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IL POLITOLOGO VITTORIO EMANUELE PARSI: “LA FOGA ARRUFFONA CON LA QUALE TRUMP HA INTRODOTTO I DAZI ERGA OMNES, PINGUINI COMPRESI, RIVELA IL MOVENTE CHE ISPIRA LE MOSSE DEL BANCAROTTIERE: FAR TORNARE INDIETRO LE LANCETTE DELLA STORIA”

Aprile 6th, 2025 Riccardo Fucile

“CON BUONA PACE DELLE AFFERMAZIONI IDIOTE DI TRUMP E VANCE SUGLI ‘EUROPEI SCROCCONI CHE DERUBANO GLI AMERICANI’, SONO PROPRIO QUESTI ULTIMI CHE VIVONO ‘A SCROCCO’ DEI PRIMI E AL DI SOPRA DELLE LORO POSSIBILITÀ, GRAZIE AGLI INVESTIMENTI ESTERI CHE AFFLUISCONO NEGLI STATI UNITI”

La foga approssimativa e arruffona con la quale Donald Trump ha introdotto i suoi dazi validi erga omnes, pinguini compresi, è rivelatrice del vero movente che ispira le mosse del bancarottiere diventato il 47esimo presidente degli Stati Uniti.
Non si tratta di far tornare grande l’America, ma di far tornare indietro le lancette della storia, a un’epoca precedente la grande trasformazione della seconda metà del Novecento.
Come è stato fatto notare da più di un commentatore, Donald Trump ha introdotto un regime tariffario generalizzato analogo a quello in vigore con lo Smoot-Hawley Tariff Act del 1930. L’opinione prevalente – ma non l’unica – è che i dazi colpiscano non soltanto le economie dei paesi verso i quali sono applicate, ma anche quella del paese che le vara, portando, tra l’altro, al possibile innalzamento dei prezzi, al peggioramento dell’efficienza e persino al rischio di recessione.
Sempre a detta di molti, i benefici sul lungo periodo attesi da questo genere di misure, in primis la riduzione strutturale del deficit e la reindustrializzazione degli Stati Uniti, rischiano di essere più che cannibalizzati dagli effetti negativi di breve periodo, l’inflazione innanzitutto.
Con buona pace delle affermazioni idiote e offensive della strana coppia che risiede alla Casa Bianca (Trump e Vance) sugli “europei scrocconi che derubano gli americani”, sono proprio questi ultimi che vivono “a scrocco” dei primi, e dei tanti altri che finanziano il debito e il deficit americani. Sono gli americani che vivono al di sopra delle proprie possibilità, solo grazie agli investimenti esteri che affluiscono negli Stati Uniti.
È vero che gli europei non investono in difesa quanto dovrebbero, e che questo ha consentito anche a loro di avere un tenore di vita superiore a quanto avrebbero potuto permettersi se avessero dovuto preoccuparsi in autonomia della minaccia costituita prima dall’Urss e poi dalla Russia, ma è altrettanto vero che una parte consistente delle spese militari europee concorre ad acquistare beni americani e finanzia utili e posti di lavoro in quei settori.
Vedremo come reagirà l’Europa a questa tempesta scatenata da Trump sull’economia globale, la cui crescita a partire dagli anni Novanta è stata in larga parte dovuta al gigantesco incremento del commercio internazionale. Il mondo ha già conosciuto lunghi periodi di protezionismo e, nello specifico, l’economia americana è stata maggiormente caratterizzata dal protezionismo che dal libero-scambismo.
Ma così non è stato a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, ovvero dalla nascita del “secolo americano”, di cui la preferenza per il libero scambio ha rappresentato un pilastro. L’ordine internazionale liberale sul quale esso si fondava non era solo la conseguenza di una supremazia militare e di una leadership economica degli Stati Uniti, ma rappresentava un vero e proprio “manifesto” per un mondo più pacifico, meno anarchico e più cooperativo, un manifesto dalla portata non meno epocale di quello redatto quasi un secolo prima da Marx ed Engels.
Se il libero scambio ha potuto affermarsi e istituzionalizzarsi, ciò è stato possibile perché riposava sulle garanzie americane, era la scelta di questo regime da parte di Washington, affermate in maniera bipartisan dalle diverse Amministrazioni che si sono avvicendate alla Casa Bianca dal 1944 in poi, a fornire credibilità e fiducia nei delicati meccanismi del commercio internazionale.
Ripudio della guerra d’aggressione e libero commercio sono state le colonne ideologiche dell’ordine liberale che ha consentito agli Stati Uniti di far sì che la loro egemonia incontrasse un così basso livello di opposizione da parte degli altri attori del sistema internazionale. Sono queste le colonne contro cui Trump – un novello Sansone, fanatico tanto quanto il primo – si sta scagliando con furia, letteralmente, iconoclasta.
Siccome non bastavano il ritorno della guerra in Europa, graziosamente offerto da Vladimir Putin, e il dispregio della legge internazionale che vediamo in scena in medio oriente, ecco il colpo finale nei confronti della dimensione economica dell’ordine internazionale. La via del protezionismo, inevitabilmente, ci trascina indietro nel tempo, a quegli anni Trenta che furono caratterizzati da conflitti ideologici furibondi, guerre senza quartiere ed aree economiche esclusive, corollario delle sciagurate sfere di influenza.
(da il Foglio)

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“PECHINO NON ACCETTA PIÙ DI SUBIRE L’ORDINE GLOBALE: VUOLE CONTRIBUIRE A RISCRIVERLO”

Aprile 6th, 2025 Riccardo Fucile

LA RISPOSTA CINESE AI DAZI DI TRUMP CON L’IMPOSIZIONE DI TARIFFE DEL 34% SUI BENI AMERICANI … LA CINA È TROPPO GRANDE PER RITIRARSI, TROPPO ESPOSTA PER CHIUDERSI, TROPPO INTERCONNESSA PER ISOLARSI. LA VERA DOMANDA È QUALE SISTEMA EMERGERÀ DOPO”

A 48 ore dall’annuncio di Trump sui dazi a concorrenti e alleati, la Cina risponde con
fermezza: dazi del 34% su beni americani, restrizioni su import agricolo, limitazioni alle esportazioni di materie prime critiche.
Al di là della simmetria apparente, la reazione cinese rivela un approccio più articolato: l’adattamento calcolato e strategico di una potenza che conosce la natura sistemica della sfida con gli Stati Uniti.
La Cina sa che questa partita va ben oltre il commercio. Non si tratta solo di riequilibrare la bilancia commerciale: l’obiettivo di Trump è ricostruire l’autonomia industriale americana, riportare intere filiere in patria e ridurre al minimo la dipendenza strategica dagli avversari.
La Cina è il bersaglio principale, ma non l’unico. I dazi sono infatti una leva di pressione, se non intimidazione, anche su Europa, Sud globale, e persino sull’industria americana globalizzata, che paga ora il prezzo di filiere troppo dipendenti da Pechino
Per la Cina la posta in gioco è altissima. I dazi fanno male e Xi Jinping deve evitare un pericoloso rallentamento economico, garantire una crescita non inferiore al 5% per contenere la disoccupazione giovanile e salvaguardare la stabilità sociale. Le vulnerabilità sono però molteplici: invecchiamento demografico, fuga di capitali, settore immobiliare in crisi, stagnazione dei consumi. Per compensare una domanda interna che non riparte, il governo ha rafforzato i sussidi industriali, alimentando l’export, principale motore di crescita, ma inasprendo così lo scontro con Washington, che accusa Pechino di distorcere la concorrenza e di scaricare sul mondo il suo eccesso di capacità produttiva. Per questo la Cina non può limitarsi a rappresaglie tariffarie, ma deve preparare un arsenale efficace: restrizioni sull’export di terre rare, indagini su aziende statunitensi attive in Cina, possibili svalutazioni mirate del renminbi, persino una graduale dismissione di quote del debito sovrano Usa. Sono strumenti di pressione per creare spazio di manovra negoziale.
Allo stesso tempo Pechino ridisegna le rotte commerciali, sposta segmenti della produzione verso economie intermedie come piattaforme di transito per aggirare i dazi americani. Rafforza anche i rapporti con i paesi del Sud globale, riorganizza le catene del valore e rilancia la diplomazia economica multilaterale. Per attutire l’impatto dei dazi americani il governo cinese accentua anche le sue offensive di charme verso Giappone e Corea del Sud e, in forme più sottili, verso un’Europa –anch’essa alla ricerca di nuovi mercati– con cui è in corso un discreto corteggiamento reciproco. La Cina vuole presentarsi come attore prevedibile e responsabile.
È un messaggio per tutti quei governi disorientati dall’unilateralismo americano: la Repubblica Popolare si propone come forza stabilizzatrice, garante dell’ordine, sostenitrice della Organizzazione Mondiale del Commercio e in grado di offrir
infrastrutture, tecnologia e accesso a mercati in espansione.
Pechino sa anche che l’indole di Trump è transattiva e opportunistica: ogni scontro nasconde l’ipotesi di un accordo, ma intende arrivarci con buone carte. E non è escluso che, oltre al commercio, in un possibile perimetro negoziale con Washington possano entrare dossier più ampi: la gestione delle tecnologie dual use, la regolazione dell’intelligenza artificiale, la stabilità dello Stretto di Taiwan, il ruolo strategico della Russia.
Pechino non accetta più di subire l’ordine globale: vuole contribuire a riscriverlo.
Secondo Pechino la guerra commerciale in corso non è una crisi temporanea: è la nuova normalità di un ordine in trasformazione. Gli Stati Uniti non stanno semplicemente difendendo la loro industria: stanno cercando di riscrivere le gerarchie dell’economia internazionale, riconfigurando le regole del gioco.
La Cina è troppo grande per ritirarsi, troppo esposta per chiudersi, troppo interconnessa per isolarsi. Nella migliore tradizione strategica cinese, anche questa crisi è un’opportunità: per accelerare la transizione verso un mondo multipolare, per consolidare la propria influenza sul Sud globale, per disarticolare un ordine che Pechino contesta e che oggi anche Washington sembra voler abbandonare. La vera domanda non è chi vincerà, ma quale sistema emergerà dopo.
(da La Stampa)

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