Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile
AUMENTERANNO I PREZZI CON BILANCI FAMILIARI GIA’ AL LIMITE
Nelle prossime ore Donald Trump è pronto a mettere a repentaglio il successo del suo secondo mandato, l’economia e le finanze personali di milioni di americani, basandosi sulla sua convinzione di lunga data che i dazi possano ricreare un’epoca d’oro di ricchezza e indipendenza per gli Stati Uniti.
La leadership volubile di Trump è tale che nulla è certo finché non accade. E gli ordini decisi, soprattutto sul commercio, vengono spesso revocati non appena vengono impartiti
Ma Trump promette che mercoledì 2 aprile sarà il “Giorno della Liberazione”, quando imporrà tariffe reciproche dollaro per dollaro alle nazioni che impongono dazi sui prodotti statunitensi.
La sua mossa più robusta finora per trasformare il sistema commerciale globale potrebbe finire per avere ripercussioni su ogni americano, facendo aumentare i prezzi in un momento in cui i bilanci familiari sono già al limite. Ma il presidente sta chiedendo a tutti di accettare una strategia che promette allettanti benefici futuri ma richiede sacrifici per gli anni a venire.
Le politiche di guerra commerciale di Trump hanno già spazzato via trilioni di dollari di mercati azionari (il Dow Jones Industrial Average è crollato di 700 punti solo venerdì) e hanno peggiorato i timori di una recessione mentre la fiducia dei consumatori cala. Ha anche alienato gli alleati degli Stati Uniti mentre la sua politica estera inizia a smantellare il sistema di alleanze occidentale.
Con l’avvicinarsi della scadenza di mercoledì, il presidente sta ulteriormente danneggiando la fiducia da cui dipende la stabilità economica, sollevando aspettative contraddittorie, suggerendo, ad esempio, che alcune nazioni o industrie potrebbero ottenere delle deroghe alle nuove tariffe. La sua leadership da colpo di frusta rischia di danneggiare tanto quanto le politiche stesse.
Trump sostiene che imponendo tariffe sulle importazioni costringerà le aziende a trasferire la produzione e le catene di fornitura negli Stati Uniti, creando così posti di lavoro e rilanciando le regioni lasciate indigenti dalla globalizzazione.
Il rovescio della medaglia, tuttavia, è che le tariffe faranno aumentare i prezzi per i consumatori stanchi dell’alto costo della vita. E non c’è garanzia che le aziende riporteranno la produzione negli Stati Uniti, poiché un tale riorientamento richiederebbe anni e presumibilmente sopravvivrebbe al periodo di Trump al potere.
Se il presidente andrà fino in fondo, correrà un enorme rischio politico. Ma sembra ignaro del potenziale impatto. In un sorprendente commento a Kristen Welker della NBC News di sabato, il miliardario che guida un gabinetto di miliardari e milionari è stato indifferente agli aumenti del costo delle auto causati dalle sue nuove tariffe industriali.
“Non potrebbe importarmi di meno se aumentano i prezzi, perché la gente inizierà a comprare auto americane”, ha detto Trump in un’intervista telefonica. “Non potrebbe importarmi di meno, perché se i prezzi delle auto straniere salgono, compreranno auto americane”.
Il suo atteggiamento rischia di scatenare una reazione politica, mentre i repubblicani sono già diffidenti riguardo all’impatto elettorale del rallentamento dell’economia e delle politiche di Trump, con le elezioni speciali in Florida per la Camera di questa
settimana che minacciano di mettere in imbarazzo il partito.
La visione di Trump ignora anche la complessità delle tariffe automobilistiche del 25% che entreranno in vigore questa settimana. I processi di produzione sono profondamente integrati con gli stabilimenti in Messico e Canada. Ciò significa che la maggior parte delle auto costruite negli Stati Uniti diventerà più costosa.
E mentre in teoria un’auto prodotta negli Stati Uniti in futuro potrebbe essere immune dalle tariffe, i costi di produzione più elevati e gli investimenti necessari per localizzare la produzione esclusivamente all’interno degli Stati Uniti saranno trasferiti ai consumatori. Negli anni successivi, il prezzo delle auto nuove sarà più alto di migliaia di dollari, rischiando di tagliare posti di lavoro nel settore.
La convinzione di Trump nel potere quasi mistico dei dazi doganali è radicata nella sua visione del mondo di vincitori e vinti e nella sua convinzione che gli Stati Uniti siano stati a lungo truffati dalle potenze europee e asiatiche che proteggono le loro industrie.
“Faremo pagare i paesi per aver fatto affari nel nostro paese e per averci rubato il lavoro, la ricchezza, un sacco di cose che ci hanno rubato nel corso degli anni”, ha detto Trump ai giornalisti la scorsa settimana. “Hanno rubato così tanto al nostro paese, amici e nemici”.
La politica tariffaria è vecchia quanto gli Stati Uniti. Ma molti economisti incolpano la politica commerciale restrittiva per aver causato immense difficoltà durante la Grande Depressione degli anni ’30, e il periodo successivo alla Seconda guerra mondiale ha visto il graduale abbassamento delle barriere commerciali prima di una radicale riorganizzazione del commercio globale all’alba del XXI secolo.
Trump si rifiuta di accettare il consenso economico secondo cui i dazi causano prezzi più alti perché gli importatori scaricano i costi dei dazi aggiuntivi sui consumatori. Questa è una preoccupazione particolare poiché gli elettori non hanno avuto molto sollievo dagli aumenti del costo dei beni essenziali durante gli anni della pandemia. L’inflazione potrebbe essersi attenuata, nonostante i segnali di un nuovo aumento, ma il costo della vita non è tornato a dove era cinque anni fa.
L’obiettivo del presidente di provare a rilanciare le prospettive economiche nelle aree colpite dalla perdita di fabbriche è lodevole. La trasformazione economica provocata dalla globalizzazione è stata dolorosa, ha spogliato le comunità di prospettive e ha contribuito all’epidemia di oppioidi. I funzionari dell’amministrazione sostengono che le politiche di Trump ripristineranno le Main Street segnate da file di negozi chiusi.
Il senso di smarrimento nelle aree della Rust Belt ha alimentato l’ascesa politica di Trump, che è riuscito a far leva sulla rabbia degli americani comuni in modo più
efficace rispetto ad altri politici della sua generazione.
Non c’è dubbio che le promesse dei funzionari del passato sul potere della globalizzazione di rendere ogni singolo americano più ricco non siano state confermate dai risultati. E la trasformazione commerciale di Trump è alimentata da quelle promesse infrante.
Uno degli argomenti a favore dell’espansione del libero scambio e dell’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio, ad esempio, era che avrebbe liberalizzato il gigante comunista e lo avrebbe reso meno minaccioso per gli Stati Uniti. Ma c’era anche un argomento economico, secondo cui avrebbe reso i posti di lavoro negli Stati Uniti più sicuri.
“Per la prima volta, le nostre aziende saranno in grado di vendere e distribuire in Cina prodotti realizzati da lavoratori qui in America senza essere costrette a trasferire la produzione in Cina, a vendere tramite il governo cinese o a trasferire tecnologie preziose”, ha affermato il presidente Bill Clinton nel marzo 2000. “Saremo in grado di esportare prodotti senza esportare posti di lavoro”.
Quell’argomento sembra vuoto a molti americani dopo un quarto di secolo. E mentre sembrava logico cercare di promuovere la riforma politica in Cina attraverso la politica economica, Pechino ha invece utilizzato concessioni commerciali per finanziare la sua ascesa allo status di superpotenza e per consolidare il suo stato interno repressivo.
Ma la visione idealizzata del presidente della futura economia statunitense è realistica?
Ricreare l’idillio manifatturiero americano degli anni ’50 è un’impresa ardua in un’epoca in cui il vantaggio competitivo e la potenza economica degli Stati Uniti si concentrano sul settore dei servizi, sulla tecnologia e sulla crescita di posti di lavoro e di commercio basati sull’intelligenza artificiale.
Anche se altre economie, come ad esempio il Canada, rischiano di perdere in una guerra commerciale con i più potenti Stati Uniti, potrebbero comunque infliggere grandi danni ai consumatori americani.
E l’imprevedibilità di Trump (prorogare le scadenze, offrire eccezioni ai dazi, invertire la rotta e poi raddoppiare gli sforzi) è anch’essa controproducente, e non solo perché ha colpito duramente i risparmi pensionistici di mercato di milioni di americani.
Lo spettro di un politico volatile che cerca di manipolare personalmente l’economia globale secondo i suoi capricci orari rischia di essere un disastro. E sta alimentando l’incertezza che scoraggerà i produttori dal tornare a casa.
Ci sono anche dubbi sul fatto che il presidente intenda impegnarsi in questa iniziativa per un lungo periodo e che sia disposto a pagare il prezzo politico ed economico per rimodellare l’economia globale. Alcuni segnali lo suggeriscono.
“L’accesso a beni a basso costo non è l’essenza del sogno americano”, ha detto il Segretario del Tesoro Scott Bessent all’Economic Club di New York questo mese. “Il sogno americano è radicato nel concetto che qualsiasi cittadino può raggiungere prosperità, mobilità sociale e sicurezza economica. Per troppo tempo, i protagonisti di accordi commerciali multilaterali hanno perso di vista questo aspetto. Le relazioni economiche internazionali che non funzionano per il popolo americano devono essere riesaminate”.
Ma molti repubblicani sperano che Trump stia semplicemente usando i dazi come leva per dare impulso alla sua favolosa ricerca di “accordi”.
“Con il presidente Trump, è tutto un negoziato per vedere cosa faremo a lungo termine”, ha detto il senatore James Lankford a Dana Bash della CNN su “State of the Union” domenica. “Sento che in un certo senso nell’economia questo è un po’ come una ristrutturazione della cucina o del bagno”.
Il repubblicano dell’Oklahoma ha aggiunto: “Sarà rumoroso per un po’, ma sappiamo tutti dove stiamo andando: cercare di ridurre i prezzi per gli americani e aumentare i posti di lavoro”.
Ma altri sono meno ottimisti di Lankford, poiché la Casa Bianca si rifiuta di accettare che i dazi aumentino i prezzi, evocando invece uno scenario utopico in cui i dazi all’importazione creano enormi profitti finanziando tagli fiscali, prezzi ridotti e un’enorme e immediata creazione di posti di lavoro.
“Ci sarà una — già una grande corsa per riempire quelle fabbriche. E vedremo la produzione nazionale sostituire rapidamente questo contenuto estero”, ha detto giovedì Peter Navarro, consigliere senior per il commercio e la produzione della Casa Bianca, a Kasie Hunt della CNN.
“Vedremo i salari salire… Le tariffe produrranno poco più di 100 miliardi di dollari solo sulle auto. E una delle cose che i tagli fiscali faranno è fornire sgravi fiscali a chiunque acquisti un’auto prodotta in America. Allo stesso tempo, stiamo abbassando i prezzi della benzina e 1 dollaro in meno di benzina equivale a circa 1.000 dollari in più nelle tasche delle persone. Quindi, stiamo guardando il quadro generale”.
Navarro ha ampliato questa visione nel programma “Fox News Sunday” quando è stato incalzato dall’ammissione dello stesso presidente secondo cui i dazi avrebbero causato qualche “problema”. “Fidatevi di Trump”, ha detto Navarro.
Ma per molti investitori e consumatori, quella fiducia è già andata in frantumi a causa della volatilità del presidente. I prossimi giorni saranno probabilmente turbolenti
Stephen Collinson
(da CNN)
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Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile
BREVE STORIA DI CALENDA
Tecnicamente Calenda è un politico fallito. Breve storia di Calenda: giovanissimo
impiegato nella Ferrari di Montezemolo, che è amico di papà, poi in Sky, indi assistente del presidente in Confindustria, si innamora di Italia futura, si candida con Scelta civica di Monti e non viene eletto, diventa viceministro di Letta e Renzi, poi dallo stesso Renzi è fatto Rappresentante permanente presso la Ue (230 diplomatici insorgono con Renzi: “Non ci s’improvvisa ambasciatori”), dunque de plano ministro allo Sviluppo economico; prende la tessera del Pd, si fa eleggere al Parlamento europeo coi voti del Pd ma con un simbolo proprio (“Siamo europei”); pochi mesi dopo, alla formazione del Conte-2, lascia il Pd con una piazzata da sciantosa, cambia nome al suo partito (“Azione”) restando beninteso europarlamentare del Pd, spalleggia Renzi alle Regionali al solo scopo di togliere voti al Pd, si candida a fare il sindaco di Roma pretendendo i voti del Pd, comincia a girare le inesplorate periferie di Roma importunando gli indigeni affinché lo votino, arriva terzo su tre, annuncia che non farà il consigliere comunale, buttando a fiume 220 mila voti di romani, salvo poi ripensarci, salvo poi ri-ripensarci e rinunciare (il suo slogan era: “Roma, sul serio”), si mette in proprio, imbarca le berlusconiane Carfagna e Gelmini, diventa draghiano importando nel programma di Azione l’invisibile “Agenda Draghi”. Tanta coerenza va premiata: nel 2022 Letta gli apre le porte del Pd, si baciano in pubblico. I giornali negli anni lo hanno talmente gonfiato (febbraio 2019, titolo di HuffPost: “Calenda punta a superare il 30% alle Europee”) che ha finito per crederci anche lui; quando i sondaggi interni gli presentano un misero 5-6%, dopato pure dalla sovraesposizione, fa marcia indietro. “Mi pare che l’unico alleato possibile per Calenda sia Calenda”, twitta Enrico Letta; una battuta sagace su uno che fino a un minuto prima voleva come alleato al punto da regalargli il 30% dei seggi (in effetti Calenda su Twitter ha il 30%), perché Carlo sarebbe stato un “magnete per i voti di centrodestra”.
Lasciato Letta, Calenda si sente di non essere più di centrosinistra ma di centro estremo e si mette con Renzi, che gli sembra un giovane promettente (“Renzi è
inaccettabile sul piano etico” e “mi vergogno di aver lavorato con lui”, aveva detto tempo prima). All’insegna dell’elogio del merito e della cancellazione del Reddito di cittadinanza (il figlio di papà col culo al caldo odia i fancazzisti), fondano il “Terzo Polo”, che poi è Sesto anche se i giornali continuano a chiamarlo Terzo per accarezzare l’ego straripante dei due, che sommato dà il 78% anche se poi portano ciascuno tra il 2 e il 3% dei voti, buttali via.
Verificata una certa incompatibilità caratteriale, si separano civilmente: Calenda: “Io non ho mai ricevuto avvisi di garanzia/rinvii a giudizio/condanne, non ho accettato soldi da dittatori e autocrati stranieri, da speculatori stranieri e intrallazzatori”; Renzi lo ignora, ma La Stampa “ruba” una sua frase: “Calenda è pazzo, ha sbagliato pillole”). Quindi Carlo si vota alla causa bellicista atlantista e porta in Tv la sua
strenua opposizione al governo Meloni: “La posizione di Meloni nei confronti degli Stati Uniti è da italiota”, “una nuova tipologia del fascio codardo”, senza contare che Meloni “per tutta la sua vita ci ha rotto i coglioni con la dignità nazionale e la forza della nazione”. I giornali ci credono molto: chiamano Renzi e Calenda “l’opposizione”.
Ed eccolo l’altro giorno, al congresso di Azione (che poi è composto da Calenda e da qualche altra frattaglia politica, tipo l’ex renziano Rosato; se ne sono andate pure le berlusconiane), inveire istericamente contro il M5S per il diletto dell’ospite d’onore, una ridanciana Giorgia Meloni accompagnata dai suoi pretoriani.
Questa coerente, tetragona biografia dà a Calenda l’agio di definire Conte un “trasformista”. E di scegliere, dopo aver tentato una carriera prima nel centrosinistra, poi nella sinistra, poi nel centro, l’ultima opzione che gli era rimasta: fallire anche nell’estrema destra. Ah: la cosa divertente è che Enrico Letta si fiondò su questo pompatissimo fenomeno mediatico, che con la sua quota di liberalità “centrista e riformista” avrebbe portato la socialdemocrazia nel Pd, per “non lasciare il Paese alla Meloni”. La quale, pur di rimpiazzare il bollito lesso Salvini, evidentemente si accontenta pure di Calenda, sperando che con il suo partito di plastica e le sue bizze da ricco possa portare un gruzzoletto di voti, magari quelli dei residenti dei quartieri a nord di Magliana-Garbatella. In fondo condividono l’amore per le armi (premio della critica a Crosetto che si alza in piedi ad applaudire il leader dei Parioli che vuole “cancellare il M5S” come uno zio ubriaco al momento del brindisi a un matrimonio) e la grande truffa liberale del “merito”. E il merito va premiato.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile
LISTE D’ATTESA INFINITE PER ESAMI ED OPERAZIONI…E MANCANO I MEDICI PER STENDERE GLI ESITI DI ESAMI CRUCIALI CON CONSEGUENZE DEVASTANTI… DA NORD A SUD LA SANITA’ PUBBLICA COLLASSA
La prego, ci possiamo sentire domani? Perché ieri ho fatto la chemio e oggi sono molto stanca». Maria Cristina Gallo ha 56 anni. Docente di storia e italiano in un istituto di Mazara del Vallo, provincia di Trapani, ai suoi alunni ripete sempre di «lottare per le cose giuste, anche se sono difficili». Lei ha dovuto attendere otto mesi l’esito di un esame istologico, solo che intanto il tumore è avanzato e ora, giunta alla diciassettesima chemio, si trova a dover combattere contro il tempo. «Se il referto me lo avessero mandato prima – racconta al telefono con la voce strozzata – ora non sarei al quarto stadio di malattia». Operata il 14 dicembre 2023, dopo continuava a chiedere il referto, ma puntualmente non trovava risposte. «Ad agosto 2024, alla quarta mail mandata dal mio legale – racconta – sono riuscita a farmi mandare l’esito dall’Asp ed è stato terribile».
L’Asp è l’azienda sanitaria provinciale di Trapani, guidata dal meloniano Ferdinando Croce, già candidato, nel 2022, alle elezioni regionali. Il 15 marzo scorso qui sono arrivati gli ispettori della Regione e il 18, quelli del ministero. Nel documento inviato dall’assessorato alla Salute, al presidente della Regione Sicilia, Renato Schifani, si parla di «sussistenza dei disservizi registrati sia nella Uoc (unità operativa complessa) di anatomia patologica dell’ospedale di Trapani, che nella Uos (unità operativa semplice) del presidio ospedaliero di Castelvetrano». Si parla di referti istologici giunti in ritardo, ben otto mesi dopo, rispetto ai tempi medi di attesa, tra i 15 e i 20 giorni. Dietro a questo ci sarebbe una catena di «grave gestione» da parte della dirigenza generale dell’Asp con ritardi, omissioni, informazioni parziali, comunicazioni non tempestive.
Come emerge dagli atti, erano 1.405 i campioni non ancora repertati del 2024 e 1.908 nel 2025. «Sono emersi referti con diagnosi per diverse patologie neoplastiche», si legge. Su oltre 3.000 campioni istologici, quelli risultati positivi a patologie tumorali sono 206. Ma nel mese di ottobre 2023 – ben due anni fa – come risulta dalla relazione degli ispettori della Regione, era stato l’allora direttore sanitario aziendale a chiedere un «audit per verificare e superare le difficoltà relative ai ritardi, già allora esistenti nella refertazione di esami anatomo-patologici», del pronto soccorso di Castelvetrano. «L’organizzazione interna non è ottimizzata per una gestione fluida e tempestiva delle pratiche istologiche: le problematiche nel coordinamento delle attività tra il personale e la carenza di un sistema di monitoraggio in tempo reale delle attività diagnostiche hanno aumentato i tempi di attesa». Lo snodo cruciale, quindi, sarebbe la carenza di medici in grado di “leggere” i vetrini processati e di stendere i referti. «Tutto ciò ha conseguenze devastanti e delittuose – dice Maria Cristina – ora mi curano semplicemente, e sperano solo di potermi salvare».
Dalla Sicilia saliamo al Nord. In Lombardia il problema più sentito, stando a un sondaggio condotto i primi di marzo scorso, da Youtrend, è la difficoltà a ottenere visite ed esami. Il 56 per cento dei cittadini lombardi esprime un giudizio negativo sulla sanità regionale e per le liste d’attesa troppo lunghe, il 57 per cento attribuisce la responsabilità alla Regione. Per la carenza dei medici e del personale sanitario invece, il 58 per cento ritiene che sia colpa del Governo italiano.
In Italia mancano oltre 5.500 medici di base e tra le situazioni più critiche c’è, checché se ne dica, il Veneto retto da Luca Zaia. Al pronto soccorso di Portogruaro (Venezia), una donna di 83 anni ha atteso tredici ore prima di essere ricoverata. Per non parlare delle liste d’attesa. Raffaella Buziol di Treviso, per la madre ultrasettantenne malata oncologica, ha aspettato due anni una colonscopia. Alla fine stremata, è stata costretta a rivolgersi a un privato che le è costato 252 euro. «Due anni in attesa per un malato oncologico – sbotta – è una cosa vergognosa. Ma questi si rendono conto? C’è da piangere. Devono vergognarsi, moltissimo credo. Se uno ha la pensione minima come può permettersi 300 euro di colonscopia? Il ministro della Sanità si rende conto? Questa gente deve capire come noi viviamo ogni giorno. È una routine di disperazione».
Un sistema, quello sanitario nazionale, ormai logoro che non risparmia nessuna regione. E dal Nord torniamo al Sud perché in Calabria ci sono persone che rinunciano addirittura a curarsi. «Per il pubblico ci vuole tempo – dice Fiore Isabella, presidente del Tribunale per i diritti del Malato di Lamezia Terme – e per il privato ci vogliono i soldi. Chi non li ha, non si cura. Come dobbiamo fare, mi chiedono, se per
una visita dobbiamo aspettare sette mesi? In Calabria si vive così. Una crisi totale. Io dovevo fare una Tac l’altro giorno al policlinico universitario di Catanzaro. L’appuntamento era alle 14.45. Mi hanno chiamato alle 17.45 perché di due Tac al policlinico, una è rotta. Al policlinico, ci rendiamo conto?». Lui ha scritto una lunga lettera al procuratore di Catanzaro, Salvatore Curcio, per denunciare lo stato catastrofico del sistema delle prenotazioni. «Un’enorme platea di cittadini e cittadine calabresi – scrive – particolarmente fragili, hanno scelto di rassegnarsi piuttosto che resistere».
Anche nelle Marche, stando ai dati emersi dal rapporto dell’Osservatorio Gimbe, nel 2023, il 9,7 per cento dei cittadini marchigiani ha rinunciato a curarsi a causa delle lunghe liste d’attesa. Un dato ben oltre la media nazionale che è del 7,6 per cento. Ma Carlo Perticarini, tecnico universitario, 43 anni di Porto San Giorgio (Fermo), non può rinunciare e ha assolutamente bisogno di farsi operare. Rimasto vittima, nel dicembre 2023, di un incidente, da allora vive senza un pezzo di testa. Le immagini sono impressionanti. Una profonda fossa che gli segna una incavatura, perché gli manca una parte importante di opercolo, ossia una porzione di lembo osseo. Eppure è vivo, ci sente, mangia, ride, parla, dorme. Il suo pezzo di testa mancante «è in un congelatore dell’ospedale di Fabriano», racconta. Per l’operazione è in lista da aprile 2024 e ora, stremato, si è rivolto a un privato. «Sono stato costretto a fare una visita a pagamento per farmi operare in una clinica di Pesaro che andrà a riattaccarmi l’opercolo». La visita gli è costata 202 euro. Più 20 euro di auto medica perché lui non può guidare.
Dalle Marche ci spostiamo un attimo nel Lazio. E qui Rita Basso racconta la sua storia. La figlia di 42 anni, Amina, è costretta a letto a causa di una diagnosi errata. Da piccola le avevano diagnosticato un tumore maligno. La radioterapia fu devastante. Ma anni dopo, durante un intervento chirurgico, venne scoperto che quel tumore era benigno. I giorni di Rita, da quarant’anni a questa parte, sono tutti uguali. E nonostante una sentenza del tribunale di Roma che stabilisce il diritto a un’assistenza infermieristica domiciliare 24 ore su 24, la realtà è ben diversa. Le società private non dispongono di personale stabile, e dall’azienda sanitaria di competenza, racconta Rita, «finora ho trovato solo porte chiuse e risposte burocratiche. L’abbandono totale».
(da lespresso.it)
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Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile
I SONDAGGI DI ALESSANDRA GHISLERI CONFERMANO CHE QUESTO MOVIMENTO “NON SI SENTE RAPPRESENTATO DA NESSUNO, NÉ DA TRUMP, NÉ DA PUTIN, NÉ DAI LEADER NAZIONALI” … LA SOMMA DI M5S E LEGA GALLEGGIA SUL 20%. E VISTO CHE IL 94% DEGLI ITALIANI SI DICE CONTRARIO ALL’INVIO DI TRUPPE IN UCRAINA, IL RESTO DEI PACIFISTI DOV’E’?
Il punto di partenza è quel 6 per cento, più o meno di italiani favorevoli all’invio di
truppe in Ucraina. Si tratti del 5, 8 che condivide l’intervento di soldati italiani o del 6, 5 che precisa che è meglio mandare quelli di altri Paesi, siamo lì.
E il resto? Possibile che ci sia circa il 94 per cento di contrari a un’Italia che in futuro, di fronte al ritiro dell’appoggio americano, affronti il compito che le tocca nell’opera di mantenimento della pace in Europa? Un quasi cento per cento di pacifisti, verrebbe da tagliar corto?
Un dato del genere sorprende anche chi è abituato a considerare l’Italia non proprio un Paese di eroi (anche se ce ne sono, nella storia recente e in quella meno prossima).
«Se solo il 6 per cento vuole il supporto militare, non vuol dire che il restante 94 sia automaticamente contro – spiega Alessandra Ghisleri, che ha compilato le tabelle da cui vengono fuori quelle cifre –. In realtà quella che si percepisce è una grande confusione: di fronte all’eventualità che muti un equilibrio a cui sono abituate da tanti
anni, le persone non vedono soluzioni. Non si fidano di Trump e neppure di Putin.
Non vedono chiarezza nei leader italiani, tra cui percepiscono alleanze e divisioni trasversali. Conte e Salvini contro il riarmo. Meloni e Tajani a favore. Schlein un po’di qua e un po’di là, ma con mezzo partito che non accetta la svolta pacifista».
Sono difficoltà che intuisce chi, come Ghisleri, è abituata a percepire in anticipo i mutamenti d’opinione. Ma a guardar bene, qui non si tratta di un vero e proprio mutamento, ma di qualcosa che ha radici profonde nell’atteggiamento degli italiani.
Magari più comprensibile negli anni del primo Dopoguerra, quando in quasi ogni famiglia il dolore per la perdita di un parente era ancora forte.
E non del tutto illogico anche adesso, dopo tre anni in cui il conflitto in Ucraina ha inciso «molto» (sono sempre i sondaggi a dirlo) nella coscienza della gente, e il desiderio di una «soluzione diplomatica», meglio se non accompagnata da una guardia militare, è presente in oltre il 60 per cento degli intervistati.
La differenza, tra allora e adesso, era che prima la rappresentanza del pacifismo italiano era chiara ed era governata abilmente sia dai partiti di governo che da quelli d’opposizione.
Il pacifista italiano era libero di sentirsi antiamericano (e talvolta, ahimè, anche di bruciare le bandiere stelle e strisce e scandire slogan tipo «fuori la Nato dall’Italia», marciando per la pace); il Paese, però, restava saldamente ancorato all’Alleanza atlantica.
Nella Prima e nella Seconda Repubblica, quando D’Alema, il premier che nel 1999 diede il via ai bombardamenti (anche dell’aviazione italiana) che partivano dal territorio nazionale diretti contro Belgrado, potè poco dopo partecipare tranquillamente alla Marcia di Assisi, che si celebra ogni anno.
Cosa sia diventato il pacifismo contemporaneo invece, è difficile dire. Ghisleri sostiene che la caratteristica principale di questo moto, più che movimento d’opinione, è «che non si sente rappresentato da nessuno: né da Trump, né da Putin, e men che meno da nessuno dei leader nazionali».
Tal che se Conte e Salvini sembrano avvantaggiarsene leggermente nelle percentuali, la somma dei 5 stelle e della Lega galleggia sul 20 per cento, e non è chiaro dove sia andato il resto, anche quando si prospettano risposte diverse ai sondaggisti.
Calenda, l’unico apertamente schierato con il sostegno militare, non arriva al 3 per cento. Gli altri, da Meloni a Schlein, da Renzi a Bonelli e Fratoianni, sono fermi, «mentre cresce il numero di quelli che non sanno a che santo votarsi – insiste Ghisleri –, né come andrà a finire: e di questo hanno letteralmente paura».
Si capisce che c’è spazio per una chiara predicazione laica come quella del professor Gustavo Zagrebelski, che ebbe un ruolo importante anche nella sconfitta di Renzi nel referendum sulla riforma costituzionale. Ma è inutile nascondersi che le sue parole vanno nella direzione opposta a quella di un’Italia che presto – nel momento in cui Trump e gli Usa si sfilano – sarà chiamata ad assumersi le sue responsabilità, a contribuire alla propria difesa e a quella europea, e non è affatto pronta per questo.
(da la Stampa)
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Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile
L’ATLETA 27ENNE, NUMERO 12 DELLA CLASSIFICA MONDIALE DEL TENNIS, È FIDANZATA CON LA PATTINATRICE ESTONE NATALIA ZABIIAKO: “ESSERE GAY DOVE C’È UNA LEGGE CHE VIENE USATA PER FERMARE LE MANIFESTAZIONI E METTERE IN PRIGIONE GLI ATTIVISTI LGBTQ+ NON È FACILE” … LA KASATKINA È ANCHE CONTRO LA GUERRA IN UCRAINA: “È UN INCUBO”
Su Instagram troneggia la foto dell’abbraccio con Natalia Zabiiako, pattinatrice estone su ghiaccio, sua compagna dal 2022. Più un manifesto di libertà che una foto-profilo, soprattutto oggi che Daria Sergeyevna Kasatkina, 27 anni, numero 12 della classifica mondiale del tennis, otto titoli in carriera, russa di Togliatti, annuncia di aver cambiato Paese, continente, bandiera: «La mia richiesta di residenza permanente è stata accolta dal governo australiano», scrive in un post. «L’Australia è il luogo che amo, che mi fa sentire a casa e che rappresenterò sui campi d’ora in poi».
Contro l’operazione speciale in Ucraina, bisessuale, il coming out tre anni fa dopo l’incontro con Zabiiako, figlia di immigrati russi negli Usa, cresciuta più cosmopolita e libera. Daria si è allontanata dalla Russia prima col pensiero e poi nei fatti, chiudendosi la porta alle spalle: «Troppi argomenti sono tabù nel mio Paese d’origine — ha detto —.
Essere gay dove c’è una legge del 2013 che viene usata per fermare le manifestazioni e mettere in prigione gli attivisti Lgbtq+ non è facile. È troppo importante vivere in pace con se stessi». E con il prossimo, anche: «La guerra con l’Ucraina è un incubo quotidiano. Sogno che finisca. Capisco i sentimenti delle avversarie che non se la sentono di stringermi la mano».
(da agenzie)
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Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile
“IL COSTO DELLE TARIFFE RICADRÀ IN GRAN PARTE SUI CONSUMATORI, ATTRAVERSO UN AUMENTO DEI PREZZI” … “IL PRESIDENTE E IL SUO TEAM STANNO AFFRONTANDO LA QUESTIONE NEL MODO SBAGLIATO. SE SI VOGLIONO IMPORRE DAZI, DOVREBBERO ESSERE COMPENSATI IMMEDIATAMENTE DA TAGLI FISCALI”
Lo immaginiamo spesso come un tagliatore di tasse, un nemico dello Stato ipertrofico,
un alleato istintivo di imprese e consumatori — e durante il suo primo mandato, Donald Trump è stato tutto questo. Eppure, mentre prende forma il suo secondo mandato, il presidente sta assumendo una fisionomia molto diversa.
I dettagli finali del cosiddetto “Giorno della Liberazione”, previsto per mercoledì, devono ancora essere definiti. Ma la Casa Bianca sembra intenzionata a introdurre nuovi dazi molto pesanti, applicati a tutti i partner commerciali degli Stati Uniti.
In un’intervista a Fox News, Peter Navarro, uno dei principali sostenitori della nuova politica tariffaria, ha affermato che le tariffe sull’importazione di automobili potrebbero generare 100 miliardi di dollari l’anno per il bilancio federale. Ancora più significativo, secondo lui, una struttura tariffaria generalizzata frutterebbe 600 miliardi di dollari l’anno.
Economisti ed esperti di commercio discuteranno a lungo sulle cifre precise. Ma è certo che nessun governo americano ha introdotto dazi su questa scala da oltre un secolo.
Una parte dell’onere potrebbe ricadere sulle aziende estere. Alcune imprese cinesi, sostenute dallo Stato, potrebbero accettare i dazi pur di guadagnare quote di mercato, più che profitti. In altri casi, la produzione potrebbe spostarsi da Stoccarda a San Francisco, o da Lione a Louisville, trasformando le importazioni in prodotti nazionali.
Ma l’ipotesi più probabile è che il costo ricada in gran parte sui consumatori, attraverso un aumento dei prezzi. O saranno costretti a pagare di più per i beni importati, oppure assisteranno a un’inflazione diffusa […] E se davvero i dazi generassero 600 miliardi di dollari l’anno, sarebbe una somma enorme, persino per un’economia vastissima come quella americana.
Per fare un confronto: il governo federale raccoglie circa 4.900 miliardi di dollari l’anno in entrate fiscali. Se Navarro ha ragione, i dazi aggiungerebbero quasi il 15% a quel totale. Si tratterebbe di una cifra superiore ai 424 miliardi di dollari provenienti dalle imposte sulle società, rendendo i dazi la terza fonte di entrate federali, dopo l’imposta sul reddito (poco più del 50% del totale) e i contributi per la sicurezza sociale (circa il 30%).
In pratica, sarebbe il più grande aumento fiscale mai imposto da un presidente americano, e comporterebbe un profondo cambiamento nel modo in cui il governo raccoglie fondi.
Trump e il suo team parlano a volte della possibilità di sostituire l’imposta sul reddito o altre tasse con i dazi. In effetti, non è un’idea del tutto assurda: 150 anni fa, erano proprio i dazi a finanziare gran parte del bilancio degli Stati Uniti (nel 1850 rappresentavano il 90% delle entrate statali), come accadeva anche in altri paesi.
Ma c’è un problema fondamentale: all’epoca lo Stato era infinitamente più piccolo e aveva bisogno di molte meno risorse. Anche ipotizzando che Elon Musk riesca a tagliare mille miliardi di dollari dal bilancio federale, per coprire le spese attuali i dazi dovrebbero essere almeno cinque o sei volte più alti di quanto oggi ipotizzato.
Per sostituire completamente l’imposta sul reddito, servirebbero dazi del 100% o più.
Dazi di questa entità sarebbero devastanti per il sistema commerciale globale. È banale dirlo, ma se il commercio si azzera, anche il gettito dei dazi si azzera.
Peggio ancora, il presidente e il suo team stanno affrontando la questione nel modo sbagliato. Se si vogliono imporre dazi, questi dovrebbero essere compensati immediatamente da tagli fiscali altrove: si potrebbero, ad esempio, abolire le imposte sulle imprese, ridurre l’imposta sul reddito di almeno il 20%, o tagliare radicalmente i contributi previdenziali, o ancora una combinazione delle tre misure.
Questo sarebbe uno spostamento della base imponibile, che potrebbe essere discusso razionalmente. Ma non è questo il caso: l’amministrazione sta introducendo i dazi, mentre parla in modo vago di possibili riduzioni fiscali future — senza impegni concreti. Non è certo un modo accettabile di governare.
La verità brutale è che Trump sta per introdurre un enorme aumento delle tasse — e, come ogni aumento delle tasse, questo rischia di schiacciare l’economia americana.
Matthew Lynn per
Telegraph.co.uk
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Aprile 2nd, 2025 Riccardo Fucile
SI TEMONO ALMENO 60.000 POSTI DI LAVORO A RISCHIO
Tra gli «sporchi 15», come li ha definiti il segretario al Tesoro americano Scott Bessent parlando dei quindici Paesi che hanno il maggior surplus bilaterale con gli Usa, potrebbe essere proprio l’Italia lo Stato più svantaggiato dall’introduzione dei dazi. Perché, secondo un calcolo fatto da Bloomberg, oltre alle tariffe incidono anche altri fattori che gravano sulle imprese italiane che esportano negli Usa e che, già di base, sono più alti rispetto a nazioni concorrenti.
E così, anche se nell’elenco degli Stati con la bilancia commerciale più squilibrata è dodicesima (con un deficit verso gli States di 44 miliardi), mentre la Germania è quinta (deficit 85 miliardi) e la Cina è prima con 295 miliardi, si sommano voci come ad esempio l’Iva e il peso degli iter amministrativi che già ora rendono più costose le esportazioni per il nostro Paese e potrebbero finire per rendere ancora più care le nostre merci a parità di percentuale dei dazi.
Anche se al momento non è ancora ben chiaro quali effetti avranno, i timori sono generalizzati tanto che sei aziende italiane su dieci sono preoccupate delle conseguenze, secondo un’indagine di Promos Italia con le Camere di Commercio su un campione di imprese che operano negli Usa.
Il 34,2% delle imprese infatti ritiene che il clima economico internazionale non sia «né particolarmente favorevole né particolarmente sfavorevole» e il 32,9% considera, invece, il contesto «abbastanza favorevole».
Inoltre, il 45,6% delle imprese ritiene che la nuova amministrazione americana non influirà sulle loro strategie, al contrario il 22,8% si vorrebbe espandere verso mercati emergenti come Sud-Est Asiatico, Africa, America Latina e Medio Oriente.
Le esportazioni Oltreoceano sono arrivate a oltre 67 miliardi secondo l’osservatorio economico sui mercati esteri del Governo. In base alle ultime proiezioni del Csc di Confindustria i solidi legami produttivi tra le due sponde dell’Atlantico sulla chimica e il farmaceutico «potrebbero essere un deterrente alla rincorsa tariffaria» perché circa il 90% dello stock di capitali investiti dalle imprese farmaceutiche italiane nei paesi extra-Ue è diretto negli Usa.
Prodotti farmaceutici di base e preparati, con oltre 8 miliardi nel 2023, figuravano sul podio merceologico nell’export verso gli Usa. Ma gli States rappresentano anche il terzo mercato per le esportazioni della moda italiana, con un interscambio commerciale da gennaio a ottobre 2024 di ben 4,5 miliardi per la moda, 3,1 miliardi per i settori collegati affermano le associazioni di categoria. E poi c’è l’agroalimentare. Il blocco delle spedizioni di vino potrebbe costare 6 milioni al giorno alle cantine italiane, afferma la Coldiretti.
«I dazi sono di fatto già applicati. Gli importatori americani hanno fermato l’import dei nostri vini temendo di dover farsi carico loro del dazio, perché non c’è una norma che quantomeno adesso escluda dai dazi i prodotti che sono in transito» denuncia il direttore generale Unione italiana Vini, Paolo Castelletti. Con il 96% dell’export agroalimentare verso gli Usa che viaggia su nave, il timore è che i carichi possano arrivare a destinazione quando i dazi sono già scattati. E che si aprano dispute su chi debba pagarli.
E i timori si estendono anche alla tenuta dell’occupazione: «rischiamo perdere 50-60mila posti di lavoro», è il calcolo del leader della Uil, Pierpaolo Bombardieri, sulla base dei settori più colpiti (meccanica, agroalimentare e moda) che contano complessivamente 400 mila addetti.
(da agenzie)
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