principali sono chiari: ridurre il tasso di risparmio, spostare reddito verso le famiglie, sviluppare una rete di sicurezza sociale e aumentare la spesa pubblica per i consumi.
In sintesi, i cinesi sono convinti di poter resistere all’attacco di Trump. Anzi, molti ritengono che potrebbe perfino avvantaggiarli, minando la credibilità degli Stati Uniti e la percezione della loro competenza strategica. Questo non significa che la Cina sia destinata a trionfare, ma — come accade di solito per le grandi potenze — le sue sfide principali si trovano all’interno, non all’esterno.
Martin Wolf
per il “Financial Times”
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Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile
“I DAZI INEVITABILMENTE PORTANO ALLA RITORSIONE DA PARTE DEGLI ALTRI PAESI. IL RISULTATO? BARRIERE COMMERCIALI SEMPRE PIÙ ALTE E UNA CONCORRENZA SEMPRE PIÙ RIDOTTA”
Traduzione del celebre discorso di Ronald Reagan contro i dazi (1987)
Vedete, all’inizio, quando qualcuno propone di imporre dazi sulle importazioni straniere, sembra che stia facendo qualcosa di patriottico, proteggendo i prodotti e i posti di lavoro americani. E a volte, per un breve periodo, funziona. Ma solo per poco tempo.
Quello che succede, alla fine, è che le industrie nazionali iniziano a fare affidamento sulla protezione del governo, sotto forma di dazi doganali elevati. Smettono di competere, smettono di innovare nella gestione e di fare progressi tecnologici, che sono invece necessari per avere successo nei mercati globali. E mentre tutto questo accade, succede qualcosa di ancora peggiore: i dazi elevati inevitabilmente portano alla ritorsione da parte degli altri paesi e innescano violente guerre commerciali.
Il risultato? Sempre più dazi, barriere commerciali sempre più alte e una concorrenza sempre più ridotta. Così, ben presto, a causa dei prezzi artificialmente alti generati dai dazi, che sovvenzionano inefficienza e cattiva gestione, la gente smette di comprare.
Poi arriva il peggio: i mercati si riducono e crollano, aziende e industrie chiudono, e milioni di persone perdono il lavoro.
Il ricordo di tutto questo, accaduto negli anni ’30, mi rese determinato, quando arrivai a Washington, a risparmiare al popolo americano leggi protezionistiche che distruggono la prosperità.
Non è sempre stato facile. Ci sono membri del Congresso—proprio come ce n’erano negli anni ’30—che inseguono il vantaggio politico immediato, mettendo a rischio la prosperità dell’America per ottenere un consenso a breve termine da parte di qualche gruppo di interesse.
E questi dimenticano che più di 5 milioni di posti di lavoro americani sono direttamente legati all’export, e milioni di altri dipendono dalle importazioni.
Ma per noi che abbiamo vissuto la Grande Depressione, il ricordo delle sofferenze causate da quel periodo è profondo e bruciante. E oggi, molti economisti e storici sostengono che l’approvazione di leggi sui dazi elevati in quel periodo—come la tariffa Smoot-Hawley—abbia aggravato profondamente la depressione e impedito la ripresa economica.
(da agenzie)
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Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile
LA LEADER DEL RASSEMBLEMENT NATIONAL IMITA TRUMP: CHIAMA IL SUO POPOLO ALLA RIVOLTA CONTRO “IL GOVERNO DEI GIUDICI”… BASTEREBBE “ANDARE A TROVARE” A CASA QUESTA FECCIA DI ISTIGATORI A DELINQUERE E IN UNA NOTTE IL PROBLEMA SAREBBE RISOLTO
I tre magistrati del tribunale di Parigi che hanno condannato Marine Le Pen, e in particolare la presidente della corte Bénédicte de Perthuis, stanno ricevendo insulti e minacce. Gli attacchi più gravi con minacce di morte riguardano Perthuis, che è stata messa sotto protezione della polizia. Sui social si possono leggere messaggi come «giudichiamo la giudice», «ecco la giudice rossa» accanto alla sua foto, «ecco l’indirizzo, andiamola a trovare».
Le auto delle forze dell’ordine pattugliano le strade attorno alla sua abitazione da lunedì mattina, quando la magistrata ha pronunciato la sentenza. La condanna di Marine Le Pen e soprattutto la sua ineleggibilità hanno provocato reazioni molto dure e ancora ieri la leader del Rassemblement national ha detto che «tutta la sentenza è redatta in modo folle»
Il ministro della Giustizia, Gérald Darmanin, ha definito «inaccettabili in una democrazia» le minacce contro la magistrata, e anche l’esponente del Rassemblement national Jean-Philippe Tanguy, pur durissimo contro la sentenza, ha definito le minacce «opera di delinquenti che vanno perseguiti con la massima severità».
Bénédicte de Perthuis, 63 anni, si trova così al centro del caso che sta scuotendo la democrazia francese. All’estrema destra, chi l’attacca sottolinea che la magistrata anni fa ha cominciato a dedicarsi agli affari finanziari prendendo ispirazione da Eva Joly, la giudice anti-corruzione che poi è entrata in politica candidandosi tra gli ecologisti, con una connotazione quindi chiaramente di sinistra.
Ma se la figura di riferimento appartiene a uno schieramento, Bénédicte de Perthuis è una giudice stimata per preparazione, imparzialità ed esperienza. Dopo gli studi di contabilità, ha cominciato a lavorare in uno studio di consulenza prima di sostenere con successo a 37 anni il concorso per l’ingresso in magistratura.
Ha iniziato come giudice del tribunale di famiglia a Le Havre, poi è diventata giudice istruttore a Pontoise prima di entrare nella sezione del tribunale di Parigi specializzata in casi finanziari. Qualche anno dopo, a capo della sezione, ha condannato l’ex ministro dell’Interno Claude Guéant, ex braccio destro di Nicolas Sarkozy, nel 2015.
(da Il Corriere della Sera)
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Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile
ZAIA E FEDRIGA INVOCANO UNA NEGOZIAZIONE “A LIVELLO EUROPEO” PER EVITARE DI FINIRE STRITOLATI: “SI RISCHIA IL GIORNO DI UN NUOVO ‘CIGNO NERO’ DOPO PANDEMIA, GUERRA IN UCRAINA E GUERRA IN ISRAELE”
“Sono preoccupato, bisogna vedere cosa faranno gli Stati Uniti, sicuramente è
importante che a livello nazionale ed europeo si intavoli subito una negoziazione con l’amministrazione statunitense. I dazi non fanno bene all’Europa e non fanno bene agli Stati Uniti”. Lo ha detto oggi a Trieste il presidente del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga.
Il governatore leghista (che è anche presidente della Conferenza delle Regioni) intervenuto all’indomani dell’allarme lanciato da un altro presidente del Carroccio di una regione del Nord come Luca Zaia, che aveva parlato di “rischio cigno nero”.
“Siamo alla vigilia di un giorno cruciale per l’economia mondiale. Se saranno confermati i dazi universali al 20% per tutti gli scambi commerciali con gli usa, il 2 aprile rischia di non essere il ‘giorno della liberazione’ annunciato da Trump, ma il giorno di un nuovo cigno nero, dopo la pandemia e le guerre in Ucraina e Israele.
Sarà un giorno che resterà nella storia economica e geopolitica del mondo. Ho voluto approfondire perciò i rischi che correrebbe l’economia veneta dai dazi americani, e i dati sono impressionanti. L’Italia ha da sempre un rapporto privilegiato con gli Stati uniti: per questo bisogna trovare a breve un accordo, in forza del legame esistente e oggi politicamente più forte che mai”.
Mentre in Lombardia, il Consiglio regionale ha bocciato una mozione del Pd che chiedeva alla Regione di schierarsi contro i dazi americani esprimendo al governo “forte preoccupazione e netta contrarietà”.
Come aveva spiegato in mattinata il primo firmatario Matteo Piloni, con la mozione i dem chiedevano al governatore Attilio Fontana “non solo di dichiararsi preoccupato ma anche contrario” visto che se arriveranno i dazi “peseranno su tanti comparti che riguardano soprattutto la Lombardia”.
Tutto il centrodestra ha votato contro parlando di una mozione “strumentale” visto che ancora non è chiaro se, quando e come i dazi verranno applicato. “Quella di Zaia
è una invocazione sterile, che neppure viene ascoltata dai suoi ministri e dai suoi consiglieri regionali, che anzi tifano per Trump”, l’accusa del Pd.
(da agenzie)
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Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile
LA DUCETTA VORREBBE NEGOZIARE “SCONTI” SUI DAZI AMERICANI ALL’ITALIA, MA DEVE STARE ATTENTA A NON IRRITARE BRUXELLES, CHE CON IL PNRR SOSTIENE IL PIL ITALIANO
Vance prepara un viaggio in Italia. A Roma sarà la prima trasferta ufficiale del vice di Trump nel vecchio continente, nelle cui cancellerie non annovera troppi estimatori.
È previsto un incontro bilaterale con la premier Giorgia Meloni. E soprattutto il vero obiettivo del volo transoceanico: omaggiare Papa Francesco, se le condizioni di salute del Santo padre lo permetteranno.
Vance, cattolico, convertitosi nel 2019 leggendo la “Città di Dio” di sant’Agostino, è atteso nell’Urbe con la moglie Usha. La data della trasferta non è casuale: dal 18 al 20 aprile, a cavallo tra il venerdì santo e la Pasqua. Il motivo è chiaro, essere ricevuto dal Papa.
Anche se la Santa sede ancora ieri definiva «prematuri » i tempi per confermare la presenza di Bergoglio ai riti della Settimana Santa. Il numero due di The Donald
potrebbe alloggiare a Villa Taverna.
Da lì, dagli uffici diplomatici americani, ieri è partita una nota verbale, indirizzata alla Farnesina, per organizzare la visita e chiedere di mettere in agenda l’incontro con la premier.
Gli staff di Meloni e Vance si erano già consultati, almeno da 5 giorni, per discutere del viaggio. Palazzo Chigi esclude però un contatto diretto tra la presidente del consiglio e il vicepresidente Usa.
Nel bilaterale si parlerà naturalmente dei dazi, se le complicate trattative tra Bruxelles e Washington non saranno riuscite prima a sminare il dossier.
La premier potrebbe finalmente chiedere a Vance, a tu per tu, chiarimenti sulla strategia delle tariffe americana, visto che finora è rimasta cauta, dichiarando di attendere i «dettagli».
Possibile che si parli pure di Starlink, trattativa che la Lega difende a spada tratta, mentre FdI da tempo ha frenato.
È comunque una visita delicata, per Meloni. Che ha espresso apprezzamento per le esternazioni di Vance, sia alla Cpac americana di febbraio, sia nell’intervista della settimana scorsa al Financial Times .
Ma la premier deve anche mediare con gli alleati di Bruxelles su un mucchio di partite, come l’immigrazione, e dunque sarà un intricato esercizio di equilibrio mostrarsi al fianco del vicepresidente Usa, che meno di due mesi fa, dalla conferenza sulla sicurezza di Monaco, aveva lanciato accuse ruvide ai governanti Ue. E che di «europei parassiti» parlava con il segretario alla difesa, Pete Hegseth, nelle chat svelate da The Atlantic .
Ci sono poi i risvolti italiani, che la premier deve gestire. Matteo Salvini non ha intenzione di fare da spettatore, visto che è stato il primo politico italiano a parlare con Vance, dieci giorni fa.
Ovviamente vuole stringergli la mano. «Vance in Italia? Ho ottimi rapporti ma non mi comunica la sua agenda. Sarebbe per me un’opportunità incontrarlo», ha commentato ieri, da Torino.
Intuendo forse i desideri del leghista, Meloni si è già attivata. E d’accordo con l’altro vice, il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, si è ipotizzato un formato che prevede un incontro tête-à-tête di Meloni con Vance e poi un vertice allargato ai due vicepremier. Non è l’unico colpo a stelle e strisce a cui lavora Salvini. Secondo fonti di via Bellerio, da giorni l’ entourage del leghista corteggia Elon Musk, per portarlo in video al congresso del weekend a Firenze.
(da agenzie)
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Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile
UNA DECISIONE CHE ARRIVA MENTRE IL CALIGOLA DI MAR-A-LAGO CHIUDE PROGRAMMI DI ACCOGLIENZA PER PERSONE PROVENIENTI DA AFGHANISTAN CONGO E SIRIA, E TOGLIE IL PERMESSO DI SOGGIORNO AGLI STUDENTI MUSULMANI
L’Amministrazione Usa ha avviato un programma ad hoc per il reinsediamento dei
rifugiati. Si chiama “Missione Sudafrica” e l’obiettivo è quello di aiutare i sudafricani bianchi a entrare negli Stati Uniti come rifugiati. Trump lo ha lanciato pochi giorni dopo essersi insediato alla Casa Bianca mentre chiudeva programmi di accoglienza simili per persone provenienti da altri Paesi, come Afghanistan, Congo e Siria. In totale 20 mila persone con già i documenti pronti per entrare negli Usa sono state bloccate
Sono al momento 8200 le domande di reinsediamento negli Stati Uniti. Attualmente gli esperti statunitensi hanno individuato 100 afrikaner con i requisiti per ottenere lo status di rifugiato. La missione principale dei funzionari è quella di fare una valutazione degli agricoltori bianchi. Fra due settimane scatterà la seconda fase quando gli esperti proporranno «soluzioni a lungo termine per garantire il successo» dei piani per il reinsediamento degli afrikaner ritenuti idonei.
Il programma catapulta gli Stati Uniti in un acceso dibattito all’interno del Sudafrica, dove alcuni membri della minoranza bianca afrikaner hanno avviato una campagna per suggerire che sono loro le vere vittime del Sudafrica post-apartheid. Fra gli esempi vengono citati anche gli omicidi di alcuni agricoltori bianchi. È una teoria che è stata sostenuta anche da Elon Musk, che è nato in Sud Africa ma non ha origini Afrikaner.
Già nel primo mandato presidenziale fra il 2017 e il 2021, il presidente aveva attaccato il governo di Pretoria accusandolo «di sottrarre le terre ai bianchi». Questa volta Trump ha fatto riferimento all’Expropriation Act, una legge da poco approvata dal governo sudafricano che abroga una norma risalente all’Apartheid e consente al governo, in determinati casi, di acquisire terreni privati nell’interesse pubblico, senza pagare indennizzi. Il Dipartimento di Stato ha diramato una nota in cui si dice concentrato sul reinsediamento degli afrikaner che sono «stati vittime di ingiusta discriminazione razziale».
Le relazioni fra Usa e Sud Africa sono ai minimi. Pretoria è attualmente presidente di turno del G20, le riunioni dei ministri degli Esteri e del Commercio sono state boicottate dai rappresentanti di Washington. Le ragioni non sono solo legate alla tutela (così la vede l’America) degli afrikaner, quanto anche alle posizioni contro Israele di cui il governo sudafricano si è fatto portavoce a livello internazionale e in sede Onu. […] Il 15 marzo scorso l’ambasciatore sudafricano a Washington, Ebrahim Rasool è stato definito “persona non grata” e invitato a lasciare il Paese. Rasool aveva parlato di un’Amministrazione circondata da suprematisti bianchi.
Intanto proseguono le operazioni per stroncare l’immigrazione illegale e per i rimpatri. Altri 17 salvadoregni ritenuti membri della gang M-13 sono stati rimpatriati. Mentre la Casa Bianca ha mostrato dei dati che evidenziano come gli ingressi dal confine meridionale siano stati in marzo circa settemila, il più basso da decenni.
Secondo quanto risulta a La Stampa, le autorità d’immigrazione starebbero cancellando lo status migratorio di numerosi studenti internazionali negli Stati Uniti, senza avvisarli o notificare in anticipo le loro università. La maggior parte degli studenti a cui è stato sospeso lo status migratorio proviene dal Medio Oriente e da Paesi a maggioranza musulmana.
(da agenzie)
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Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile
“LA POLITICA COMMERCIALE È COMPETENZA DELLA COMMISSIONE EUROPEA” – TAJANI SULLA STESSA LINEA: “L’ITALIA NON PUÒ FARE DA SÉ. PUÒ ESSERCI DIALOGO SU ALTRE QUESTIONI. POSSIAMO AVERE UNA POLITICA COMMERCIALE NAZIONALE, MA I DAZI LI FA L’EUROPA”
A proposito di governo, il vicepremier Antonio Tajani è attendista e invita a una risposta europea, non nazionale. “Non dobbiamo piegare la testa, ma neanche essere antiamericani. Bisogna trovare una soluzione che permetta a tutte le imprese italiane di non subire danni. I dazi non fanno bene a nessuno. Non possiamo trattare a livello nazionale”, ha detto il ministro degli Esteri.
“L’Italia non può fare da sé, – ha aggiunto – è competenza Ue. Può esserci dialogo su altre questioni. Possiamo avere una politica commerciale nazionale, ma i dazi li fa l’Europa”.
Anche per il ministro delle Imprese e del made in Italy Adolfo Urso la politica commerciale è “competenza della Commissione europea”, quindi la risposta ai dazi Usa deve essere dell’Ue.
Parole che non sono sfuggite al senatore di Italia viva Enrico Borghi che affonda il colpo: “Il ministro Urso ha smentito clamorosamente la Lega sul tema dei dazi, chiudendo la strada a qualsiasi trattativa bilaterale con gli Stati Uniti”.
(da agenzie)
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