Aprile 3rd, 2025 Riccardo Fucile
CHE FOSSE TAGLIATA FUORI DAI GIOCHI, LA REGINA DI COATTONIA DOVEVA FICCARSELO IN TESTA QUANDO L’ALTRO GIORNO HA CHIAMATO URSULA PER SCONGIURARLA A NON RISPONDERE CON I CONTRO-DAZI AL TRUMPONE. LA KAISER DI BRUXELLES LE HA RISPOSTO CON PIGLIO TEUTONICO CHE LA DECISIONE FINALE SULLA POLITICA COMMERCIALE DELL’UNIONE APPARTIENE SOLO A LEI… ED ORA “IO SONO GIORGIA” SI TROVA A DOVER AFFRONTARE UNA GUERRA COMMERCIALE CHE TOCCA MOLTO DURAMENTE LA SUA BASE ELETTORALE E NON SOLO QUELLA CHE VIVE DI EXPORT, COME AGRICOLTURA, LE PICCOLE E MEDIE IMPRESE, I TESSILI. UN BAGNO DI SANGUE E, IN PROSPETTIVA, UNA CATASTROFE POLITICA
Cercasi disperatamente la “Giorgia dei Due Mondi” che affermava che i dazi trumpiani possono essere “un’opportunità”. Dove è andata a nascondersi l’’’anello di congiunzione’’ di Palazzo Chigi tra l’America First di Trump e l’Europa di Ursula von der Leyen?
A che cazzo è servita la sua “special relationship” con lo psico-demente della Casa Bianca che tre mesi fa dichiarava: “Amo l’Italia. Meloni è un leader e una persona fantastica”?
Detto poco poeticamente: l’Italia governata dalla Statista della Garbatella non conta un amato cazzo.
Fino alle ore 22 di ieri la Ducetta (confortata, sembra, da presunti “amici italiani di Trump”) si cullava nella speranza che l’Italia fosse trattata meglio di altri paesi o che comunque (che poi è la stessa cosa) alcuni settori in cui noi siamo più esposti, fossero esclusi (in primis l’agroalimentare).
Così non è stato, anzi Trump ha rimarcato che per lui nella Ue sono tutti uguali, Macron e Meloni, per cui è inutile cercare distinguo e capriole cerchiobottiste.
Zac! Adesso il panico si è impossessato dell’Underdog: ha annullato tutti gli impegni di oggi per convocare un vertice straordinario del governo sulle tragiche ricadute economiche causate dal 20% del Dazista Trump.
Una volta che il gioco si è fatto duro e i duri hanno cominciato a giocare, con l’entrata sul ring del duplex Starmer-Macron, la Melona è finita alle corde sotto una gragnuola di colpi. Alle 22 di ieri, finite tutte le minchiate da Regina di Coattonia, è finita al tappeto.
Un mese prima dell’entrata in vigore dei dazi americani – una sorta di terza guerra mondiale portata avanti con altri mezzi – il presidente degli Stati Uniti ha fatto orecchie da mercante alle suppliche dell’Underdog per un incontro alla Casa Bianca che avrebbe dovuto épater i burocrati di Bruxelles.
Assistendo all’ingresso nello Studio Ovale del premier britannico e del presidente francese, ricevuti con tutti gli onori dal suo amico Trump, le era partito l’embolo del rosicamento.
Mentre la premier de’ noantri, quando riuscì a ottenere uno straccio di invito all’insediamento di “King Donald” a Washington lo scorso gennaio, fu sbattuta nelle ultime file, accanto all’argentino della motosega, Milei.
Oggi 3 aprile i fatti ormai parlano chiaro e le veline di Palazzo Chigi sono finite nel cestino: la Ducetta di Palazzo Chigi è stato tagliata fuori dalla scena internazionale come certe presenze moleste che ne fanno di tutti colori per imbucarsi alle feste dove non sono stati pregati.
Non resta in mano alla Poverina nemmeno la carta del galoppino italiano di Elon Musk, Andrea Stroppa, come ai tempi del suo blitz a Mar-a-lago per la liberazione di Cecilia Sala dalle galere di Teheran.
Non basterà un semplice Oki per debellare l’ubriacatura trumpiana della Meloni, con applausi al “genio” di Musk e attacchi alle politiche europee. Priva di cultura del potere, circondata dai quei geni della politica che si chiamano Fazzolari e Scurti, la
povera Giorgia non ha capito in tempo che, della sua Nazione, Trump se ne fotte.
Non le è entrato nei neuroni nemmeno è bastato che il suo governo non firmasse il contratto miliardario con SpaceX di Musk per i satelliti a bassa quota per assistere all’inedito e umiliante spettacolo di uno Stroppa qualsiasi che sparava intemerate, del tipo: “Agli amici di FdI: evitate di chiamarci per conferenze o altro”.
Sto’ svalvolato ex hacker diventato lobbista è arrivato al punto di tempestare di chiamate il Quirinale per ottenere un colloquio con il presidente Sergio Mattarella.
Che fosse tagliata fuori dai giochi, irrilevante e fastidiosa come una ronzante mosca estiva, Giorgia Meloni doveva ficcarselo in testa quando l’altro giorno ha chiamato la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, per fermarla sulle contromisure europee al “dazismo” trumpiano.
Lo scambio telefonico tra le due signore ha avuto accenti piuttosto aspri. La Thatcher della Garbatella ha insistito sulla necessità di “scongiurare in tutti i modi una guerra commerciale” applicando dei contro-dazi.
L’ex portaborsette di Angela Merkel, che Starmer e Macron hanno trasformato nella Kaiser di Bruxelles, le ha risposto con piglio teutonico che non solo i “parassiti europei” (copy Vance) avrebbero dovuto imporre dei dazi prima del “Giorno della liberazione” Usa, ma che la decisione finale sulla politica commerciale dell’Unione appartiene solo a lei. Come a dire, “a Cosetta, non t’allarga, qui comando io…”
Calata la mannaia delle cosiddette “tariffe reciproche”, ecco una Melona che stamattina balbetta all’agenzia Ansa che bisogna “aspettare.. valutare con attenzione… rispondere, se serve, ma senza isterie”.
Se Mattarella liquida la scelta dell’amministrazione americana un “errore profondo” che richiede “una risposta compatta, serena, determinata» dell’Europa”, la Cosetta di Palazzo Chigi a denti stretti è costretta a riconoscere i “risvolti pesanti” sull’economia italica e ammette che “se servirà” bisognerà difendere gli interessi nazionali, ed europei, immaginando “risposte adeguate”.
Essì, “Io sono Giorgia” si trova a dover affrontare una guerra commerciale che tocca molto duramente la sua base elettorale: agricoltura, le piccole e medie imprese che vivono di export, i tessili. Un bagno di sangue e, in prospettiva, una catastrofe politica.
(da Dagoreport)
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Aprile 3rd, 2025 Riccardo Fucile
IL DOW JONES IL 3,7%, MILANO LASCIA SUL CAMPO IL 3,6% ED È LA PEGGIORE IN EUROPA, DIETRO A PARIGI (-3,4%) E FRANCOFORTE (-2,94%) … IL DOLLARO SCENDE A MENO DI 0,9 EURO, SALE ANCORA LA QUOTAZIONE DELL’ORO. ANCHE IL PETROLIO IN PICCHIATA… MELONI ESILARANTE: “NON E’ UNA CATASTROFE, NON E’ IL CASO DI ALLARMARSI”
I dazi di Donald Trump stanno spazzando via 2.000 miliardi di dollari di valore da Wall
Street. Per Apple stanno andando in fumo 274,0 miliardi di dollari, per Amazon 181,9 miliardi e per Nvidia 143,4 miliardi. Meta invece sta perdendo 143,4 miliardi, mentre Microsoft e Google 69,1 miliardi ciascuna.
Chiusura in forte calo per Piazza Affari. L’indice Ftse Mib cede il 3,6% a 37.070 punti.
I dazi annunciati nella vigilia dal presidente Usa Donald Trump mettono sotto scacco le borse europee e americane, con lo spettro della recessione che avanza da entrambi i lati dell’Atlantico. Milano lascia sul campo il 3,6% ed è la peggiore in Europa dietro a Parigi (-3,4%) e Francoforte (-2,94%). Più caute Londra (-1,7%), grazie a dazi più leggeri sul Regno Unito, e Madrid (-1,05%).
Pesanti il Dow Jones (-3,71%) e soprattutto il Nasdaq (-5,61%) a New York. Sale a 112,9 punti il differenziale tra Btp e Bund decennali tedeschi, con il rendimento annuo italiano in calo di 5 punti al 3,76% e quello tedesco di 7,8 punti sotto al 2,64%. Si indebolisce ulteriormente il dollaro a meno di 0,9 euro e di 0,76 sterline, mentre inverte la rotta l’oro (+0,8% a 3.120,83 dollari l’oncia), che si mantiene sui massimi.
Il crollo del greggio (Wti -7,61%% a 66,27 dollari al barile) e le tariffe commerciali sull’acciaio e sull’alluminio frenano Tenaris (-9,87%), Saipem (-9%), Prysmian (-5,47%), Glencore e Anglo American (-6% entrambe). Sotto pressione anche il comparto dell’energia con Bp (-7%), Eni (-4,9%), Shell (-4,8%) e TotalEnergies (-4,86%), a seguito anche di scorte inaspettatamente salite di oltre 6,15 milioni di barili.
Sotto pressione il gas (-4,55% a 39,37 euro al MWh). La tempesta non risparmia le banche da Standard Chartered (-11,71%), Hsbc (-8,29%), Unicredit (-7,05%), Popolare Sondrio (-7%), Inyrsa (-6,7%), Bper (-6,66%), Banco Bpm (-5,42%), SocGen (-5,38%), Santander (-5,3%) ed Mps (-3,16%). Scivola il lusso con Adidas (-11,9%), Pandora (-10,4%), Puma (-10%), Burberry (-8,51%), Cucinelli (-6,55%), Richemont (-6,22%), Ferragamo (-5,69%), Swatch (-5,33%) e Moncler (-4,25%). Crolla Stellantis (–7,72%), più caute Renault (-3,56%), e soprattutto Ferrari (-3,22%) e Porsche (-2,35%). (ANSA).
Il petrolio affonda sotto il peso dei dazi. Il Wti perde il 7,61% a 66,25 dollari al barile, mentre il Brent cede il 7% a 69,67 dollari.
Il presidente francese, Emmanuel Macron, ha invitato gli imprenditori francesi dei settori colpiti dai dazi a “sospendere gli investimenti negli Stati Uniti” in attesa di “ogni ulteriore chiarimento”. Ricevendo gli imprenditori all’Eliseo, Macron ha aggiunto che “nulla è escluso” nella risposta della Francia e dell’Unione europea ai dazi americani.
(da agenzie)
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Aprile 3rd, 2025 Riccardo Fucile
MUSK HA TOCCATO CON MANO IL SUO SCARSO GRADIMENTO: HA SPESO 22 MILIONI DI DOLLARI PER LE ELEZIONI DELLA CORTE SUPREMA DEL WISCONSIN E IL SUO CANDIDATO (IL FAVORITO FINO ALLA DISCESA IN CAMPO DI MR. TESLA) HA PERSO MALAMENTE
Secondo un nuovo sondaggio condotto dalla Marquette Law School, l’approvazione del lavoro di Elon Musk è scesa al 41%, il livello più basso registrato da quando l’amministrazione Trump è entrata in carica.
Il 58% degli intervistati ha dichiarato di disapprovare l’operato di Musk come capo del Dipartimento per l’Efficienza del Governo, ruolo che ricopre all’interno della nuova amministrazione Trump. Il suo indice di gradimento personale è ancora più basso: solo il 38% approva il suo comportamento generale.
Il sondaggio arriva in un momento cruciale, mentre iniziano a emergere le prime reazioni ai primi 100 giorni del secondo mandato di Trump. Il sondaggio, condotto su oltre 1.000 cittadini statunitensi, ha mostrato che l’approvazione del lavoro svolto da Musk è inferiore a quella di Donald Trump. Il 46% degli americani approva l’operato del presidente finora, mentre solo il 41% approva quello di Musk.
In precedenza, un sondaggio del Washington Post pubblicato a febbraio attribuiva a Musk un tasso di disapprovazione del 15%. Da allora, Musk è diventato molto più attivo in politica locale e nelle elezioni statali.
Il sondaggio, realizzato tra il 17 e il 27 marzo, è stato pubblicato poche ore dopo la sconfitta del candidato sostenuto da Musk alle elezioni per la Corte Suprema del Wisconsin.
Brad Schimel, sostenuto da Musk con oltre 22 milioni di dollari in donazioni e apparizioni pubbliche, è stato sconfitto dalla democratica Susan Crawford, in un’elezione che molti hanno interpretato come un segnale di rigetto nei confronti sia di Musk sia, più in generale, dell’amministrazione Trump.
Il sondaggio ha anche rilevato come alcune delle politiche di Trump sostenute da Musk stiano perdendo consenso tra l’opinione pubblica. La proposta ripetuta da Trump di rendere il Canada il 51° stato degli Stati Uniti — accompagnata dalla dichiarazione di Musk secondo cui “il Canada non è un vero Paese” — è stata respinta dal 75% degli intervistati.
(da agenzie)
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Aprile 3rd, 2025 Riccardo Fucile
LA DELUSIONE DEI VIETNAMITI: VENGONO SPINTI TRA LE BRACCIA DELLA CINA (CHE GIÀ USA QUELL’AREA PER “RIPULIRE” LE PROPRIE MERCI ED EVITARE TARIFFE)
Non è sfuggito a Hanoi il simbolismo dell’annuncio lanciato da Donald Trump nella
serata europea di mercoledì 2 aprile, il «Liberation Day» nella propaganda trumpiana e il giorno del vero inizio della guerra commerciale per tutto il resto del mondo: il Vietnam, teatro della più lunga e devastante guerra americana dal 1945, è il Paese più colpito dai nuovi dazi «reciproci».
In realtà l’economia contro la quale gli Stati Uniti hanno alzato le barriere più alte resta la Cina, rivale strategico di questi decenni contro il quale la somma delle protezioni doganali introdotte nelle ultime sette settimane arriva al 56% . Ma il Vietnam è il Paese più colpito dalle ultime misure, con l’accusa (indimostrata) della Casa Bianca di porre contro gli Stati Uniti tariffe al 90% e la scelta di mettere una tassa al 46% su tutti i prodotti vietnamiti che entrano nei confini.
Non sarà senza conseguenze, in primo luogo per alcune iconiche aziende a stelle e strisce. Nike produce in Vietnam il 50% delle sue scarpe e il 28% del suo abbigliamento sportivo e mercoledì sera è crollata in borsa a New York dell’8,8%.
Peraltro anche marchi come la tedesca Adidas (38% delle scarpe e 18% dell’abbigliamento) o l’italiana Geox hanno scelto ormai da decenni proprio il Paese dell’Asia del Sud-Est come propria base produttiva.
Le fabbriche funzionano a pieni giri da così tanto tempo che la manodopera vietnamita ha sviluppato una specifica competenza sulle scarpe sportive non rapidamente riproducibile altrove.
Ma non è solo un problema industriale. Meno di due generazioni fa, il Vietnam ha subito da solo più bombardamenti da parte degli Stati Uniti di quelli che hanno preso di mira l’intera Europa durante la seconda guerra mondiale.
Peraltro i dazi non sono il primo colpo al Vietnam, da quando Donald Trump è tornato alla Casa Bianca. I tagli all’agenzia UsAid hanno bloccato lo sminamento delle campagne, anch’esso un prodotto della guerra terminata nel 1975. E la stampa vietnamita, sotto lo stretto controllo del partito comunista al potere, non fa che parlare dei connazionali deportati dagli Stati Uniti con le politiche anti-immigrazione di Trump.
La nuova tigre asiatica, con quasi 100 milioni di abitanti e un’età media di poco più di trent’anni, aveva un culto per l’America di Ronald Reagan e poi Bill Clinton: il primo tolse ogni embargo dal Vietnam nella seconda metà degli anni ‘80, il secondo ne aiutò l’integrazione nell’economia mondiale.
L’America di Trump invece rischia di rimandare il governo (e l’esercito) di Hanoi là dove le nuove generazioni di vietnamiti, capitalisti e filo occidentali, non vorrebbero trovarsi: fra le braccia della Cina di Xi Jinping.
(da Corriere della Sera)
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Aprile 3rd, 2025 Riccardo Fucile
SE ANCHE RIUSCISSE A CONVINCERE LE AZIENDE AMERICANE A TORNARE IN PATRIA, QUANTO COSTEREBBE UN IPHONE PRODOTTO IN TEXAS? I CONSUMATORI USA SONO DISPOSTI A PAGARE IL DOPPIO PER UN BENE? VALE ANCHE L’OPPOSTO: IL MERCATO INTERNO È SUFFICIENTE A SFAMARE I DESIDERI DI PROFITTO DELLE AZIENDE A STELLE E STRISCE?
E così è arrivato il tanto atteso “liberation day”, il giorno nel quale l’economia americana – secondo il presidente Repubblicano Donald Trump inizierà il suo percorso verso le terre incerte del protezionismo.
Non è chiaro di cosa si liberi, forse della razionalità economica. Trump ha annunciato una tariffa per tutti del 10 per cento, per l’Ue sarà del 20 per cento e per la Cina del 34 per cento.
Nell’attesa di capire meglio l’impatto, vediamo di spiegare come funzionano i dazi e che obiettivi e che conseguenze possono avere.
Intanto, i dazi sono una tassa che mette il Paese importatore sulle merci che entrano. Nel caso degli Stati Uniti, a pagare sono le aziende di altri Paesi che vogliono vendere le loro merci ai consumatori americani.
L’impresa ha due opzioni: o assorbe per intero il dazio, quindi riduce il proprio ricavo marginale su ogni prodotto venduto, o lo trasferisce sul consumatore americano con un aumento di prezzo.
In un mercato in concorrenza, in realtà, soltanto la seconda strada è percorribile. Se l’impresa che esporta alza i prezzi, ci saranno due conseguenze: si ridurrà la domanda per i suoi prodotti e – questo meno ovvio – saliranno i prezzi anche dei beni concorrenti prodotti in America.
Facciamo un esempio con l’acciaio: se un dazio fa salire del 10 per cento il prezzo dell’acciaio cinese, le imprese americane che prima usavano quell’acciaio cercheranno alternative domestiche, e compreranno acciaio americano. La domanda di quest’ultimo crescerà, dunque i produttori alzeranno i prezzi. Di quanto? Del 10 per cento, ovviamente, di più non possono altrimenti i clienti tornerebbero dai fornitori cinesi.
Lo Stato incassa un po’ di gettito dal dazio, ma il risultato sembra soltanto negativo: i consumatori americani si trovano a pagare di più per avere meno prodotti da consumare.
Se poi il Paese straniero colpito dai dazi reagisce con altri dazi, il danno è doppio. Perché gli americani pagano di più le importazioni e si trovano a esportare meno, con il risultato che si perdono ricavi, tasse e posti di lavoro.
Perché dunque si fa qualcosa di così apparentemente stupido come mettere dazi? Douglas Irwin, nella sua storia della politica commerciale americana (Clashing over Commerce), dice che ci sono tre spiegazioni ricorrenti: gettito, restrizioni o reciprocità.
Uno Stato, e specificamente gli Stati Uniti, può mettere i dazi su alcune merci specifiche che entrano per assicurarsi una fonte di gettito autonoma: negli Stati Uniti, appena insediato il primo Congresso, l’8 aprile del 1789 James Madison ha proposto
una legge alla Camera dei rappresentanti per introdurre una legge che mettesse dazi sulle importazioni dall’Europa perché il governo federale aveva bisogno di soldi.
Un’altra ragione per mettere dazi può essere quella di proteggere le produzioni locali restringendo la concorrenza straniera: negli Stati Uniti l’amministrazione Biden, non quella Trump, ha messo dazi del cento per cento sulle auto elettriche cinesi in modo da escluderle dal mercato americano e permettere lo sviluppo di una filiera di produzione di batterie e veicoli locale.
La terza ragione per mettere i dazi è la reciprocità: le tariffe sono usate per costringere le controparti a commerciare alla pari, si mettono e si tolgono a seconda di come si comporta il partner commerciale.
Negli anni della iper-globalizzazione di stampo americano, diciamo dal 1945 al 2007-2008, la politica dei dazi è stata soprattutto quella di graduali riduzioni concordate tra Paesi partner che lasciavano barriere più elevate per chi non accettava le regole e gli impegni dell’Organizzazione mondiale del commercio.
Qualunque sia la ragione per mettere dazi, c’è qualcuno che ci guadagna e qualcuno che ci rimette.
I pochi ad avere benefici sono quelli coinvolti, come azionisti o come lavoratori, nelle aziende che vengono protette. Tutti gli altri ci rimettono. E il saldo finale sembra parecchio negativo.
Ci sono ormai molti studi che hanno misurato l’impatto della precedente guerra commerciale lanciata da Donald Trump, in particolare contro la Cina, tra 2018 e 2019. E i risultati sono pesanti.
Un po’ tutti gli studi confermano che il grosso del costo è stato sostenuto dai consumatori americani, che il Pil si è ridotto, intorno allo 0,04 per cento in meno nel breve periodo e dello 0,2 nel lungo, visto che gran parte dei dazi introdotti da Trump sono rimasti anche con l’amministrazione Biden.
Secondo le stime della Tax Foundation, questo impatto negativo sul Pil si è tradotto in 142.000 posti di lavoro in meno negli Stati Uniti.
Quello che è interessante notare è che il commercio internazionale sembra seguire traiettorie e sviluppi di lungo periodo che non vengono scalfiti dalle fiammate protezionistiche, neppure da quelle di Trump.
Se guardiamo l’interscambio commerciale tra Unione europea e Stati Uniti, per esempio, vediamo che è cresciuto costantemente negli ultimi dieci anni, a parte la flessione dovuta alla pandemia.
Anche il deficit commerciale degli Stati Uniti non è cambiato granché negli anni di Trump e ha continuato a peggiorare.
Soltanto Trump, però, è convinto che questo sia un problema, non gli economisti: gli Stati Uniti sono in deficit perché possono permetterselo, importano più di quanto esportano perché nel Paese c’è un afflusso di capitali costante che permette di pagare quell’eccesso di importazioni.
Tutti, nel mondo, vogliono prestare soldi allo Stato americano, investire nella Borsa americana e nelle sue aziende non quotate. Il deficit commerciale può essere interpretato più come una misura dell’attrattività di un Paese, invece che della sua fragilità.
Trump invece lo considera come se fosse un deficit di bilancio, un’emorragia da fermare. Con le sue continue promesse di dazi, negli ultimi mesi, ha peraltro fatto esplodere il deficit commerciale perché tutte le imprese straniere hanno cercato di esportare il massimo possibile prima che i nuovi dazi entrassero in vigore.
Una delle ragioni per cui il deficit commerciale può migliorare è che i consumatori americani riducano la domanda di importazioni straniere, diventate più costose, ma questo significa anche avere meno crescita, meno posti di lavoro, deprimere la Bors, forse innescare una recessione.
Inoltre, prezzi più alti significano più inflazione, almeno finché la contrazione della domanda non si fa sentire davvero. Con prezzi più alti e inflazione più elevata, la Federal Reserve sarà costretta a tenere alti i tassi di interesse e a rendere i prestiti più costosi per le famiglie e le imprese, anche quelle che volessero investire negli Stati Uniti in risposta ai dazi.
E poi, paradosso nel paradosso, tassi di interesse più alti rendono il dollaro più appetibile, e un dollaro più forte penalizza le esportazioni americane, dunque l’iniziale miglioramento nel deficit commerciale – per quanto inutile – potrebbe presto trasformarsi in un peggioramento.
Cosa Trump voglia ottenere con i dazi non è chiarissimo. Sembra che la sua idea sia quella di costringere le imprese straniere a produrre negli Stati Uniti, in modo da avere più getitto (tasse), posti di lavoro, oltre che catene del valore più corte e meno dipendenti dalla tenuta di una globalizzazione complicata dalla geopolitica.
Il punto è che per produrre questo effetto, i dazi dovrebbero essere molto duraturi, e molto alti, cioè produrre molto danno nell’immediato – anche all’economia americana – e condizionare le strategie di lungo termine delle imprese che dovrebbero decidere di spostare stabilimenti e assunzioni negli Stati Uniti.
Anche nel primo mandato, però, Trump aveva prima scatenato una guerra commerciale con la Cina per poi cercare una tregua a gennaio 2020. E questa volubilità rende difficile pianificare gli investimenti.
Inoltre, Trump non considera i potenziali effetti delle ritorsioni che i partner internazionali finiranno per adottare
Per esempio colpire le piattaforme digitali che sono quasi tutte americane è una ritorsione che può rivelarsi più efficace che rispondere con altri dazi.
Quindi Trump è soltanto un pazzo che non ha capito la macroeconomia? Sì e no.
Non c’è alcuna logica nella sua strategia commerciale, ma c’è una qualche coerenza.
Bill Clinton e George W. Bush, a cavallo del Duemila, hanno avuto più o meno la stessa politica commerciale, anche se i Democratici erano stati in precedenza più protezionisti e i Repubblicani lo sarebbero diventati presto con l’arrivo di Trump.
Quando i dazi di Trump contro la Cina introdotti nel 2018 sono arrivati alla prima scadenza, nel maggio 2024, l’amministrazione Biden li ha confermati e aumentati,
Gli Stati Uniti sono un’economia molto meno aperta dell’Unione europea: la somma di esportazioni e importazioni vale il 25 per cento del Pil circa, per l’Unione europea oltre il doppio. Questo significa che per gli Stati Uniti il protezionismo è meno dannoso di quanto può esserlo per noi.
Per anni gli Stati Uniti hanno sostenuto la fase dell’iper-globalizzazione, perché il commercio globale era regolato sulla base delle loro esigenze, e l’Organizzazione mondiale del commercio Wto faceva rispettare quelle regole ispirate da Washington.
Prima la crisi finanziaria globale del 2007-2008, poi l’ascesa geopolitica della Cina, e le successive tensioni, inclusa la guerra in Ucraina, hanno cambiato il contesto. Gli Stati Uniti hanno iniziato a sabotare – con Trump come con Biden – quello stesso ordine che avevano costruito e ora la Cina prova a usare contro di loro.
L’approccio di Trump, per quanto privo di senso economico e miope, non è insomma soltanto suo ed è molto più trasversale di quanto sembri.
Gli Stati Uniti sembrano convinti di non aver più molto da guadagnare da quell’ordine globale che hanno costruito e che ora vacilla. Il fatto che possano avere maggiori benefici da un’economia globale più frammentata e da una minore cooperazione è quasi impossibile. Come scopriranno presto a spese loro, ma anche a spese nostre.
Stefano Feltri
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Aprile 3rd, 2025 Riccardo Fucile
IL TYCOON RINTIGNA: “L’INTERVENTO È FINITO, IL PAZIENTE STA GUARENDO, GLI USA SARANNO PIÙ FORTI CHE MAI” – L’UE VALUTA UN RICORSO AL WTO: “TRUMP DISTORCE LA REALTÀ, LA MEDIA DEI DAZIUE È DELL’1,2% NON DEL 50”
“L’intervento è finito! Il paziente è sopravvissuto e sta guarendo, la prognosi è che il
paziente sarà molto più forte, più grande, migliore e più resiliente che mai prima. Rendiamo l’America di nuovo grande!!!”. Lo ha scritto Donald Trump su Truth all’indomani dell’annuncio di una nuova ondata di dazi che sta provocando un terremoto sui mercati.
“A Wall Street diciamo: ‘fidatevi di Donald Trump'”. Lo ha detto la portavoce della Casa Bianca. Karoline Leavitt, in un’intervista alla Cnn commentando il crollo dei mercati dopo l’annuncio dei dazi. “Questo è l’inizio dell’età dell’oro. Gli Stati Uniti non saranno più fregati dalle altre nazioni”, ha aggiunto.
l petrolio apre in forte calo a New York dove le quotazioni perdono il 6,74% a 66,88 dollari dopo l’annuncio dei nuovi dazi da parte di Donald Trump.
“Le prospettive per l’export e l’impatto diretto e indiretto dei dazi sono un grosso motivo di preoccupazione”. Lo si legge nel resoconto (minute) della riunione della Bce del 5 e 6 marzo, che dà conto anche dei dubbi dei governatori sul segnale da dare sui tassi d’interesse: i membri del Consiglio direttivo giudicavano “importante” che la comunicazione non dia un segnale in alcuna direzione in vista del meeting di aprile, “tenendo sul tavolo sia un taglio dei tassi che una pausa, in funzione dei dati in arrivo”.
Bruxelles respinge al mittente le accuse di Donald Trump che parla di dazi del 50% da parte dell’Ue sui prodotti provenienti dagli Stati Uniti. “È una rappresentazione profondamente distorta della realtà”, hanno replicato fonti Ue, snocciolando numeri che raccontano un’altra storia: i dazi medi effettivi, secondo le stime di Bruxelles, sono dell’1,2%, contro l’1,4% già applicato da Washington ai prodotti europei.
Il dato del 50% “è tecnicamente corretto solo da un certo punto di vista, ma non restituisce un’immagine fedele del nostro commercio”, hanno evidenziato le stesse fonti, indicando che il problema risiede nel metodo di calcolo: si tratta di una media semplice calcolata su tutte le linee tariffarie, senza considerare i reali volumi di scambio.
“E’ un approccio fuorviante. Solo per il pollo, ad esempio, abbiamo 110 linee tariffarie: ogni taglio ha un proprio dazio, e questi tendono a essere più alti. Ma il valore commerciale di quei prodotti è marginale”, mentre “su grandi volumi come gas, energia e petrolio – coperti solo da due linee tariffarie con dazi pari a zero – l’impatto è nullo”, è la precisazione.
“Mescolare tutto e fare una media aritmetica non ha senso: è come dire che si può annegare in un fiume profondo, in media, due centimetri”, hanno osservato con sarcasmo gli alti funzionari Ue. La Commissione europea replica con dati basati su
medie ponderate, considerate più realistiche e capaci di riflettere il reale valore degli scambi.
“Nel caso degli Stati Uniti, il dazio medio realmente applicato dall’Ue è appena dell’1,2%. Mentre quello imposto da Washington sui nostri prodotti è dell’1,4%. Parliamo di decimali, non certo del 50%”, si evidenzia.
Allargando lo sguardo all’intero commercio europeo, ci si aggira a una sovrattassa poco sopra il 3%. Inoltre, aggiungono ancora le stesse fonti, “nel 2023, l’Ue ha incassato meno dell’1% in dazi sul valore delle importazioni dagli Usa, mentre gli Stati Uniti hanno raccolto 78 miliardi di dollari, pari al 2,6% del valore delle loro importazioni: è’ evidente chi fa un uso più aggressivo dello strumento tariffario. E non siamo noi”.
“L’opzione del contenzioso sarà certamente presa in considerazione”. Lo ha detto un alto funzionario europeo in merito all’ipotesi di ricorrere al Wto sui nuovi dazi degli Stati Uniti, definiti “reciproci” dagli Usa.
“Dobbiamo analizzare, ovviamente, le nostre opzioni. Dobbiamo anche vedere quanto è efficace. Quello che posso dire oggi è che ovviamente non possiamo vedere come questa sia una risposta legittima, per non parlare di una risposta giustificata” ai dazi europei.
“L’Unione Europea ha dazi molto bassi sugli Stati Uniti. Sono vincolati dal Wto. Abbiamo impegni legali in cui garantiamo questi bassi livelli di tariffe. Quindi, per gli Stati Uniti ora entrare e affermare con una metodologia che non sembra davvero una metodologia” pone “grandi preoccupazioni anche dal punto di vista legale, non solo da quello economico e politico”.
(da agenzie)
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Aprile 3rd, 2025 Riccardo Fucile
“GLI STATI UNITI STESSI POTREBBERO ESSERE TRA I PRINCIPALI DANNEGGIATI DALLE POLITICHE PROTEZIONISTICHE DI TRUMP. CHI GESTISCE PORTAFOGLI GLOBALI COMINCERÀ A GUARDARE AGLI STATI UNITI CON OCCHI MOLTO DIVERSI. GLI INVESTITORI INTERNAZIONALI VENDERANNO ASSET AMERICANI”
La stretta di Donald Trump sul commercio globale sta colpendo gli asset statunitensi più di quelli di molte grandi economie appena bersagliate dai nuovi dazi.
I futures sugli indici azionari americani sono crollati di oltre il 4% dopo che Trump ha annunciato, a mercati chiusi mercoledì, una vasta serie di tariffe. […] Altrove, tuttavia, l’impatto è stato meno drammatico: lo Stoxx Europe 600 ha perso l’1,9%, mentre l’euro è salito del 2,2% contro il dollaro, toccando il massimo da ottobre. Un ampio indice dei titoli asiatici ha registrato una flessione fino all’1,7%.
La svendita diffusa sui mercati globali mostra chiaramente che gli investitori non si aspettano vincitori da quella che è, finora, la mossa più aggressiva in una guerra commerciale in piena escalation. Ma suggerisce anche che gli Stati Uniti stessi
potrebbero essere tra i principali danneggiati dalle politiche protezionistiche di Trump.
«Chi gestisce portafogli globali comincerà a guardare agli Stati Uniti con occhi molto diversi», ha dichiarato al telefono Neil Birrell, chief investment officer di Premier Miton Investors. «Gli investitori internazionali venderanno asset americani e cominceranno a spostare i capitali? Sì, probabilmente lo faranno».
Nel complesso, il dollaro si avvia verso la sua peggior giornata da oltre due anni, mentre i mercati si preparano all’impatto economico delle misure. Lo yen giapponese è salito dell’1,9% contro il biglietto verde, e i rendimenti dei Treasury a dieci anni sono scesi ai minimi da ottobre, aggravando ulteriormente la debolezza del dollaro.
L’annuncio dei dazi ha accentuato la pressione su un mercato azionario statunitense già in difficoltà dall’inizio dell’anno. Gli investitori temono che le politiche di Trump possano alimentare l’inflazione e aumentare il rischio di recessione nella prima economia mondiale.
Prima dell’annuncio, l’S&P 500 segnava già un calo del 3,6% da inizio anno, mentre il Nasdaq 100 aveva perso circa il 7%. Anche i cosiddetti “Magnifici Sette” del tech sono precipitati. In netto contrasto, il DAX tedesco segna un +10% nel 2025.
«Non stiamo comprando il ribasso negli Stati Uniti», ha affermato Aneeka Gupta, responsabile della ricerca macroeconomica presso Wisdom Tree UK Ltd. «In questa fase d’incertezza, gli investitori stanno cercando rifugio nei titoli a reddito, in attesa di capire come reagiranno gli altri Paesi con le loro contromisure».
(da agenzie)
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Aprile 3rd, 2025 Riccardo Fucile
IL RISULTATO? AUMENTERANNO I PREZZI, E IL COSTO AGGIUNTIVO (8,5 MILIARDI) SARÀ SCARICATO SUI CONSUMATORI… IL TITOLO APPLE AFFONDA A WALL STREET: -8,5% IN APERTURA DEI MERCATI … JPMORGAN: “CON I DAZI C’È UN RISCHIO RECESSIONE”
Nike e Apple aprono a Wall Street in forte calo. Nike perde il 13% scendendo ai minimi
dal 2017. Apple perde l’8,5% e brucia 255 miliardi di dollari di valore.
Se gli Usa manterranno gli ingenti dazi annunciati, c’è un rischio recessione per l’economia statunitense e mondiale nel 2025. Lo afferma JPMorgan in una nota agli investitori, riportata da Cnn.
“Sottolineiamo che queste politiche, se mantenute, probabilmente spingerebbero l’economia statunitense e mondiale in recessione quest’anno”, hanno affermato gli analisti. JPMorgan ha osservato che le tariffe aumenterebbero le tasse per gli americani di 660 miliardi di dollari l’anno, il più grande aumento fiscale nella memoria recente.
E aumenteranno anche i prezzi, aggiungendo il 2% all’indice dei prezzi al consumo, una misura dell’inflazione statunitense che ha fatto fatica a tornare con i piedi per terra negli ultimi anni. “L’impatto sull’inflazione sarà sostanziale”, hanno affermato gli analisti. “Consideriamo la piena attuazione di queste politiche come uno shock macroeconomico sostanziale”.
Quando nel 2018 il presidente Trump impose per la prima volta dazi alla Cina, Apple iniziò a trasferire parte della produzione di iPad e AirPods in Vietnam e quella degli iPhone in India. Ma con il ritorno di Trump alla Casa Bianca, quella strategia potrebbe essersi rivelata un boomerang per la società quotata più capitalizzata al mondo.
Mercoledì Trump ha annunciato che gli Stati Uniti imporranno dazi del 46% sul Vietnam e del 26% sull’India. La Casa Bianca ha dichiarato che tali dazi entrano in vigore immediatamente, ma alcuni esperti di commercio ritengono che si tratti di misure preliminar
I dazi proposti rischiano di aggravare ulteriormente la pressione sull’attività di Apple. L’azienda sta già affrontando dazi del 20% sui prodotti importati dalla Cina, dove produce circa il 90% degli iPhone venduti nel mondo. Trump ha dichiarato che tale aliquota salirà al 34% con il nuovo piano tariffario.
Apple è l’azienda tecnologica più colpita da questi dazi, ma anche molte altre ne risentiranno, direttamente o indirettamente. Google e Microsoft, ad esempio, non dipendono in modo così massiccio da fornitori internazionali, ma hanno comunque attività significative nel settore dell’elettronica di consumo. Inoltre, i dazi potrebbero aumentare i costi per la costruzione dei nuovi enormi data center necessari allo sviluppo delle tecnologie di intelligenza artificiale.
I costi delle cosiddette “tariffe reciproche”, come le definisce Trump, potrebbero mettere Apple in seria difficoltà. iPhone, iPad e Apple Watch rappresentano tre quarti dei quasi 400 miliardi di dollari di fatturato annuo dell’azienda. Con Trump che afferma di non voler concedere esenzioni sui dazi, Apple dovrà o pagarli — riducendo così i propri margini di profitto — oppure scaricare i costi sui consumatori alzando i prezzi.
Secondo Morgan Stanley, i dazi sui dispositivi Apple importati dalla Cina faranno aumentare i costi annuali dell’azienda di 8,5 miliardi di dollari, senza che l’amministrazione Trump preveda forme di compensazione. Questo impatterebbe negativamente sugli utili dell’anno successivo per circa 0,52 dollari per azione, ovvero 7,85 miliardi di dollari in meno — una riduzione di circa il 7% sui profitti previsti.
Dopo le dichiarazioni di Trump, il titolo Apple ha perso il 5,7% nel trading after-hours.
Durante il precedente mandato di Trump, il lavoro diplomatico di Cook contribuì a far sì che Apple evitasse i dazi su molti dei suoi prodotti. All’epoca, gli uffici commerciali americani non imposero dazi sugli iPhone e rimossero quelli sull’Apple Watch.
Nel 2019, Trump visitò uno stabilimento Apple in Texas che produceva computer desktop. Tim Cook era al suo fianco mentre il presidente si prendeva il merito per quella fabbrica, attiva però fin dal 2013. Negli anni successivi, Apple non ha trasferito negli USA la produzione di nessun prodotto principale. Ha invece puntato a diversificare fuori dalla Cina.
Nel 2017, all’inizio del mandato di Trump, Apple iniziò ad avviare linee di assemblaggio per gli iPhone in India. Ci sono voluti cinque anni per formare i lavoratori e costruire l’infrastruttura necessaria a produrre i modelli più recenti. Attualmente, Apple sta aumentando la produzione nel Paese, con l’obiettivo di arrivare a realizzare lì circa il 25% dei 200 milioni di iPhone venduti ogni anno.
Ha inoltre cominciato a spostare la produzione di AirPods, iPad e MacBook in Vietnam. Il Paese è diventato una destinazione privilegiata per Apple e altri produttori dopo che la pandemia di Covid-19 ha bloccato le fabbriche cinesi nel 2020. Nel 2023, oltre il 10% dei primi 200 fornitori di Apple era basato in Vietnam
Tuttavia, Apple ha avuto difficoltà con la produzione negli Stati Uniti. Nello stabilimento texano che produceva i Mac, alcuni operai abbandonavano il turno prima dell’arrivo dei sostituti, costringendo l’azienda a fermare la linea di montaggio. Inoltre, era difficile trovare fornitori in grado di produrre componenti specifici come una vite personalizzata.
Tim Cook ha dichiarato che gli Stati Uniti non dispongono di un numero sufficiente di operai specializzati per competere con la Cina. In una conferenza del 2017, spiegò che la Cina è uno dei pochi luoghi in cui Apple può contare su manodopera capace di gestire le sofisticate macchine utilizzate per i suoi prodotti.
«Negli Stati Uniti, potremmo convocare un incontro di ingegneri specializzati in attrezzature e forse non riusciremmo a riempire una stanza», disse Cook. «In Cina, potremmo riempire diversi campi da football.
(da agenzie)
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Aprile 3rd, 2025 Riccardo Fucile
LE POSSIBILI CONTROMISURE EUROPEE E LA STRATEGIA SUGGERITA ALL’ITALIA
A margine della presentazione del rapporto di primavera di Confindustria, abbiamo parlato con l’economista e direttore dell’Osservatorio Conti Pubblici dell’Università Cattolica Carlo Cottarelli delle conseguenze dei dazi sulle importazioni dei prodotti europei che il presidente Usa Donald Trump ha annunciato, delle possibili
contromisure che potrebbe adottare l’Unione europea e della strategia del governo italiano.
Siamo alla vigilia dell’annuncio del presidente Trump sui dazi. Cosa ci possiamo aspettare che succeda poi da domani?
Non lo so perché con Trump è difficile fare previsioni. Ieri ha detto che sarà particolarmente buono, vediamo che cosa annuncia. La situazione è già incerta adesso speriamo che eventuali negoziazioni non siano prolungate troppo nel tempo. Però è difficile perché è complicato fare queste negoziazioni sui dazi Nel primo mandato di Trump, le negoziazioni con Canada e Messico sono durate tre anni. Pensate a una negoziazione che coinvolge da un lato gli Stati Uniti, dall’altro tutti i paesi del mondo, perché le tariffe dei dazi sarebbero universali. Saranno discussioni molto complicate che creeranno incertezza purtroppo.
La reazione immediata quale deve essere? La Presidente della Commissione europea Von der Leyen ha parlato di una rappresaglia.
Voglio vedere se la Cina ci imponesse dei dazi che facciamo, non rispondiamo? È chiaro che dobbiamo rispondere ai dazi americani anche per far vedere che se un’altra parte del mondo ci impone dei dazi, noi a questo punto rispondiamo non si può mostrare l’altra guancia. È chiaro che questo ci danneggia. Però il punto è quanto danneggia le imprese americane, che poi andranno da Trump a lamentarsi. Poi, attenzione, la risposta non deve necessariamente essere limitata ai dazi. Deve essere una risposta che va a danneggiare le imprese americane. Il Canada aveva proibito alle imprese americane di partecipare ai bandi per le opere pubbliche in Ontario. Dobbiamo avere un po’ di fantasia, cercando di dare una risposta mirata, con l’obiettivo poi di sedersi al tavolo e cominciare questa discussione che non sarà facile. Però è meglio la discussione piuttosto che andare a un’escalation di dazi e contro dazi.
Gli obiettivi di Trump sono anche politici, non solo commerciali. È là che sta allora la chiave, trovare risposte che siano anche a livello di rapporti politici, magari su altri settori penso alla difesa o al gas?
Sì la risposta politica è importante, però attenzione non è che ogni Paese europeo può cercare di avere uno sconto da Trump basandosi sul proprio buon rapporto politico perché questo vorrebbe dire fondamentalmente andare a negoziare uno per unoe quindi è inevitabile che si avrebbe un un indebolimento di ogni Paese europeo, alla fine
Traduco se qualcuno nel Governo pensa: “vabbè ma noi poi parliamo con Vance se ora viene in Italia e ce la risolviamo per i fatti nostri”, questa è un’idea velleitaria secondo il suo punto di vista?
A parte che sarebbe la fine del mercato unico perché se c’è una cosa che deve essere unitaria è la politica dei dazi e il commercio internazionale. Ma a parte quello c’è la questione che come ho detto apparentemente all’inizio può sembrare una cosa utile però ci indebolirebbe nel lungo periodo, perché vorrebbe dire che siamo disposti ad andare a negoziare con le grandi potenze uno per uno invece di stare insieme.
Questa questione dei dazi si innesta su una situazione dell’economia italiana che è già in forte rallentamento. Rischia di essere la mazzata finale?
Sì nel terzo e quarto trimestre dell’anno scorso abbiamo fatto nei due trimestri il +0,1% di crescita, quindi siamo praticamente fermi. Adesso il dato della produzione industriale a gennaio fortunatamente ha avuto un rimbalzo, l’occupazione che si era fermata per quattro mesi anche quella cresce. Speriamo che siano segnali positivi. La riduzione dei tassi di interesse ha aiutato però probabilmente ci sarà una pausa adesso sempre collegata a questa guerra dei dazi che è proprio una cosa che non ci voleva.
L’idea di trovare degli sbocchi di mercato alternativi se non sostitutivi degli Stati Uniti addirittura guardando alla Cina è una cosa realistica?
Fortunatamente il mondo è meno dominato dal mercato americano di come era una volta. C’è l’India in particolare e sapete dell’accordo che si sta discutendo tra l’Unione europea e l’India. Questo in termini di sbocchi commerciali, ma in termini di trovare la sponda politica che ci sarebbe meno con gli Stati Uniti da qualche altra parte mi sembra davvero strano. Non è che noi possiamo fare la NATO con la Cina, faccio per dire.
(da Fanpage)
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