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LA CASSAZIONE BOCCIA IL DECRETO SALVINI: NIENTE PIU’ “MADRE” E “PADRE” MA “GENITORE” SUI DOCUMENTI

Aprile 9th, 2025 Riccardo Fucile

ILLEGITTIMO PRIVARE IL MINORE DI UN DOCUMENTO D’IDENTITA’ CHE NON RAPPRESENTI LA SUA REALE FAMIGLIA

Niente «padre» e «madre» sui documenti dei figli, ma «genitori». La Cassazione ha respinto il ricorso del ministero dell’Interno e afferma che privare il minore di un documento d’identità che non rappresenti la sua reale famiglia sia «discriminatorio» e «illegittimo».
Cosa significa? Che è legittima la disapplicazione del decreto del Viminale del 2019, che consente unicamente di indicare sul documento i due genitori come padre e madre.
I giudici della Suprema Corte (collegio presieduto da Maria Acierno e composto dai consiglieri Laura Tricomi, Giulia Iofrida, Alessandra Dal Moro e Alberto Pazzi come consigliere estensore) scrivono: «L’effetto finale, irragionevole e discriminatorio dell’assunto del ministero sarebbe stato quello di precludere al minore una carta d’identità valida per l’espatrio» solo perché «figlio naturale di un genitore naturale e di uno adottivo dello stesso sesso».
La Cassazione ricorda di aver riconosciuto «rispetto a una coppia omoaffettiva femminile, che l’adozione in casi particolari si presta a realizzare a pieno il preminente interesse del minore alla creazione di legami parentali con la famiglia del
genitore adottivo, senza che siano esclusi quelli con la famiglia del genitore biologico».
Da anni prosegue la battaglia tra Viminale e Comuni che hanno trascritto all’anagrafe i due genitori di coppia omosessuale come due madri o due padri. Ora la Cassazione dà il via libera e boccia il decreto Salvini.
(da agenzie)

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I DATI DEL GOVERNO SULL’AVANZAMENTO DEL PNRR SONO FUORVIANTI

Aprile 9th, 2025 Riccardo Fucile

L’ANALISI DI OPENPOLIS: NON E’ VERO CHE IL 60% DEI PROGETTI FINANZIATI SAREBBE CONCLUSO, SIAMO SOLO AL 24%

Siamo ormai entrati nell fase finale del Pnrr, la cui conclusione è prevista nel 2026. È quindi importante iniziare a fare delle valutazioni su cosa ha funzionato e cosa no. Il governo italiano, pur riconoscendo la necessità di accelerare sulla spesa, continua a professare grande fiducia.
Va in questa direzione anche la sesta relazione sullo stato di attuazione del piano pubblicata di recente. Nel documento infatti si legge che oltre il 60% dei progetti finanziati con i fondi europei sarebbe già concluso o in via di conclusione.
Tale dato, se non contestualizzato, rischia di essere fuorviante.
Gli interventi già conclusi infatti valgono appena un terzo dei fondi Pnrr già assegnati. Dato che scende al 24% se invece si considerano le risorse totali spettanti al nostro paese (molte delle quali ancora devono essere ripartite).
A questo si lega un altro elemento molto rilevante. La gran parte dei progetti già conclusi riguarda infatti l’acquisto di beni o servizi (53,3%) o la concessione di contributi a privati o imprese (42,3%).
Meno del 5% dei progetti completati afferisce invece a opere pubbliche (infrastrutture o impiantistica). Ne consegue che a “gonfiare” il dato sui progetti già completati sono gli interventi di minori dimensioni o con un’implementazione relativamente più semplice. Al contrario, per quanto riguarda le opere più complesse, siamo ancora indietro.
(da Openpolis)

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SECONDO UN CALCOLO DI “REUTERS”, LE TARIFFE IMPOSTE DA TRUMP FARANNO AUMENTARE IL PREZZO DEGLI IPHONE: IL MODELLO TOP DI GAMMA ARRIVEREBBE A COSTARE 2.300 DOLLARI (ORA NE COSTA 1.599)

Aprile 9th, 2025 Riccardo Fucile

SECONDO ALTRI CALCOLI DI “FORBES”, C’È IL RISCHIO CHE UN IPHONE ARRIVI A COSTARE COME UNA MACCHINA (30 MILA EURO) – IL 90% DEI TELEFONI “APPLE” È ASSEMBLATO IN CINA, MENTRE GLI IPAD E AIRPODS SONO PRODOTTI IN VIETNAM

Al netto del parziale rimbalzo di ieri, le prime tre sedute dopo l’annuncio di Trump sui dazi sono state una batosta per le Magnifiche Sette, i sette colossi Usa a forte vocazione tecnologica che guidano i listini.
L’azienda di Cupertino resta ancora quella con il maggior valore in Borsa al mondo ma le prospettive sembrano improvvisamente difficili. Come e più di Tesla, è un’azienda manifatturiera con una catena di fornitura molto complessa, lunghissima e strettamente dipendente dall’Asia. I numeri di Trump fanno paura: fino al 46% di dazi sui prodotti provenienti dal Vietnam, il 26% su quelli dall’India, il 34% dalla Cina (più il rischio di un 50% aggiuntivo dopo la risposta di Pechino)
Perché se il design Apple è Made in California, le mani che assemblano e confezionano i suoi dispositivi lavorano tra Shenzhen, Hanoi, Bangalore e Chengdu. Quelle mani ora costeranno di più.
Il 90% degli iPhone venduti nel mondo viene ancora assemblato in Cina, da Foxconn e Luxshare. Dopo i primi dazi trumpiani e la pandemia, la Mela aveva avviato una faticosa diversificazione per ridurre la dipendenza da Pechino: iPad e AirPods in
Vietnam, iPhone in India, con l’obiettivo di arrivare a un quarto della produzione mondiale entro il 2026. Le tariffe vanno a colpire in pieno i due cardini della strategia di Tim Cook.
Gli smartphone pesano ancora per oltre il 50% del fatturato Apple, ma il settore dei Servizi è sempre più rilevante ed è arrivato nel 2024 al 25% delle entrate. Tuttavia, da iCloud ad Apple Music, da Apple Tv+ all’App Store, tutto continua a ruotare intorno ai dispositivi e al solito iPhone. Altri colossi, da Amazon a Microsoft fino a Google, possono fare perno sulle divisioni cloud, enterprise e pubblicità. Apple no.
Già nel 2017 Tim Cook aveva però chiarito che «negli Stati Uniti non esiste una forza lavoro sufficientemente specializzata per sostenere la produzione su larga scala dei dispositivi. In Cina potremmo riempire interi stadi di ingegneri di processo. Negli Usa fatichiamo a riempire una sala riunioni».
Secondo un calcolo di Reuters, i dazi potrebbero far lievitare il prezzo dell’iPhone top di gamma a 2.300 dollari, dai 1.599 attuali. Ma secondo conteggi assolutamente teorici di Forbes, un rimpatrio totale della produzione trasformerebbe l’iPhone in un bene di lusso, con un iperbolico prezzo di 30 mila dollari l’uno. Apple dovrà assorbire almeno in parte i nuovi costi, andando ad abbattere il margine operativo, notoriamente stellare per la Mela (quello lordo era del 46,2% nel quarto trimestre fiscale 2024).
(da Corriere della Sera)

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L’EUROPA METTE IL “BAZOOKA” SUL TAVOLO E AVVERTE TRUMP SULLE TARIFFE: “NON CI COSTRINGA A USARLO”

Aprile 9th, 2025 Riccardo Fucile

LA LINEA TELEFONICA TRA BRUXELLES E WASHINGTON SEMBRA INTERROTTA, LE MISURE STRAORDINARIE STUDIATE DALL’UE CONTRO LE AZIENDE STRANIERE CHE OPERANO NEL CONTINENTE E LE TRE FASI PER I CONTRODAZI… OGGI IL COMITATO PER IL COMMERCIO APPROVERÀ LA PRIMA LISTA DI DAZI SUI BENI AMERICANI, IN VIGORE DAL 15 APRILE: DALL’ACCIAIO ALLE MOTO, DALL’ALLUMINIO AGLI YACHT

L’Europa mette il “bazooka” sul tavolo ma cerca la trattativa con Donald Trump sui dazi: «Non ci costringa a usarlo». La linea telefonica tra Bruxelles e Washington, però, sembra interrotta.
La Commissione, infatti, anche nelle ultime ore ha cercato un contatto con l’Amministrazione Usa senza trovarlo. Il telefono squilla, dunque, ma nessuno alza la cornetta. «Non riusciamo a individuare l’interlocutore giusto», ha spiegato una delle massime responsabili del Commercio all’interno dell’esecutivo europeo. Segno che il dialogo per il momento non è ancora partito. Uno dei portavoce della Commissione ha confermato che al momento non sono previsti incontri o colloqui di alto livello. «Ma tutto – ha aggiunto con un pizzico di fiducia – può cambiare rapidamente».
In questo quadro la Ue si prepara al peggio pur sperando di aprire presto un canale negoziale. Il “bazooka” di cui si parla è lo ”Strumento anti- coercizione” che si può utilizzare nei casi di crisi economica e commerciale con altri Paesi e che mette a disposizione misure straordinarie come la sterilizzazione della presenza di aziende straniere nella Ue.
In assenza di un negoziato, l’Unione intanto si prepara a rispondere al tornado trumpiano delle tariffe. Oggi il Comitato per il Commercio approverà la prima lista di dazi sui beni americani. Dall’acciaio alle moto, dall’alluminio agli Yacht, questo primo elenco sarà operativo dal 15 aprile. Il voto di oggi prevede una maggioranza “inversa”: in sostanza, serve una maggioranza qualificata per bloccare l’approvazione della proposta della Commissione, che su questa materia esercita una competenza esclusiva.
È in corso di definizione anche una seconda tornata di dazi molto più ampia – su alimentare, elettrodomestici, pelletteria etc – da lanciare dal 15 maggio. E poi un’altra – limitata a beni considerati centrali nel sistema agroalimentare Usa, come la soia e le mandorle – da rendere operativa a dicembre. Il tutto, ovviamente, se la Casa Bianca insisterà nel non sentire ragioni sulla sua politica tariffaria. La Ue, infatti, continua a proporre – lo aveva già fatto il commissario Sefcovic nelle scorse settimane – la soluzione di azzerare reciprocamente tutti i dazi: “Zero per Zero”.
Ma proprio perché dagli States ancora non arriva una disponibilità, il Vecchio Continente studia le contromisure e cerca i nuovi mercati dove vendere i prodotti “Made in Europe”. Ieri infatti Ursula von der Leyen – dopo aver incontrato
rappresentanti del settore farmaceutico preoccupati dai dazi -, ha avuto un colloquio telefonico con il premier cinese, Li Qiang, chiedendo una risoluzione negoziata della situazione attuale e sottolineando la necessità di evitare un’ulteriore escalation.
L’altra mossa a disposizione dell’Ue riguarda le “Big Tech”. La possibilità, ossia, di tassare i servizi che offrono società come Google, Amazon, Netflix, X. E anche di non transigere sul rispetto delle norme antitrust. «Se non vedremo la volontà di cooperare – ha avvertito la vicepresidente della Commissione, la spagnola Teresa Ribera – non esiteremo a imporre le sanzioni previste».
(da La Repubblica)

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LA “GIORGIA DEI DUE MONDI” VA DA TRUMP A BACIARGLI IL CULO? A 24 ORE DALL’ENTRATA IN VIGORE DEI CONTRO-DAZI EUROPEI CONTRO GLI STATI UNITI. LA DUCETTA NON PUO’ TRATTARE UN DIMEZZAMENTO DELLE TARIFFE RECIPROCHE USA-UE AL 10% PERCHE’ LA NEGOZIAZIONE DEVE PASSARE PER BRUXELLES. INSOMMA, CHE CI VA A FARE?

Aprile 9th, 2025 Riccardo Fucile

IL VERO NODO SI CHIAMA CINA: IL TYCOON PUO’ PROMETTERE QUALCHE CONCESSIONE AGLI EUROPEI SOLO IN CAMBIO DELL’IMPEGNO NEL FRONTE ANTICINESE SUI DAZI. MA SU QUESTO PUNTO LA PREMIER RISCHIA DI ENTRARE IN COLLISIONE CON ALTRI BIG DELL’UE (GERMANIA IN TESTA)

Attorno al tavolone di Palazzo Chigi. Alza la mano uno degli imprenditori, richiama l’attenzione di Giorgia Meloni. «Presidente, lo sa che la Germania sta negoziando un accordo alle Nazioni Unite che penalizza i prodotti italiani?». La premier lo osserva. Poi allarga le braccia, riferiscono, e risponde teatrale: «Ah, bene… Va già tutto alla grande, adesso mi sento veramente confortata…». Risate in sala, diffuse. A stemperare la tensione di giorni drammatici. Dentro la battuta, però, anche un messaggio amaro: la situazione è complessa, per davvero. E nessuno sa davvero come andrà a finire.
Certo, il primo passo è mosso: Meloni parla alle imprese, mentre le borse bruciano valore e fiducia. E assicura ossigeno, perché 25 miliardi valgono una manovra, anche se si tratta di risorse riallocate. Adesso però deve costruire la seconda mossa, assai più rischiosa: andare da Donald Trump evitando che lo sforzo si trasformi in un viaggio a vuoto. Atterrerà a Washington il 16 aprile (pochi giorni dopo, a Roma, saranno i suoi vice a ricevere J.D. Vance). E sarà ricevuta alla Casa Bianca dal tycoon il 17: un appuntamento fissato da giorni e mai in discussione.
Del viaggio ha ragionato a lungo, mettendo in fila le priorità. La prima: evitare incidenti con il Presidente americano. La seconda: non indispettire gli alleati europei. Ne ha parlato nelle ultime ore, al telefono, con Ursula von der Leyen. E, secondo alcune fonti, anche con Emmanuel Macron. La sensazione, condivisa, è che Trump non arretri. Non subito, almeno. Ma la speranza è che prima o dopo si sieda a trattare.
Annusare l’aria: è questo il primo obiettivo della missione diplomatica. L’ambizione è farlo anche a nome dell’Europa, o almeno: questo è il messaggio che veicola Palazzo Chigi. Di certo, nei colloqui con la presidente della Commissione si è anche ragionato di un possibile punto di caduta che, alla fine di un’eventuale trattativa, potrebbe parzialmente ridurre l’impatto della tagliola americana: barriere doganali Usa al 10%. Se infatti Trump le ha fissate al 20%, e Ursula chiede “dazi zero”, è
naturale lavorare a questa mediazione.
La premier rilancerà l’idea di aumentare gli acquisti europei di gas americano. Ma il vero nodo si chiama Cina. La sensazione è che il leader repubblicano possa promettere qualche concessione agli europei solo in cambio dell’impegno ad arruolarsi nel fronte anticinese sul terreno dei dazi. Ed è qui, esattamente su questo punto, che la premier rischia di entrare in collisione con altri big dell’Unione.
Tra i partner di Roma, infatti, esistono sensibilità diverse. La Germania, assai legata a Pechino, non sembra intenzionata a seguire Trump su questo terreno. E anche la Spagna frena, decisamente. Ieri von der Leyen ha sentito il premier cinese: segnale chiaro, di cui Palazzo Chigi ha preso nota. Meloni, invece, dovrebbe presentarsi con un approccio più laico, disponibile a ragionare senza linee rosse. Un atteggiamento figlio anche della necessità politica di non perdere la sponda di Washington (fondamentale perché su questa ha investito dall’inizio del suo mandato, vitale se si considera che è stata l’unica leader a presenziare all’Inauguration day).
È una via stretta, un incastro ad alto rischio. Ma è l’azzardo che Meloni ha scelto. Anche perché, a colloquio con le categorie, avrebbe ottenuto un invito a spendersi nella direzione di un patto. «Non uno tra loro – spiega il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, dopo l’incontro nella sede del governo – vuole la guerra commerciale con gli Usa. Questo non significa non stare dalla parte dell’Europa: noi trattiamo assieme all’Unione. Ci stanno solo dicendo: chiunque può contribuire a evitare la guerra, lo faccia».
Nel frattempo, però, lo scontro tra le due sponde dell’Oceano continua. Oggi Bruxelles confermerà la lista dei contro-dazi: Roma ha tentato fino all’ultimo di ammorbidire l’elenco, senza esito. Ma ancora più delicata sarà la trattativa sul secondo pacchetto. L’Italia è attestata su una linea morbida. «Nessuna guerra commerciale», ribadisce il ministro per le Politiche Ue Tommaso Foti.
Il problema è che la guerra continua a muoverla Trump.
(da La Repubblica)

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ORA DIAMO PURE LA SCORTA AL PORTAVOCE DI MUSK IN ITALIA, SIAMO AL RIDICOLO: SE LA FACCIA PAGARE DAL SUO PADRONE MILIARDARIO NON DAGLI ITALIANI

Aprile 9th, 2025 Riccardo Fucile

AD ANDREA STROPPA ASSEGNATA LA SCORTA A CARICO DEGLI ITALIANI PER FARE GLI INTERESSI DI UN IMPRENDITORE STRANIERO? IN ITALIA GLI IMPRENDITORI NON FARLOCCHI LA SCORTA (PRIVATA) SE LA PAGANO DI TASCA

Andrea Stroppa, considerato il referente di Elon Musk in Italia, è sotto scorta. Lo scrive il quotidiano La Repubblica. La decisione sarebbe stata presa nei giorni successivi all’attentato incendiario che, nella notte del 31 marzo, ha colpito il Tesla Center di via Serracapriola, a Roma.
Il rogo doloso ha visto la distruzione di 16 auto. La procura sta indagando. Si parla di una mano anarchica.
Dalle critiche aperte a Fratelli d’Italia per il ddl Spazio alla difesa a spada tratta del suo mentore Musk, Stroppa negli ultimi mesi è entrato sempre più prepotentemente tra i protagonisti del dibattito politico e social.
Di pari passo, in fin dei conti, con il boom di popolarità (e non) dello stesso Elon Musk da quando si è legato a doppio nodo con l’amministrazione Trump. Stroppa, in particolare sul social X e raramente di persona, è assurto a vero e proprio portavoce del miliardario, interprete delle sue volontà imprenditoriali e politiche. Fino a scontrarsi apertamente con partiti e organi di stampa, come Corriere della Sera.
(da agenzie)

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L’ESPOSTO SULLA LAUREA DELLA MINISTRA CALDERONE: “RETTE NON PAGATE, 110 E LODE CON MEDIA DEL 26, ESAMI IRREGOLARI”

Aprile 9th, 2025 Riccardo Fucile

UN DOCENTE UNIVERSITARIO PRESENTA UN ESPOSTO SUL TITOLO DI STUDIO ALLA LINK UNIVERSITY E PUNTA IL DITO SUGLI ESAMI

Un docente universitario ha presentato un esposto alla procura di Roma sulla laurea-lampo della ministra Marina Calderone. Il professor Saverio Regasto, ordinario di diritto pubblico comparato all’università di Brescia, chiede di accertare se i titoli della ministra presso la Link Campus University siano frutto di irregolarità. E se si possano configurare ipotesi di reato. L’esposto, lungo tre pagine con 17 allegati e di cui parla oggi Il Fatto Quotidiano, ritorna sugli esami di economia (anche due al giorno) e sull’iscrizione alla magistrale senza traccia del titolo triennale nell’Anagrafe dei Laureati.
La cattedra
Rimane curiosa da parte di Link University il conferimento di una cattedra in Relazioni Industriali mentre era ancora studentessa. Ma anche, ricorda il quotidiano, le rette non pagate, la media degli esami ferma a 26 e la laurea ottenuta con 110 e lode. Mentre il marito della ministra Rosario De Luca era membro del Cda della Link Campus. Due ex rettori, due professori e lo stesso direttore generale dell’epoca hanno confermato che le modalità di svolgimento degli esami erano “irregolari”. Perché avvenivano alla presenza di un solo professore anziché due, come prevede la legge.
Le lauree facili
Infine, secondo l’ex Rettore Adriano De Maio «lì si compravano i titoli di studio». Si
parla dell’inchiesta della Procura di Firenze sulle lauree facili per i membri della Polizia di Stato grazie a una convenzione tra il sindacato Siulp e la Link Campus. La sentenza è attesa a giugno. Negli stessi anni anche i Consulenti del lavoro guidati da Marina Calderone avevano siglato una convenzione simile. Con sconti sulle rette, abbuono di esami e punteggi in più sul voto di laurea.
(da agenzie)

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IL DELIRIO.“MI BACIANO IL CULO, MUOIONO DALLA VOGLIA DI FARE UN ACCORDO”: TRUMP, ALLA CENA DI GALA DEL NATIONAL REPUBLICAN CONGRESSIONAL COMMITTEE, FA IL BULLO E IRRIDE I PAESI CHE CERCANO UNA TRATTATIVA DOPO L’ENTRATA IN VIGORE DEI DAZI

Aprile 9th, 2025 Riccardo Fucile

IL CALIGOLA DI MAR-A-LAGO ATTACCA I RIBELLI REPUBBLICANI: “LASCIATE CHE VE LO DICA, VOI NON NEGOZIATE COME NEGOZIO IO. SO COSA STO FACENDO. È IL NOSTRO TURNO DI FREGARLI!” … MATTEO RENZI: “I SOVRANISTI NOSTRANI FINISCONO NELL’ELENCO DEI.. BACIATORI. PRIMA O POI SI CAPIRÀ CHE MELONI E SALVINI NON SONO PATRIOTI MA SUDDITI”

È il D-Day, il giorno dei dazi. Alla mezzanotte (americana) di mercoledì 9 aprile, le tariffe preannunciate da Donald Trump sono ufficialmente entrate in vigore. Dal 20% sull’export dall’Unione europea fino all’esorbitante 104% imposto alla Cina in tre tranche, una vera e propria escalation del conflitto commerciale tra le due principali superpotenze economiche al mondo. La porta dello Studio Ovale, lo ha già detto più volte il tycoon, è sempre aperta. Ma a una condizione: i Paesi che vogliono trattare sulla questione delle «tariffe reciproche», devono essere pronti a offrire qualcosa di valore alla Casa Bianca. Qualcosa «di creativo» che, avrebbe specificato lo stesso Trump durante una cena di raccolta fondi per il Partito repubblicano, non deve per forza riguardare il commercio.
Washington si sente in una posizione di forza e fa la voce grossa. Dalla poltrona di Trump, gli altri Paesi si stanno preparando – e alcuni, come Israele, hanno già iniziato – ha fare a gara per volare negli Stati Uniti e scendere a compromessi con il tycoon: «Ci chiamano, mi baciano il culo, stanno morendo dal desiderio di fare un accordo». Mentre le borse si preparano a un altro tuffo nel profondo rosso, il presidente americano appare tranquillo: «So quel che diavolo sto facendo». E si concede anche
di dileggiare i leader stranieri in arrivo alla Casa Bianca, facendone una sorta di imitazione: «Per favore, per favore signore, fai un accordo. Farò qualunque cosa signore».
Una rivendicazione di dominio economico che non nasconde la profonda soddisfazione di chi, dopo anni di presunti soprusi, finalmente serve la sua vendetta come un piatto gelido: «Molti Paesi ci hanno fregato a destra e sinistra. Adesso è il nostro turno di fregarli, e così renderemo il nostro Paese più forte».
(da La Repubblica)

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SANITA’, ECCO COME I PAZIENTI SONO PRESI IN GIRO DA 20 ANNI

Aprile 9th, 2025 Riccardo Fucile

L’ INCHIESTA DI MILENA GABANELLI SUL CORRIERE DELLA SERA

I livelli essenziali di assistenza, noti come Lea, sono le prestazioni sanitarie che ogni Regione è obbligata a garantire ai cittadini, gratuitamente o con il pagamento di un ticket.
Parliamo di vaccinazioni, screening oncologici, visite dal medico di famiglia o dal pediatra, visite specialistiche, esami diagnostici, ricoveri e interventi chirurgici.
Per verificare il rispetto di questi obblighi, dal 2001 è attivo un sistema di monitoraggio nazionale che valuta se – e in che misura – le Regioni raggiungono gli standard previsti.
Gli indicatori vengono aggiornati periodicamente per rispondere ai bisogni della popolazione e sono suddivisi in tre grandi aree: prevenzione, assistenza territoriale e assistenza ospedaliera. I risultati possono essere rappresentati con tre colori: verde per le Regioni che rispettano i Lea, giallo per quelle con criticità e rosso per quelle inadempienti (qui pag. 13 i risultati del 2008, primi dati disponibili).
L’ultimo monitoraggio, approvato l’11 febbraio 2025 dal Comitato permanente per la verifica dei Lea, mostra che otto Regioni non raggiungono i livelli minimi richiesti: si tratta della Provincia Autonoma di Bolzano, Valle d’Aosta, Liguria, Abruzzo, Molise, Basilicata, Calabria e Sicilia
I pessimi risultati hanno sempre una spiegazione. Vediamo cosa non sta funzionando.
Il Piano di rientro
A partire dal 2007, le Regioni con disavanzi sanitari vengono inserite nei Piani di rientro, si tratta di programmi di risanamento pensati per rimettere i conti in ordine, ma anche per migliorare l’offerta assistenziale (qui Finanziaria 2005, articolo 1, comma 174). Se si confrontano i risultati del monitoraggio Lea con l’elenco delle Regioni in Piano di rientro (qui), emergono sovrapposizioni evidenti. Abruzzo, Molise e Sicilia sono in Piano di rientro dal 2007 e mostrano ancora oggi prestazioni insufficienti, la Calabria è entrata nel 2009 e anche qui i risultati sono negativi. La Liguria, pur avendo seguito un Piano di rientro soft tra il 2007 e il 2009, oggi si trova comunque in difficoltà. Lazio, Puglia e Campania, anch’esse in Piano di rientro, hanno fatto passi avanti negli ultimi anni, ma per molto tempo sono rimaste indietro come mostra un’analisi dell’Osservatorio Gimbe che fotografa l’andamento tra il 2010 e il 2019 (qui il report pag. 17). Ancora oggi non sono nella parte alta della classifica nazionale: la Puglia è al decimo posto, il Lazio al dodicesimo e la Campania, che sta chiedendo di uscire dal Piano di rientro, al tredicesimo.§
Ma cosa comporta davvero il Piano di rientro?
Niente sostituzioni dei pensionamenti
Un elemento chiave per comprendere le difficoltà di queste Regioni nel garantire i Livelli essenziali di assistenza è il blocco automatico del turn-over, che vuol dire non sostituire chi va in pensione, cosa che succede fino al 2019, quando il blocco viene meno per effetto del decreto-legge 35 (qui pag. 3). Questo blocco riguarda in particolare proprio le Regioni sottoposte a Piano di rientro: in Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Calabria e Sicilia il personale a tempo indeterminato del Servizio sanitario nazionale passa dai 197.532 medici, infermieri, amministrativi, ecc. del 2008 ai 165.428 del 2017. È una perdita di 32.104 professionisti, pari a un calo del 16,3%. In altre parole, su 100 medici e infermieri tagliati a livello nazionale, il 75% è in queste Regioni (qui pag. 20 tab. 8). Entrando nel dettaglio: tra il 2008 e il 2017 i medici diminuiscono del 18% e gli infermieri dell’11%, mentre i dirigenti non medici calano del 23% e il restante personale non dirigente del 20%. La Puglia, che invece è in Piano di rientro soft, perde solo il 4,8%.
I posti letto tagliati
Un altro indicatore importante che mostra le ripercussioni dei Piani di rientro riguarda la riduzione dei posti letto ospedalieri. A parità di condizioni di partenza rispetto alla media nazionale, nelle Regioni in Piano di rientro i tagli sono significativamente più pesanti: in queste aree è stato eliminato il 27% di posti letto in più rispetto alle altre Regioni. In termini numerici, la riduzione è di 0,59 posti letto ogni 1.000 residenti, contro i 0,43 tagliati nelle Regioni che non sono in Piano di rientro (qui a pag. 23-24). Il risultato si riflette oggi sugli standard non raggiunti per i posti letto. Sono al di sotto della soglia minima di 3 letti per 1.000 abitanti dedicati ai ricoveri per acuti la Calabria (2,7), la Campania (2,8) e l’Abruzzo (2,9). Ancora più critica la situazione dei posti letto post-acuti, per i quali lo standard è fissato a 0,7 per 1.000 abitanti. Sotto questa soglia si trovano il Molise e la Campania, entrambe ferme a 0,4, seguite da Abruzzo, Puglia e Sicilia (0,5), e infine la Calabria (0,6 qui pag. 13 e 14, ultimi dati disponibili presentati da Agenas il 18 febbraio 2025).
Meno opportunità di cura
Un’ulteriore conseguenza dei Piani di rientro è il divieto imposto alle Regioni di sostenere spese sanitarie non obbligatorie e di introdurre nuove prestazioni oltre a quelle già previste dai Lea. In pratica, le Regioni in Piano di rientro non possono finanziare prestazioni aggiuntive, nemmeno quando rappresentano potenziali
opportunità di cura per pazienti con gravi patologie (qui l’articolo del Corriere della Sera del dicembre 2024). Per esempio, non è consentito coprire farmaci non ancora rimborsati dal Servizio sanitario nazionale, anche se potrebbero offrire benefici importanti per malattie rare o condizioni croniche gravi. Fino all’aggiornamento delle tariffe dei Lea, entrate in vigore nel gennaio 2025, le Regioni in Piano di rientro non potevano garantire esami e terapie offerte in molte altre aree del Paese. Non erano previsti, ad esempio, specifici test per la diagnosi di malattie rare, la tomografia ottica computerizzata utile per individuare retinopatie, glaucomi e maculopatie, oppure tecniche diagnostiche avanzate come la videocapsula endoscopica, che permette di esplorare l’intestino in modo non invasivo. A queste si aggiungono alcune delle prestazioni più innovative in campo oncologico, escluse per anni nelle Regioni in Piano di rientro: la radioterapia stereotassica e l’adroterapia, trattamenti indicati per pazienti con tumori inoperabili o resistenti alla radioterapia tradizionale (qui). Il risultato è che i cittadini residenti in queste Regioni hanno avuto un accesso limitato all’innovazione diagnostica e terapeutica, creando disuguaglianze tra pazienti con le stesse patologie, e all’interno dello stesso Paese.
Meno soldi, più tasse
Infine per le Regioni in Piano di rientro c’è la perdita della quota premiale, ovvero quella parte del finanziamento del Servizio sanitario nazionale che viene attribuita solo a chi raggiunge determinati obiettivi di qualità ed efficienza. Per il 2024 questa quota vale 670 milioni di euro, pari allo 0,5% del livello complessivo di finanziamento (qui). Le Regioni che non raggiungono gli standard richiesti non la incassano, con un impatto diretto sulla disponibilità di risorse per la sanità. Ma oltre al danno c’è pure la beffa. I Piani di rientro prevedono un aumento automatico della pressione fiscale regionale, proprio per contribuire al risanamento dei conti. In particolare, si stabilisce l’incremento di 0,15 punti percentuali sull’Irap (l’imposta regionale sulle attività produttive) e di 0,30 punti sull’addizionale regionale Irpef, rispetto ai livelli base (qui legge 311/2004, Finanziaria 2005, art. 1, comma 174 e qui legge 23 dicembre 2009, n. 191, articolo 2, comma 86). Questo significa, per esempio, che in Lombardia, per un reddito inferiore ai 15 mila euro, l’addizionale Irpef è dell’1,23%, mentre in Calabria sale all’1,73%. In pratica, chi vive in Regioni con una sanità in difficoltà si trova a pagare di più in tasse locali, pur avendo accesso a servizi sanitari meno efficienti, con minori prestazioni disponibili e standard assistenziali inferiori. Un paradosso che accentua ulteriormente le disuguaglianze territoriali e sociali (Lazio, Calabria, Campania e Molise qui; Puglia; in Sicilia la maggiorazione viene azzerata dal 2019 qui; mentre in Abruzzo proprio per coprire la
voragine dei conti della sanità è scattato un nuovo aumento il 4 aprile 2025 qui).
Commissari e società di consulenza
Negli anni il Lazio, l’Abruzzo, la Campania, la Calabria e il Molise sono state anche commissariate. Calabria e Molise lo sono tuttora (qui). E per tutte queste Regioni, a cui va ad aggiungersi anche la Sicilia, sono entrate in campo persino le società di consulenza (qui). Alla fine hanno almeno sistemato i conti?
I conti
Dal 2007 al 2022 la situazione finanziaria delle Regioni in Piano di rientro è migliorata. Nel 2007 il disavanzo complessivo superava i 4 miliardi di euro (qui pag.12 tabella 4); nel 2022 la perdita si è ridotta a 452,9 milioni (qui, pag 73), da cui però sono esclusi i conti della Calabria che risulta avere in cassa 140,4 milioni perché ha ricevuto dei fondi dallo Stato per attuare il Piano di rientro, ma non è stata in grado di utilizzarli (qui pag. 79). Il controsenso? Sempre in Calabria, l’Azienda ospedaliero-universitaria Renato Dulbecco di Catanzaro paga i fornitori con un ritardo di 336 giorni (II trimestre 2024). In Molise, la Gestione sanitaria aziendale (GSA), che gestisce i servizi sanitari regionali, paga i fornitori con un ritardo di 439 giorni (I trimestre 2024). Questi ritardi non sono solo un indicatore di inefficienza, ma anche una voce di costo. Superati i 60 giorni, scattano gli interessi di mora: al tasso di riferimento stabilito dalla Banca Centrale Europea si sommano 8 punti percentuali (Legge n. 231/2002). Per esempio, se il tasso Bce è al 2%, gli interessi moratori ammontano al 10% annuo.
La speranza di vita
Dopo quasi vent’anni di Piani di rientro, la situazione dei servizi sanitari nelle Regioni interessate resta critica.
In tutte – ad eccezione del Lazio, dove però la sanità privata ha un peso determinante – la capacità di garantire ricoveri adeguati ai bisogni dei residenti continua ad essere insufficiente (qui pag. 13). L’indice di fuga, che misura la percentuale di residenti che vanno a curarsi fuori Regione è del 41,63% in Molise, del 24,78% in Calabria, del 21,6% in Abruzzo e del 15,27% in Puglia, (qui pag. 7). I cittadini del Sud continuano quindi a spostarsi verso il Nord per ricevere cure, ma non sono gli unici a migrare: anche medici e infermieri se ne vanno. Dal 2019, nonostante la fine del blocco del turnover, i concorsi pubblici per nuove assunzioni spesso vanno deserti. La speranza di vita alla nascita, tra Nord e Sud, presenta una differenza che supera l’anno e mezzo Il lettore si chiederà: di chi è la responsabilità di un risultato che alla fine fa acqua da tutte le parti? Sta nella scelta della classe dirigente, ovvero in prima battuta da chi deve amministrare, poi da chi fa le regole per supplire a una cattiva gestione, infine da chi queste regole deve poi applicarle. Ricordiamo che il ministro della Salute è scelto dal Presidente del Consiglio; l’assessore alla Sanità regionale dal governatore; i direttori generali delle singole Asl dall’assessore. Tutte figure strategiche troppo spesso reclutate in base a criteri di fedeltà politica e non di competenza.
Milena Gabanelli e Simona Ravizza
(da corriere.it)

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