Aprile 23rd, 2025 Riccardo Fucile
IL PNRR ARRANCA E ARRIVA LO STRATAGEMMA PER NON PERDERE GLI 830 MILIONI EUROPEI: FAR PASSARE UN PORTO MERCANTILE COME “MILITARE”…. I LAVORI SONO IN RITARDO
Non solo mercantili e navi da crociera, ma fregate e portaerei: come il ponte sullo
Stretto, anche la nuova diga del porto di Genova non servirà solo al traffico civile del primo scalo commerciale del Paese, ma anche alla difesa italiana ed europea.
È di questo che, secondo quanto appreso dal Fatto, l’Autorità portuale di Genova e Marco Bucci, governatore ligure e commissario alla maxiopera da 1,3 miliardi – coperti da 830 milioni di fondo complementare al Pnrr e 270 milioni di prestito della Banca europea degli investimenti – stanno cercando di convincere i ministeri di Infrastrutture e Difesa.
La valenza militare di un’opera finora presentata unicamente come strumento di potenziamento mercantile è spiegata da un passaggio dell’allegato infrastrutture al Documento di finanza pubblica, che per la prima volta contiene un paragrafo sulla “mobilità militare”: “Con l’obiettivo di prioritizzare, stante le esigue risorse finanziarie, gli investimenti sulla rete duale (…), in vista del negoziato sul nuovo Bilancio dell’Unione europea 2028-2034, gli sforzi sono oggi indirizzati nel definire un elenco di rilevanti progetti infrastrutturali nazionali” a doppio uso. Se per il ponte, cioè, il paravento mimetico serve a bypassare i limiti ambientali, per l’infrastruttura genovese il problema da aggirare è di soldi (e tempi). La diga doveva essere realizzata in due fasi, la prima, entro il 2026, da 950 milioni, coperta da 500 milioni del fondo complementare; la seconda da 350 nel 2030. Aggiudicata a un consorzio guidato da Webuild la prima tranche, Bucci ha ottenuto dal governo altri 330 milioni del fondo per la seconda, promettendo di accorpare i lavori e terminare tutto alla scadenza della fase A.
Mentre sulla prima parte emergevano problematiche tecniche, incidenti, ritardi e richieste dall’appaltatore di riserve per 300 milioni, Bucci un mese fa confermava, presente il concittadino, e vice di Matteo Salvini, Edoardo Rixi, che al massimo si sarebbe arrivati a metà 2027. Pochi giorni prima, però, commissario e Autorità portuale approvavano il progetto esecutivo della seconda tranche di lavori: secondo i documenti Webuild ora visionati dal Fatto occorreranno 39 mesi dall’aggiudicazione di una gara nemmeno bandita. Considerato che una simile procedura richiede almeno sei mesi, significa 2029 inoltrato. Il quadro economico per questa seconda parte è poi già lievitato a 470 milioni. E la Bei non ha confermato il prestito, perché sta “esaminando le procedure di appalto relative al contratto di costruzione” di fase A. Oggetto di un’inchiesta della Procura europea che vede indagati l’ex presidente del porto Paolo Signorini per turbativa d’asta e due rappresentanti dell’appaltatore per indebita percezione di erogazioni pubbliche e malversazione. Insomma, mentre a Roma va in scena il confronto-scontro fra Economia e Difesa sui piani di riarmo Ue, a Genova si sono portati avanti e hanno scoperto la vocazione militare della diga che potrebbe togliere le castagne dal fuoco a Bucci e Rixi
(da Il Fatto Quotidiano)
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Aprile 23rd, 2025 Riccardo Fucile
“QUESTA INCOERENZA SI SMASCHERA FACILMENTE SE PENSIAMO ALLE MIGRAZIONI. ‘DEPORTARE LE PERSONE LEDE LA DIGNITÀ UMANA’, AVEVA SCRITTO POCHI GIORNI PRIMA DI ESSERE RICOVERATO, COME REAZIONE AI MIGRANTI IN CATENE NEGLI STATI UNITI, MA ANCHE A QUELLI SBALLOTTATI DA UNA COSTA ALL’ALTRA DEL MEDITERRANEO”
Papa Francesco ha spalancato le porte della Chiesa, l’ha voluta aperta come il sepolcro di Cristo nel giorno della Resurrezione. Non credo sia un caso se il Padre l’ha chiamato a sé proprio in questo giorno così carico di significato.
«Non cercate tra i morti colui che è vivo», dice l’Angelo alle donne venute a onorare il corpo di Gesù. E Francesco ci ha sempre spronato a costruire una Chiesa più viva, più consapevole, più in relazione col mondo. «Una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade».
È proprio in questa dimensione della strada che ci siamo incontrati. Spesso il Papa ha dimostrato che la vita degli esseri umani, con le loro fragilità e contraddizioni, gli stava a cuore più di certe rigidità dottrinali. Ha amato i poveri, gli ultimi, i diseredati, i maltrattati del pianeta, e ha messo in guardia questo nostro mondo sempre più diseguale sui rischi che tutti corriamo se abbandoniamo una parte dell’umanità all’ingiustizia.
Ricordo con emozione la prima volta che ci siamo incontrati, in occasione della Giornata della memoria e dell’impegno del 2014. Lui aveva accettato di incontrare un migliaio di famigliari delle vittime innocenti delle mafie nella Chiesa di San Gregorio VII a Roma, regalando loro un incoraggiamento fraterno e sincero: «Preghiamo insieme, tutti quanti, per chiedere la forza di andare avanti, di continuare a lottare contro la corruzione». Aveva però anche chiamato in causa «i grandi assenti», «gli uomini e le donne mafiosi». «Per favore, cambiate vita, convertitevi, fermatevi, smettete di fare il male! – aveva implorato -. Convertitevi, lo chiedo in ginocchio; è per il vostro bene. Ancora c’è tempo, per non finire all’inferno».
Parole altrettanto forti hanno segnato, più di recente, l’incontro con un gruppo di donne che stanno faticosamente rompendo il legame con le famiglie mafiose di origine. «Siete nate e cresciute in contesti inquinati dalla criminalità mafiosa, e avete deciso di uscirne. Benedico questa vostra scelta, e vi incoraggio ad andare avanti. Immagino che ci siano momenti di paura, di smarrimento… è normale. In questi momenti pensate al Signore Gesù che cammina al vostro fianco. Non siete sole, continuate a lottare».
Il suo messaggio si è sempre espresso in queste due forme: vicinanza a chi soffre e denuncia di ciò che causa la sofferenza. E una grande spinta a tutti gli uomini e le donne di buona volontà per cambiare le cose. L’abbiamo sentita, questa spinta, anche quando ci ha accolti in Vaticano per il convegno sull’uso sociale dei beni confiscati alle mafie: un tema che non si pensava potesse rientrare fra gli interessi della Chiesa, e che lui ha invece sentito importante nella sua concretezza e capacità di incidere nel contrasto al male e nella ricostruzione del bene comune.
Suscita invece dolore constatare che alcuni di coloro che lo celebrano in morte, non hanno mai raccolto le sue raccomandazioni da vivo! Anzi hanno fatto scelte del tutto opposte, non solo alle parole del Papa, ma anche alla Parola evangelica di cui Francesco è stato puntualissimo interprete.
Questa incoerenza si smaschera facilmente se pensiamo ad alcuni temi in particolare, primo fra tutti quello delle migrazioni. «Deportare le persone lede la dignità umana», aveva scritto pochi giorni prima di essere ricoverato, come reazione ai migranti in catene negli Stati Uniti, ma anche a quelli sballottati da una costa all’altra del Mediterraneo, nel tragico tentativo di “spostare altrove” problemi che sono in realtà volti, nomi, corpi e speranze umane.
Pensiamo a un altro argomento scomodo, quello delle carceri. Papa Francesco ha voluto aprire una Porta Santa del Giubileo nella Chiesa del carcere di Rebibbia, mentre la vigilia di Pasqua si è recato nel carcere di Regina Coeli. «La reclusione – ha detto – non è lo stesso di un’esclusione, dev’essere parte di un cammino di reinserimento nella società». Nessun appello per l’indulto o l’amnistia ha però mai trovato ascolto.
E che dire dell’ambiente o delle ingiustizie sociali? Il monito a una
“conversione ecologica” è stato costantemente ignorato
I poveri, che Papa Francesco aveva più di tutti nel cuore, sono ancora tanti, e immensamente poveri. Le guerre, contro le quali ha tuonato – è davvero il caso di dirlo – fino all’ultimo respiro, non concedono respiro ai popoli martoriati.
Privati della sua guida, dobbiamo cedere alla disperazione? No, perché il lutto che viviamo porta in sé il segno della speranza e della Resurrezione. «La speranza non delude» è l’esortazione scelta per l’anno giubilare, e oggi più che mai Papa Francesco ci chiede di non deludere chi ancora ripone speranza nel nostro impegno. Glielo dobbiamo, e lo dobbiamo a noi stessi, di tenere il suo passo, e la sua strada.
Don Luigi Ciotti
per “La Stampa”
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Aprile 23rd, 2025 Riccardo Fucile
IL MEF AVEVA APPLICATO LE VECCHIE REGOLE, CHE PREVEDONO ALIQUOTE PIÙ ALTE E DETRAZIONI PIÙ BASSE. IN QUESTO MODO QUASI TUTTI I CONTRIBUENTI RISCHIAVANO DI PAGARE TASSE NON DOVUTE… L’INTERVENTO DEL GOVERNO È ARRIVATO SOLO DOPO LA DENUNCIA DELLA CGIL
Un decreto legge da 245,5 milioni per sanare il pasticcio dell’acconto Irpef creato dal
governo Meloni. Senza questo decreto, approvato oggi dal Consiglio dei ministri e operativo dalla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, i contribuenti italiani avrebbe pagato un’Irpef più alta perché calcolata sulle quattro vecchie aliquote, anziché le tre più basse già in vigore da oltre un anno.
Si chiude così una vicenda partita dalla denuncia dei Caf Cgil che un mese fa si accorgono di una disposizione inserita dall’Agenzia delle entrate nelle istruzioni per il nuovo 730, quello che arriverà tra fine aprile e inizio maggio nel cassetto fiscale di tutti gli italiani.
In quelle istruzioni si fa riferimento al primo decreto attuativo della riforma fiscale voluta dal governo Meloni e guidata dal viceministro all’Economia Maurizio Leo.
Il decreto 216 del 30 dicembre 2023 che riduce l’Irpef da quattro a tre aliquote: 23% fino a 28 mila euro, 35% tra 28 mila e 35 mila euro, 43% sopra 35 mila euro. E alza la detrazione da lavoro dipendente da 1.880 a 1.995 euro. Parametri in vigore dal primo gennaio 2024.
Eppure in quello stesso decreto, all’articolo 1 comma 4, si dice che “per i periodi di imposta 2024 e 2025” si applicano le vecchie regole: quindi quattro aliquote e detrazioni più basse. Un vero e proprio «prestito forzoso dai contribuenti allo Stato», denuncia la Cgil.
Il governo da subito riconosce l’errore. Cerca di giustificarlo con la provvisorietà, all’epoca del decreto 216, del taglio dell’Irpef reso strutturale solo successivamente nell’ultima manovra di bilancio. Ma la Cgil ipotizzava una copertura ben più ampia dell’ammanco: 4,3 miliardi. Alla fine il governo mette “solo” 245,5 milioni. Ma evita agli italiani di pagare, senza motivo, più tasse tra qualche settimana.
Il viceministro Maurizio Leo spiega: «La nuova disposizione conferma che i lavoratori dipendenti e i pensionati senza redditi aggiuntivi non dovranno versare alcun acconto Irpef per il 2025, evitando così qualsiasi aumento del carico fiscale».
(da agenzie)
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Aprile 23rd, 2025 Riccardo Fucile
MILIONI DI RICAVI, IMPOSTE QUASI NULLE… E ORA SPUNTA ANCHE LA SOCIETA’ IN UN CANTONE SVIZZERO
Martedì prossimo Tesla svelerà i conti del primo trimestre dell’anno, segnato dal crollo del titolo in Borsa e da un calo delle immatricolazioni legato a doppio filo al pesante declino dell’immagine dell’azienda. Conseguenza del ruolo di Elon Musk nell’amministrazione Trump e delle sue prese di posizione a favore delle destre estreme in Europa, a partire dall’Afd in Germania. Per il produttore di auto elettriche che l’uomo più ricco del mondo ha rilevato nel 2004 sono tempi duri, ma se non altro gli azionisti possono rallegrarsi del fatto che l’azienda risparmia su una voce importante: le tasse. Con una sola eccezione nel 2023, la casa automobilistica non ha infatti mai pagato imposte federali. E, stando a una nuova analisi della piattaforma di giornalismo investigativo Follow the money, non versa quasi nulla nemmeno in Olanda, dove controlla sette società tra cui Tesla Motors Netherlands, e in Germania, dove una delle entità olandesi ha un accordo di produzione con la gigafactory da 11mila dipendenti inaugurata nel 2022 in Brandeburgo alla presenza del cancelliere Olaf Scholz.
Le strategie della creatura di Musk per eludere il fisco in patria – tra ammortamenti accelerati per ridurre l’imponibile, agevolazioni fiscali sulle stock option e crediti di imposta – non sono una novità e secondo l’Institute on Taxation and Economic Policy le hanno consentito nell’ultimo triennio di girare al fisco Usa solo 48 milioni di dollari (tutti nel 2023) a fronte di un imponibile di 10,8 miliardi. Godendo quindi di un’aliquota dello 0,4% contro il 21% ufficiale. Follow the money aggiunge un altro tassello esaminando le attività europee di Tesla, che ha stabilito ad Amsterdam la propria sede nel Vecchio Continente. È un tassello cruciale perché Tesla Motors Netherlands (Tmn), nata nel 2011, ha sempre registrato profitti, a differenza della statunitense Tesla Inc.
che fino al 2020 è stata in perdita. A quei profitti avrebbe dovuto corrispondere un corposo gettito fiscale. Non è andata così.
La spiegazione va cercata in un’articolata strategia di profit shifting mirato a ridurre il carico fiscale. Il punto di partenza è che la Tmn è formalmente titolare di un impianto produttivo in Olanda, ma in realtà le Tesla Model Y vengono realizzate nel sito di Grünheide, in Germania, attraverso la Tesla Manufacturing Brandenburg, che per ogni auto riceve solo un piccolo margine oltre ai costi di produzione sostenuti. Un meccanismo grazie al quale quello stabilimento, pur avendo fatturato nel 2023 quasi 8 miliardi, ha contabilizzato 7,5 miliardi di spese che hanno ridotto all’osso i profitti e di conseguenza i proventi per l’erario di Berlino. Che fine hanno fatto quindi gli effettivi utili realizzati da Tesla nel suo complesso? Jan van de Streek, professore di diritto tributario all’Università di Leida, ipotizza che vengano “spostati in un altro Paese, dove Tesla probabilmente gode di aliquote fiscali più basse”. Ma analizzando i bilanci non trova alcuna indicazione sulla loro destinazione finale nella complessa architettura del gruppo.
Quel che è certo è che non sono arrivati nemmeno nei Paesi Bassi, dove Tmn nel 2023 ha pagato un centinaio di milioni di tasse e registrato un profitto di soli 300 milioni a fonte di 26 miliardi di fatturato, quasi un terzo di quello globale di Tesla. Come nel caso tedesco, a pesare sui conti sono state voci di spesa: stavolta per “materie prime e materiali di consumo“, non ulteriormente dettagliate nel bilancio. Bisogna risalire fino al 2014, primo anno in cui PwC ha verificato i bilanci di Tesla, per trovare una traccia da seguire: in quell’anno la società di revisione ha indicato che il 60% delle spese era legato a trasferimenti interaziendali, cioè pagamenti (deducibili) ad altre società del gruppo. Si tratta probabilmente, secondo un esperto sentito da Follow the money, di una pratica consentita da un accordo sul transfer pricing sottoscritto con le autorità olandesi, note per le scappatoie spesso concesse alle multinazionali in fuga dal fisco.
Continuando a seguire le frequenti modifiche della struttura del gruppo, l’inchiesta arriva alla conclusione che in futuro il principale indiziato come punto di arrivo dei guadagni di Tesla sarà il cantone di Zugo, in Svizzera. È lì infatti – complice un’aliquota fiscale sulle società dell’11,8% – che all’inizio del 2025 è stata creata la Vespb Global, ombrello sotto cui sono state trasferite
tutte le società olandesi del gruppo. Peccato che sarà impossibile saperne di più, visto che la Svizzera applica un rigido segreto societario e i bilanci annuali non vengono pubblicati.
(da ilfattoquotidiano.it)
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