Aprile 28th, 2025 Riccardo Fucile
A PROMUOVERE LE AZIONI SONO STATI 13 STATI, ASSOCIAZIONI CIVILI, SINGOLI CITTADINI E PERSINO L’UNIVERSITÀ DI HARVARD… I TEMI PIÙ CALDI SONO L’IMMIGRAZIONE, I DIRITTI LGBTQ+, L’ISTRUZIONE E DAZI: IN MOLTI CASI I MAGISTRATI HANNO BLOCCATO GLI ORDINI
Litigation , che in inglese significa procedimento legale, sembra la nuova parola d’ordine del secondo mandato Trump. Tutto finisce in tribunale. Dal suo insediamento, il 20 gennaio, al 25 aprile, sono state avviate 211 cause legali contro gli oltre 130 ordini esecutivi del presidente e le sue politiche federali, secondo il tracker di Just Security.
A promuovere le azioni sono stati 13 Stati associazioni civili e singoli cittadini, l’università di Harvard. I ricorsi spaziano dall’immigrazione al commercio, dai diritti Lgbtq+ all’uso dei fondi federali, dalla politica ambientale ai licenziamenti arbitrari, con procedimenti attivi nei tribunali distrettuali, nelle corti d’appello e perfino alla Corte Suprema.
Tra i casi più emblematici figura lo ius soli . L’ordine esecutivo 14160, firmato nel giorno dell’inaugurazione, ha revocato la cittadinanza automatica per i figli di immigrati irregolari. Contro questa azione hanno fatto causa anche diversi Stati, tra cui Washington, Arizona, New Jersey e Oregon. Diversi tribunali hanno bloccato l’ordine, ritenendolo incostituzionale. Il caso è ora all’esame della Corte Suprema, che ha fissato la prima udienza il 15 maggio 2025.
I sindacati degli insegnanti e altre organizzazioni educative (tra cui American Federation of Teachers e American Sociological Association) hanno citato in giudizio l’amministrazione contro gli ordini esecutivi diretti a eliminare i programmi di diversità e inclusione. Finora due tribunali federali, in New Hampshire e in Maryland, hanno bloccato l’attuazione delle misure anti Dei, ora sono sospese. Ma il contenzioso continua.
In aprile, l’amministrazione ha integrato le informazioni sui permessi di soggiorno degli studenti a un database dell’Fbi, portando alla revoca dei visti F
1 per migliaia di studenti. Oltre 100 cause legali e più di 50 ordini restrittivi sono stati emessi da giudici in tutto il Paese. Ieri, dopo settimane di battaglie legali, l’improvviso cambio di rotta del dipartimento di Giustizia, che (per ora) ha ripristinato la registrazione dei visti studenteschi.
Anche altre politiche migratorie di Trump sono finite in tribunale. I proclami e gli ordini volti a limitare le richieste di asilo e ad agevolare espulsioni rapide di alcune categorie di migranti hanno portato organizzazioni come il Refugee and Immigrant Center for Education and Legal Services e altre ong ad avviare cause federali sostenendo che i provvedimenti violano le leggi sull’immigrazione e i diritti dei migranti. Esemplare il caso «J.G.G. v. Trump», che ha visto l’amministrazione procedere con deportazioni di cittadini venezuelani nonostante il divieto di un tribunale.
Un’altra causa simbolica riguarda il congelamento di 1,5 miliardi di dollari di aiuti all’estero (UsAid). Dopo una sentenza di un tribunale che ordinava il rilascio dei fondi, la Corte Suprema ha concesso una sospensione temporanea, segnando una delle prime vittorie legali per Trump.
Anche le politiche commerciali di Trump sono state oggetto di contenzioso. Contro i dazi si sono mossi la California e, separatamente, altri 12 Stati che hanno avviato una causa congiunta presso la Corte del commercio internazionale degli Stati Uniti, contestandone la legalità.
(da agenzie)
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Aprile 28th, 2025 Riccardo Fucile
DOCUMENTI, VIDEO, TESTIMONIANZE RACCOLTE DA 43 TESTATE GIORNALISTICHE
Tra bandiere cinesi e francesi svolazzanti sotto un cielo piovoso, il presidente cinese
Xi Jinping e sua moglie Peng Liyuan atterrano con un aereo di Stato allo scalo di Orly. È il 5 maggio 2024. Parigi è la prima tappa di un tour europeo di cinque giorni. Chiaro lo scopo: rafforzare i legami con la Francia e l’Europa. La capitale francese accoglie gli illustri ospiti con una folla festante di cittadini cinesi, c’è anche chi si esibisce nelle danze tradizionali del drago e del leone al suono di tamburi e gong. Nella zona centrale della città, in place de la Republique, l’artista cinese Jiang Shengda sente un segnale di chiamata emesso dal suo cellulare. È il leader del “Front de la Liberté en Chine“, un piccolo gruppo di attivisti e intellettuali cinesi per la democrazia. Si sta preparando a parlare davanti a centinaia di manifestanti in quella piazza simbolo della libertà di espressione, protesta e dissenso. È nato a Pechino, ha solo 31 anni, ma è abituato ai comizi. Spesso raggiunge altri rappresentanti di minoranze perseguitate dal governo cinese, come gli uiguri, una minoranza etnica prevalentemente musulmana originaria del nord-ovest della Cina, i tibetani e i cittadini di Hong Kong, e si unisce a loro per contestare chi guida le politiche di violazione dei diritti umani e delle libertà civili: il presidente Xi Jingping. Ma quel giorno Jiang deve affrontare un atroce dilemma. Sa che quella telefonata arriva da sua madre, è lei che lo sta chiamando da Pechino, da 8200 chilometri di distanza. L’attivista sospetta che, dietro quella telefonata, ci siano poliziotti cinesi che usano gli affetti familiari per convincerlo a non disturbare il presidente nella visita in Francia. Per questo decide di non rispondere. Jiang Shengda è uno dei tanti cittadini cinesi che vivono all’estero, ma vengono presi di mira e tenuti sotto controllo dalle autorità di Pechino. Gli apparati di sicurezza agiscono direttamente, tramite operazioni di spionaggio, hackeraggio e sorveglianza delle vittime, ma anche indirettamente, attraverso pressioni su parenti, amici, colleghi e perfino ex insegnanti.
Sono metodi che fanno parte di una sofisticata campagna orchestrata dal governo cinese per intimidire e zittire qualsiasi voce critica anche fuori dai confini, come quella di Jiang. Gli esperti la definiscono «repressione transnazionale».
“China targets” è un’inchiesta giornalistica, coordinata dall’International consortium of investigative journalists (Icij), che analizza e documenta come le autorità cinesi sorvegliano e tengono sotto controllo dissidenti che vivono all’estero. L’indagine ha unito più di cento giornalisti di 43 testate internazionali, tra cui Le Monde, Paper Trail Media, Guardian, Washington Post, El Pais e, per l’Italia, L’Espresso, Domani e Irpi Media. I reporter di trenta Paesi diversi hanno contattato e intervistato un campione di 105 vittime della repressione di Pechino: attivisti cinesi per la democrazia, cittadini di Hong Kong e Taiwan, esponenti di minoranze come gli uiguri e i tibetani, seguaci del
movimento spirituale Falun Gong. I giornalisti hanno analizzato documenti riservati delle autorità di Pechino, in particolare un manuale di polizia del 2004 e le direttive impartite nel 2013 agli agenti addetti alla sicurezza nazionale, e hanno confrontato le azioni descritte in quelle carte con le esperienze vissute dalle 105 vittime. I cronisti hanno potuto esaminare anche interrogatori di polizia, registrati di nascosto, nonché telefonate e numerosi Sms tra 11 funzionari della sicurezza cinese e 9 delle loro vittime residenti all’estero.
In più di metà dei casi, gli intervistati hanno dichiarato che i loro parenti rimasti in Cina sono stati interrogati e intimiditi da ufficiali della sicurezza, una o più volte, e in diversi casi questo è successo dopo che loro avevano partecipato e manifestazioni o eventi pubblici all’estero. Sessanta hanno affermato di essere stati seguiti o spiati; 27 hanno segnalato di essere stati bersagliati con campagne diffamatorie su Internet; 19 hanno riferito di aver ricevuto messaggi sospetti o chiari tentativi di hackeraggio. Alcuni hanno aggiunto che i loro conti bancari in Cina e a Hong Kong sono stati congelati e bloccati.
Secondo le testimonianze raccolte, le intimidazioni a danno dei famigliari vengono gestite da funzionari e dirigenti del ministero della Pubblica sicurezza e di quello per la Sicurezza dello Stato: due delle agenzie cinesi che svolgono anche funzioni di intelligence. Ventidue persone hanno confidato di essere state aggredite da militanti del Partito comunista cinese o di aver subito minacce fisiche. La maggior parte degli intervistati non ha denunciato questi fatti alle autorità degli Stati esteri dove vivono: alcuni per mancanza di fiducia in un loro intervento, altri per paura di ritorsioni cinesi. Tra le persone che hanno presentato esposti, molti lamentano che la polizia non ha dato alcun seguito alle loro denunce, sostenendo che non ci sarebbero prove di reati perseguibili.
Nel manuale della polizia pubblicato nel 2004 dall’ufficio della Sicurezza pubblica della provincia di Guangdong, un capitolo è dedicato alla «ricerca all’estero», descritta come un’azione diversa dal «lavoro di intelligence all’estero»: è un’attività «a lungo termine», «mirata», che va «attentamente pianificata» e fa parte di «lotta segreta». L’obiettivo indicato in quel volume è chiaro: identificare persone e organizzazioni al di fuori della Cina, che «tramano, dirigono o finanziano attività che mettono in pericolo la stabilità socio-politica e la sicurezza nazionale del Paese», e ovviamente segnalarle ai
vertici del Partito comunista cinese.
È in questo contesto che Jiang Shengda entra in scena a Parigi, dove è un artista conosciuto con il nome d’arte di Chiang Seeta. Nelle sue performance, costruisce un muro simbolico davanti alla sede dell’ambasciata cinese. O fa sfilare un attore che indossa abiti imperiali cinesi con la maschera di Xi per irridere alla sua incoronazione al XX° Congresso del Partito comunista cinese nel 2022. Questo spiega perché, nel maggio dell’anno scorso, quando il presidente arriva in Francia, lui sa di essere sotto controllo. I suoi genitori lo hanno tenuto informato: funzionari della polizia segreta, in borghese, si presentavano nella casa di famiglia a tutte le ore, costringendoli a incontri in luoghi non ufficiali, come sale da tè o sale private di ristoranti.
Quella telefonata da Pechino è la conferma: l’artista capisce che, quel pomeriggio, rischia di mettere in pericolo l’incolumità della madre e del padre. Eppure, prende il microfono, e si rivolge così, nella piazza di Parigi, ai manifestanti del Tibet e di Hong Kong: «Loro [la polizia cinese] ci hanno chiesto di tacere durante la visita di Xi Jinping… Queste minacce rientrano nella repressione transnazionale… che è solo un’estensione della tirannia in patria. Ecco perché la comunicazione tra le diverse comunità è così preziosa, davanti alla politica di divisione che la Cina porta avanti da tempo». A discorso ultimato, Jiang chiama i genitori. Apprende così che, poco prima che lui salisse sul palco a Parigi, gli agenti della sicurezza cinese avevano chiesto di vedere suo padre, nel cuore della notte, per lanciargli questo ammonimento: «Suo figlio all’estero sta facendo cose sono contro le leggi cinesi. Noi potremmo anche chiudere un occhio. Ma questa volta il “grande leader” viene lì in Francia. Se suo figlio fa qualcosa di imbarazzante, per noi diventa difficile gestire la situazione».
La vita di Jiang non è stata sempre così rischiosa. Anzi. È figlio di un ufficiale della sicurezza cinese e nipote di un alto funzionario governativo inviato nella Mongolia interna. La sua è stata una giovinezza dorata. Studia in scuole d’élite di Pechino, i suoi compagni sono, come lui, figli di personaggi ricchi e potenti. Lui ricorda, sorridendo, che molte persone sollecitavano favori dal padre influente, mandandogli a casa dolci prelibati e pesce costoso. A 18 anni, la prima svolta. Per breve tempo si iscrive al Partito democratico cinese, un
gruppo politico con base negli Stati Uniti che chiede riforme in Cina. Arrestato, viene accusato di incitamento alla sovversione del potere statale. Quindi scopre che la polizia ha compilato un voluminoso dossier spionistico su di lui, che comprende e-mail private e addirittura commenti di un vecchio insegnante della scuola elementare. Jiang resta in carcere per tre giorni, il passaporto gli viene revocato per un anno. Non è tutto. Il padre perde il posto nei servizi segreti e deve andare a lavorare per un’azienda statale.
Nel 2018 Jiang lascia la Cina per la Francia. L’ammira per le tradizioni democratiche, il rispetto del dissenso e la cultura della protesta sociale che risalgono alla Rivoluzione francese. A Parigi frequenta gli esponenti della comunità di Hong Kong che protestano contro le nuove leggi repressive imposte dal regime cinese. Poco per volta, Jiang diventa il leader del Front de la Liberté. Il suo comizio a Place de la Republique durante la visita di Xi segna il culmine della sua esposizione politica. Ma le minacce contro la sua famiglia cessano di colpo. La sua esistenza rientra nella normalità, per quasi un anno. Lo scorso marzo, Jiang controlla uno dei quattro telefoni che usa per comunicare in modo sicuro con la Cina. Subito si accorge di un messaggio di suo padre. Che gli chiede di richiamarlo. In una telefonata successiva gli rivela che alcuni agenti di sicurezza, tra cui uno che era già stato a casa sua, lo hanno voluto rincontrare. Questa volta gli hanno offerto da bere in un ristorante e, con tono cortese, gli hanno fatto capire che suo figlio Jiang deve smetterla di collaborare con un noto attivista che vive in Italia ed è conosciuto con il nome d’arte di Teacher Li. Anche lui è una vittima della repressione transazionale.
Nato 33 anni fa nel sud della Cina, dove suo padre fu perseguitato all’epoca di Mao Tse Tung, il professor Li si è trasferito in Italia nel 2015 e ha vissuto a lungo, con quattro gatti, a Milano, dove ha lavorato come professore, dopo essersi laureato all’Accademia di belle arti di Carrara. La sua battaglia comincia nel 2022, quando ha l’idea di rilanciare su Twitter (l’attuale X) i video, da lui ricevuti a migliaia, delle proteste in Cina contro le misure anti-covid, dove i manifestanti contestano anche il presidente Xi. Sui social, l’attivista che vive in Italia ha 1,9 milioni di follower, che gli spediscono quelle riprese, oltre a moltissime fotografie, prima che tutto venga cancellato dai censori di Pechino. Sono immagini rare e spietate sulla realtà cinese.
Da allora Teacher Li assurge a punto di riferimento per chi dalla Cina vuole diffondere notizie scomode, documentare scandali nelle scuole, incendi nelle fabbriche, proteste di lavoratori migranti che rivendicano salari da fame non pagati. In breve si ritrova schedato segretamente come «individuo chiave», da tenere sotto stretta sorveglianza. Un uomo da zittire. In Cina gli agenti della sicurezza fanno visita alla sua famiglia almeno una volta alla settimana, interrogano i suoi amici ed ex compagni di classe, pretendono di sapere quali sono i suoi contatti sui social media. Intanto le autorità gli congelano conti bancari e pagamenti online.
«Dopo la morte di mio padre, si sono presentati per porgere le condoglianze. Da allora in Cina non sono più tornati», confida Li ai giornalisti dell’inchiesta China Targets. Ma la persecuzione è continuata qui in Italia. «Negli ultimi due anni, per prudenza, sono uscito raramente. L’ambasciata cinese a Roma si è data da fare per scovarmi. Ha anche scritto alla scuola dove lavoravo, chiedendo di interrompere ogni rapporto con me. Ora sono costretto a guadagnarmi da vivere con YouTube».
Nel luglio 2023, Teacher Li ha chiesto asilo politico in Italia: lo ha fatto, come ha spiegato nell’intervista, perché «uomini del Partito comunista cinese avevano pubblicato su Twitter il mio indirizzo e i dati del mio passaporto, invitando i cinesi presenti in Italia a rintracciarmi. Mi hanno infatti trovato a Torino, dove nel frattempo mi ero trasferito e dove sono stato minacciato da sconosciuti».
Nel novembre 2024 gli è stato finalmente concesso l’asilo politico. Ma l’accanimento continua tuttora, come lamenta Li: «Nel marzo scorso, ho saputo che l’ambasciata si è nuovamente attivata per sapere dove fossi. Per questo, in aprile, ho chiesto aiuto alle autorità italiane, che mi hanno consigliato di lasciare la città dove abitavo». Da allora Teacher Li si è rifugiato in un luogo da lui ritenuto sicuro: «Almeno finora non mi hanno scoperto». Ma continua a restare in allarme: «So che ci sono diversi poliziotti cinesi, provenienti da varie zone, che mi stanno inseguendo qui in Italia, contemporaneamente».
Le operazioni di caccia all’uomo, insomma, vengono orchestrate dal regime cinese anche nel nostro Paese. Già due anni fa, nel dicembre 2022, in base a un rapporto pubblicato dalla Ong spagnola Safeguard Defenders, L’Espresso aveva
rivelato i dettagli di un programma di Pechino per spiare i dissidenti all’estero e rimpatriarli a forza in Cina. L’inchiesta del nostro settimanale aveva documentato l’esistenza di una rete di almeno 11 “stazioni non ufficiali della polizia cinese”, attivate segretamente sul territorio italiano, da Prato a Firenze, Milano, Roma. L’articolo ha aperto una discussione in Parlamento. Un deputato di +Europa, Riccardo Magi, ha domandato formalmente «se il ministero dell’Interno abbia mai autorizzato l’apertura di queste strutture, quali attività svolgono davvero e se sia stata aperta un’inchiesta». Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha risposto che «non c’è alcuna autorizzazione all’attività dei centri in questione» e ha confermato che c’era un’indagine in corso, affermando: «Non escludo sanzioni in caso di illegalità».
Di quell’indagine italiana non si è più saputo niente. Ora l’inchiesta China Targets conferma e documenta una situazione ancora peggiore: il regime di Pechino ha un programma segreto di spionaggio, controllo e sorveglianza sistematica dei cittadini cinesi anche all’estero, un’attività praticata da anni, con direttive e metodi operativi descritti nei manuali di polizia e dei servizi.
Nel febbraio 2025 Teacher Li è stato candidato al Nobel per la pace da una Commissione speciale del Congresso americano come «riconoscimento del suo impegno per la giustizia, i diritti umani e la protezione del popolo uiguro». Con quale effetto? «Sono aumentate le calunnie contro di me su Internet», rivela l’interessato. «Sono stati creati numerosi account che hanno cominciato a scavare nel torbido e a spargere voci false su di me. Però ho avuto anche qualche sostegno, sempre su Internet».
Teacher Li ha uno sponsor di rilievo anche in Italia. Giulio Terzi di Sant’Agata, una lunga carriera di ambasciatore conclusa negli Stati Uniti, già ministro degli Esteri nel governo Monti e ora senatore di Fratelli d’Italia, per lui si è speso molto. In un messaggio su Twitter del 2024, ha indicato Li come una delle vittime della «inarrestabile campagna di censura, da parte di Pechino, nel tentativo di bloccare qualsiasi voce di dissenso, in Cina come in ogni parte del mondo».
I giornalisti di Icij hanno inviato numerose domande alle principali ambasciate cinesi all’estero, nove delle quali hanno risposto. In particolare Liu Pengyu, portavoce della sede diplomatica di Pechino a Washington, ha dichiarato che
accuse di repressione transnazionale sono «infondate» e «inventate da pochi Paesi e organizzazioni per diffamare la Cina»: «Non esiste nulla di simile all’andare oltre i confini per prendere di mira i cosiddetti dissidenti e residenti cinesi all’estero». Le altre ambasciate cinesi in paesi europei come Finlandia, Svezia, Francia, Belgio e Croazia, hanno fornito risposte analoghe, definendo «pure invenzioni» le accuse di spionaggio all’estero. In qualche caso, i rappresentanti di Pechino specificano che le questioni di Hong Kong, Taiwan e Xinjiang sono «affari interni della Cina».
Anche L’Espresso ha mandato una serie di domande, riferite anche ai casi italiani, all’ambasciata cinese a Roma, da cui non è arrivata alcuna risposta.
(da lespresso.it)
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Aprile 28th, 2025 Riccardo Fucile
IL CAVALLO DI TROIA CHE DEPOTENZIA IL RUOLO DELLE SOPRINTENDENZE E I CONTROLLI
Ci risiamo: è lo stesso, eterno copione. Da Berlusconi, a Renzi e oggi a Salvini: abbattere le odiate soprintendenze, sciogliere ogni vincolo che possa frenare l’arbitrio privato. E nel frattempo sterilizzarle, ridurle all’impotenza. Oggi il cavallo di Troia si chiama disegno di legge 1372, in discussione al Senato, e intitolato Delega al Governo per la revisione del codice dei beni culturali e del paesaggio in materia di procedure di autorizzazione paesaggistica. Nell’introduzione si mente per la gola, ma non si riesce a trattenere il ghigno, affermando che la legge “rappresenta un passo importante verso una gestione più efficiente e moderna delle autorizzazioni paesaggistiche. La tutela del patrimonio culturale e ambientale deve rimanere un obiettivo primario, ma è necessario bilanciarla con l’esigenza di non paralizzare l’attività edilizia e urbanistica con procedure eccessivamente lente e complesse”. Una excusatio non petita, seguita da un’orgia di ipocrisia: bilanciare la tutela dell’ambiente con il cemento è come bilanciare la legalità con la mafia. Perché in Italia abbiamo un articolo 9 della Costituzione in cui si dice che la Repubblica tutela il paesaggio, cioè l’ambiente, e abbiamo un articolo 42 che dice che “L’iniziativa economica privata … non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno … all’ambiente”.
Perché questo è il punto: in un Paese come il nostro il cemento è un interesse privato, l’ambiente è l’interesse generale. E invece il ddl che cosa fa? Resuscita il vecchio mito dei palazzinari: il silenzio assenso. Se la soprintendenza non risponde entro un termine preciso, abbassato in alcuni casi a 30 giorni, allora si può procedere: ma la semplificazione amministrativa deve garantire l’interesse di tutti, non quello privato. Così il gioco è scoperto: le soprintendenze sono prive di personale e definanziate, e i cementificatori, amici degli stessi politici che fanno le leggi e tolgono i mezzi alla tutela, hanno via libera. E poi, alla prima alluvione, tutti a piangere sulla cementificazione che porta morti, e danni per miliardi.
Ma non basta. Il ddl modifica l’articolo 152 del Codice dei Beni culturali, che prevede che “nel caso di aperture di strade e di cave, di posa di condotte per impianti industriali e civili e di palificazioni nell’ambito e in vista” di “cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale, singolarità geologica o memoria storica, ivi compresi gli alberi monumentali”, “complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale, inclusi i centri ed i nuclei storici” o di “bellezze panoramiche e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze”, la soprintendenza debba esprimere parere vincolante.
Cioè se voglio piazzare una fabbrica davanti a una cattedrale, o una pala eolica sopra un albero secolare oggi devo passare per il parere di chi tutela i beni di tutti noi. Ma se passa questa legge, il parere sarà sì obbligatorio, ma non più vincolante: ergo i privati tireranno diritto, in un nuovo sacco d’Italia. Non basta ancora: il parere delle soprintendenze sarebbe carta straccia anche per gli interventi nelle aree tutelate per legge, come i “territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia, anche per i terreni
elevati sul mare; i territori contermini ai laghi compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia, anche per i territori elevati sui laghi; i fiumi, i torrenti, i corsi d’acqua iscritti negli elenchi … e le relative sponde o piedi degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna; le montagne per la parte eccedente 1.600 metri sul livello del mare per la catena alpina e 1.200 metri sul livello del mare per la catena appenninica e per le isole”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Aprile 28th, 2025 Riccardo Fucile
ECCO COME POTREBBERO CAMBIARE I VISTI DI LAVORO PER GLI UNDER 30
Viaggiare tra Unione europea e Regno Unito potrebbe diventare molto più semplice
per i giovani britannici ed europei. Lo scrive il Guardian, secondo cui Bruxelles sarebbe pronta a fare importanti concessioni nei negoziati con Londra. Il governo laburista di Keir Starmer ha auspicato un «reset» delle trattative cominciate dopo la Brexit, che ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea nel 2016. Tra le novità più rilevanti su cui le due parti stanno cercando un accordo c’è anche la possibilità di consentire ai giovani di età compresa tra i 18 e i 30 anni di viaggiare e lavorare liberamente.
La possibile svolta per la mobilità giovanile
L’introduzione di questa novità allenterebbe di fatto i controlli sulle migliaia di giovani europei che vogliono vivere e lavorare nel Regno Unito (e viceversa). Il Guardian sottolinea che gli Stati membri potrebbero ora essere disposti a limitare i visti di lavoro a un massimo di dodici mesi, con quote sul numero di persone e restrizioni sui settori in cui i cittadini dell’Ue potrebbero lavorare. Allo studio anche un piano ribattezzato colloquialmente «uno dentro, uno fuori», attualmente in fase di valutazione da parte del ministro britannico degli Interni. Fonti Ue hanno spiegato al quotidiano inglese che il programma verrà rinominato «programma di esperienza per i giovani». Una formula che, a partire dal nome scelto, permette di eliminare qualsiasi ipotesi di riapertura delle rotte di immigrazione per i cittadini dell’Ue che desiderano vivere e lavorare nel Regno Unito.
La riapertura delle trattative e il vertice a Londra del 19 maggio
Un programma simile di mobilità giovanile è stato proposto per la prima volta dall’Ue nel 2024 e avrebbe consentito ai giovani di lavorare o studiare fino a quattro anni nei rispettivi Paesi. Questa proposta fu bocciata però unanimemente sia dai laburisti che dai conservatori inglesi. Dopo un anno di discussioni, il tema è tornato sul tavolo, questa volta in una versione più blanda: non più un permesso di quattro anni, ma di uno solo. L’intesa potrebbe essere siglata già il prossimo 19 maggio, al vertice Regno Unito-Ue che si terrà a Londra. Le due parti stanno lavorando a un patto, ribattezzato «intesa comune» e fondato su sette pilastri, che dovrebbe spianare la strada a una serie di negoziati secondari e più dettagliati sulle singole questioni.
(da agenzie)
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Aprile 28th, 2025 Riccardo Fucile
PAPA FRANCESCO ERA IL “PAPA DELLA GENTE”, MA SOPRATTUTTO DEI RAGAZZI: IL GIORNO DOPO IL FUNERALE DEL PONTEFICE, 200 MILA ADOLESCENTI SONO ARRIVATI A ROMA PER LA GIORNATA DEL GIUBILEO DEDICATA A LORO
Sventolano le bandiere della “Gioventù salesiana” con l’immagine di don Bosco, mentre ragazzini a frotte, bandana verde, borraccia verde, zainetto verde, il kit del “Giubileo degli adolescenti”, lasciano piazza San Pietro, direzione tutta Italia e tutto il mondo.
Samanta, Daria e Paolo, quindici anni, parrocchia di San Francesco di Sales a Padova, hanno le idee chiarissime: «Vogliamo un papa moderno che sappia parlare con noi come Francesco. Andava in tv, conosceva i social, siamo nati e cresciuti con lui, era anziano sì ma con il cuore giovane».
«Tre giorni di emozioni mai provate, la porta santa, il saluto al papa dentro San Pietro, la messa in suffragio, Roma enorme e bellissima, camminare e camminare è stato il nostro dono a Francesco, veniamo dagli oratori, dagli scout, dai gruppi giovanili diocesani, no, questa Pasqua non la dimenticheremo».
Erano duecentomila in piazza i teenager arrivati a Roma per il “Giubileo degli adolescenti”, appuntamento al quale papa Francesco teneva moltissimo, una marea di ragazzini e ragazzine che si sono trovati a un incrocio della Storia, dentro un frullatore di esperienze che ti fanno diventare grande di colpo.
«Non avevo visto morire nessuno — dice Diana, 16 anni — i miei quattro nonni sono ancora vivi, la bara aperta del papa mi ha colpito e commosso». I “ribelli” li chiamava Bergoglio che in un video inedito del 2025 rivolto ai giovani, senza abiti papali e senza zuccotto, diceva: «Cari ragazzi e ragazze, una delle cose più importanti nella vita è ascoltare, imparare ad ascoltare
Infinite le sigle dei gruppi giovanili che hanno pacificamente e gagliardamente invaso Roma, spezzando con la loro semplice presenza il lutto globale. E colpisce in anni di solitudini virtuali, di figli autoreclusi nelle loro stanze, di adolescenti violenti, la presenza di tanti giovani insieme.
C’è la Gioventù Francescana, gli juniores dell’Azione Cattolica, la Gioventù ardente Mariana, poi gruppi organizzati autonomamente da parrocchie e diocesi. I più folti sono giunti da Monza e da Milano con le bandiere e il volto di Carlo Acutis, il quindicenne morto di leucemia fulminante, la cui beatificazione sarebbe dovuta avvenire, per volontà di papa Francesco, proprio nel Giubileo degli adolescenti.
Devotissimo alla Madonna, autore di un sito internet con il quale faceva evangelizzazione, Carlo morì in tre giorni all’ospedale di Monza. Prima di chiudere gli occhi aveva dichiarato di voler offrire le sue sofferenze al Papa, promettendo alla famiglia che avrebbe dato molti segni della sua presenza. Anni dopo un bambino di nome Mathias, toccando un pezzo del suo pigiama guarì — secondo la Chiesa — da una rara anomalia genetica al pancreas. E così una bambina in gravi condizioni dopo un trauma cranico. Miracoli per chi crede, comunque colpisce quella morte così acerba.
«È successo anche a mia cugina, per questo sono qui» racconta Loriana, 15 anni, napoletana. Ci sono i giovani irlandesi, spagnoli, americani, argentini. Sally, 17 anni: «È stato incredibile essere qui proprio adesso, poter salutare Francesco, torno in Texas con molti nuovi amici, il papa che vorrei deve essere come Bergoglio, parlava in modo semplice, difendeva i poveri, i carcerati, i drogati. E tanti tanti ragazzi della nostra età usano sostanze».
Non conoscono i nomi dei cardinali, non sanno come funziona il conclave, molti chiedono chi sia quel vescovo, Parolin, che celebra la messa e ricorda loro «l’affetto di papa Francesco, che avrebbe desiderato guardarvi negli occhi, passare in mezzo». E cita la gioia nonostante il lutto, Parolin, gioia «impressa nei vostri volti, cari adolescenti che siete venuti da tutto il mondo a celebrare il Giubileo».
No, ai ragazzi di Francesco sfuggono i segreti dell’elezione di un pontefice, sanno soltanto una cosa: «Vogliamo un Papa che sappia parlare con noi». E chissà che nel conclave qualcuno ascolti la voce degli “Zeta”, in una Chiesa che
nonostante i grandi momenti di devozione collettiva, è sempre più disertata dai giovanissimi. Antonio, da Lecce, 16 anni: «Ero venuto soltanto per seguire dei miei amici, torno a casa diverso».
(da Il Corriere della Sera)
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Aprile 28th, 2025 Riccardo Fucile
NESSUNO PREVEDEVA UN AFFLUSSO DEL GENERE, IN MATTINATA L’APPELLO DI SCORRERE E POI USCIRE, PRIMA CHE SI CREI UN PROBLEMA DI ORDINE PUBBLICO
Qui nasce il culto, e il mito, di questo papa che si chiama Francesco. Quando una
donna chiede all’addetto se può appoggiare un fazzoletto sulla lapide, “solo un attimo”, giusto per trasformarlo in reliquia. Ma non è possibile, e neanche lasciare fiori, un’altra riporterà a casa un fascio di gigli profumati. E tutti ne parlano al presente, come se il papa non fosse morto ma lì in piedi, ad aspettare i suoi molti amici, in questa navata sinistra di Santa Maria Maggiore.
Bisogna però accontentarsi della tomba, e mai tomba è stata più francescana e desiderata, con quella rosa bianca appoggiata, in uno spazio più piccolo di una cabina armadio. Per vederla, ieri si sono accalcati in 70mila, e già alle 7, quando si sono aperti i varchi dei 2 metal detector, erano centinaia. E il cardinale Rolandas Makrickas, che è rettore della basilica, tutto contento per quella gente in attesa, a cui ha dato il benvenuto (ha anche spostato alcune transenne).
Qualche ora dopo si è capito che l’afflusso stava diventando un problema di ordine pubblico, se alle 10 dall’altare è stato fatto questo annuncio: «Siamo troppi, e la basilica è piccola. Bisogna rispettare le norme di sicurezza, quindi vi chiediamo di accomodarvi verso l’uscita, anche perché ci sono migliaia di persone in attesa, fuori». Quindi «per favore uscite».
Non è servito a niente, anche perché molti dicevano «voglio restare qui, vicino a Francesco», accomodandosi sulle basi delle colonne, ai piedi degli altari, ovunque ci fosse uno spazio. Perciò ogni tanto gli ingressi sono stati fermati, e si è andati avanti a singhiozzo, mentre tra i volontari in giacca e cravatta che prestano servizio in basilica, iniziava un qualche nervosismo.
Insomma, per vedere la tomba ci sono volute due ore di attesa, in una coda massiccia che partiva da piazza dell’Esquilino, e come negli aeroporti, ripiegava più volte per poi sfociare sulla via Liberiana, e raggiungere infine i controlli. E chi se lo aspettava? Non se lo aspettavano. Beatrice, caposquadra dei Leoni, Agesci, Parma 10: «Volevamo vedere la tomba. È stato molto emozionante». Bianca, caposquadra delle Volpi: «Ci ha dato un senso di tranquillità. È la casa di Francesco».
Alle 14, il conteggio era già di 30mila ingressi. Orario di chiusura slittato dalle 19 alle 22. Il sindaco Gualtieri farà un vertice in prefettura, per capire come gestire «un afflusso significativo nelle prossime settimane ma anche nei prossimi mesi». La basilica «diventerà seconda solo a San Pietro», diceva nell’omelia un cardinale dei tanti che si sono alternati all’altare. Cambierà la geografia sacra di Roma, tutti vorranno vedere la tomba, in una visita che dura forse tre secondi, il tempo di scattare una foto.
Gabriele Oliveri, caposquadra degli scout Lentini 2, sorpreso mentre ordina ai suoi di mettersi la camicia («rispetto e decoro, ragazzi») prima di entrare: «Papa Francesco non si smentisce: sta rivoluzionando questa zona di Roma, decentrando l’attenzione da San Pietro verso questo quartiere» popolare e multietnico, e così vicino a Termini, con tutto il rimescolamento di genti che ci passa.
E il gruppo di pellegrini di Périgueux? 230 persone dalla Dordogna, molte anziane e un po’ spaventate. Gaëlle: «È un regalo essere qui, e poter stare un po’ vicini al papa». Intanto arriva il cardinale Dolan, benedicente chiunque gli si pari innanzi, assieme a 200 fedeli di New York, entrati dall’ingresso laterale e quindi saltando la coda. Nelle pause tra una funzione e l’altra, una voce intima “shhhhhh, silenzio”, inutilmente (il tono è quello di Alberto Sordi nella Grande Guerra, “bboni, state ‘bboni”).
Un bel traffico, a cui nel pomeriggio si è provato a rimediare: si entra a 50 per volta, e camminare veloci. Fuori, una batteria di bagni chimici, lungo la via Liboriana. Poi sono arrivati 110 cardinali, cioè quasi tutti, a bordo di due pullman. Anche loro hanno saltato la coda, ma era previsto il loro omaggio alla tomba, oltre che la recita dei Vespri. Più gendarmi dal Vaticano, carabinieri, volontari bresciani della Croce Rossa a distribuire acqua, e altre forze dirottate
su Santa Maria Maggiore, ormai troppo piccola per il culto di Francesco (e nessuno si fila più la Sacra Culla, reliquia della mangiatoia di Gesù Bambino, tra l’altro).
(da La Repubblica)
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Aprile 28th, 2025 Riccardo Fucile
“LA GENTE NON ASCOLTA. ALLA METÀ DI UNA SPIEGAZIONE RISPONDE E QUESTO NON AIUTA”
“Cari ragazzi e ragazze, una delle cose molto importanti nella vita è ascoltare, imparare ad ascoltare. Quando una persona ti parla, aspettare che finisca per capirla bene e, poi, se me la sento dire qualcosa. Ma l’importante è ascoltare”.
È l’invito di Papa Francesco ai giovani in un video registrato l’8 gennaio sullo smartphone da un ospite a Casa Santa Marta.
Il messaggio – pubblicato dal sito del settimanale Oggi – era rivolto ai ragazzi che partecipano ai Laboratori dell’ascolto, iniziativa ideata da Luca Drusian che coinvolge giovani e adulti su differenti tematiche, permettendo a molti di sperimentare la bellezza di essere ascoltati, di ascoltarsi e di ascoltare.
Il Papa, che nel filmato appare in abiti informali, ribadiva questo concetto: “Guardate bene la gente, la gente non ascolta. Alla metà di una spiegazione risponde e questo non aiuta alla pace. Ascoltate, ascoltate tanto”, si sente nel video. Insieme all’immancabile esortazione a non dimenticare i nonni: “I nonni ci insegnano tanto”.
Parole che ben si adattano alla giornata di oggi che vede la conclusione del Giubileo degli Adolescenti a Roma.
(da agenzie)
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Aprile 28th, 2025 Riccardo Fucile
STRANO, NESSUN POST DI ESECRAZIONE DA PARTE DEI SOVRANISTI NOSTRANI
Era scappato in Italia ma è stato arrestato a Pistoia il 21enne ricercato in Francia per
il massacro di un fedele all’interno di una moschea a La Grand-Combe, nel sud del Paese. Il killer era ricercato in tutta la Francia dopo aver assassinato e filmato il giovane maliano Aboubakar Cissé in una moschea nel dipartimento del Gard dove il 24enne stava pregando.
La vittima è stata massacrata la mattina del 25 aprile con decine di coltellate mentre pregava da solo nella moschea. Un delitto efferato che ha scatenato una caccia all’uomo da parte della polizia ma anche diverse manifestazioni di protesta anche a Parigi per denunciare un “clima islamofobo” nel Paese. “È stato preso di mira perché era musulmano” hanno dichiarato i familiari della vittima.
“Dagli estratti del video che ho potuto vedere, il killer lo insulta, insulta la sua religione. Se questo non è un atto islamofobo, cos’è?” si è chiesto un cugino. Anche l’avvocato di famiglia conferma: “Ho avuto accesso a un video d’odio in cui si vede l’autore uccidere vigliaccamente quest’individuo a colpi di baionetta, pronunciare insulti e lasciarlo morire a terra, insultando la sua religione”.
L’assassino infatti è stato identificato e ripreso dalle videocamere di sorveglianza mentre colpiva con 40-50 fendenti Aboubakar Cissé, originario del Mali, dicendo “l’ho fatto…il tuo Allah di merda”. Non solo, durante l’attacco si è anche filmato riprendendo il macabro assassinio.
Dopo tre giorni di caccia all’uomo con decine di agenti schierati per catturarlo, il killer, identificato solo come Olivier A., si è consegnato alla polizia italiana a Pistoia dove era giunto nelle ore precedenti. Individuato domenica dalle autorità nell’Hérault, era riuscito a sfuggire ai controlli degli agenti francesi e si era diretto verso l’Italia. Nato a Lione nel 2004 e di nazionalità francese, l’uomo infine “si è recato personalmente in una stazione di polizia di Pistoia domenica verso le 23” ha dichiarato oggi il procuratore francese” Abdelkrim Grini.
“È una grande soddisfazione per me come procuratore. Di fronte all’efficacia e alla determinazione dei mezzi impiegati, l’autore non ha avuto altra scelta che costituirsi, ed è stata la cosa migliore che potesse fare” ha aggiunto il pm, ricordando che “Dopo essersi vantato del suo atto, dopo averne rivendicato la
responsabilità, ha rilasciato commenti che avrebbero lasciato intendere che intendesse commettere di nuovo atti simili”. Ora verrà emesso un mandato di arresto europeo in vista del suo trasferimento in Francia.
(da agenzie)
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Aprile 28th, 2025 Riccardo Fucile
“UNA IMMAGINE DA OSTERIA, LE ISTITUZIONI MERITANO ALTRO, IO FACCIO CAMPAGNA ELETTORALE PARLANDO DELLA MIA CITTA’, LORO SOLO ATTACCHI PERSONALI PER DENIGRARMI, DIMOSTRANO SOLO IL VUOTO DI ARGOMENTI”… “HANNO PAURA, LI CAPISCO, E FANNO BENE AD AVERLA, TRA UN MESE SARO’ SINDACO, NON MI FERMERANNO”
“Sinceramente non ho niente da rispondere a Gasparri, è un po’ sconfortante nel 2025 vedere un gruppo di uomini che parlando di una donna non fanno altro che parlare del suo aspetto fisico ridacchiando e dandosi di gomito, questa è un’immagine da operetta veramente che l’Italia non si merita e che Genova assolutamente non si può meritare – afferma Salis – detto questo, uno si aspetterebbe immediatamente uno sdegno da parte magari delle donne del centrodestra, ma anche, spererei, da parte del candidato sindaco Pietro Piciocchi, che ha anche delle figlie femmine e che credo che non apprezzi quando si parla di una donna declinando continuamente, in tutti gli interventi, elementi del suo aspetto fisico”.
“Ci aspettiamo un altro livello dalle istituzioni, ricevo attacchi personali molto pesanti riguardo me, riguardo il mio stile di vita, riguardo la mia famiglia e trovo che questo indichi principalmente una cosa: il vuoto di argomenti che hanno. Non ho mai fatto nessun tipo di attacco personale verso nessuno, la mia campagna è per Genova, loro l’unico argomento che hanno è denigrare la mia persona e questo la dice lunga sul fatto che hanno molta paura della mia candidatura. Potrei cavalcare questa polemica con toni aggressivi ma il mio è disagio di fronte a un certo tipo di osservazioni, perché nel 2025 puoi solo provare pena e disagio per uomini che parlano ancora così delle donne“.
E sul tema, arriva anche una nota delle “Donne della coalizione di centrosinistra” che invita le omologhe del centrodestra a “dissociarsi dalle frasi sessiste del loro schieramento”. Nel comunicato si dice: “Quando gli avversari, uomini, riducono il confronto elettorale con una donna alla studiata banalità di un “concorso di bellezza” con un chiaro intento offensivo, invece che rapportarsi sul piano politico e delle idee, significa che la bellezza insieme all’intelligenza li spaventa. Davvero il senatore Gasparri e il consigliere Vaccarezza non trovano altri argomenti di discussione? Silvia Salis rappresenta competenza, serietà e concretezza. Chi pensa che le elezioni si vincano con battutine sessiste dimostra solo paura del cambiamento che stiamo portando. Noi non offendiamo, costruiamo. Noi non denigriamo, progettiamo“.
“Tutte le donne dovrebbero indignarsi e dissociarsi di fronte a questo uso strumentale del corpo femminile. Chi fa politica ha un dovere istituzionale di rispetto. Chi ricopre incarichi pubblici deve ricordarsi che le parole sono atti politici: costruiscono cultura o la distruggono. Non si può svegliarsi a difendere i diritti delle donne solo l’8 marzo o il 25 novembre, e poi permettere o restare complici di linguaggi che li tradiscono. Il rispetto, l’esempio e la dignità devono essere praticati ogni giorno dell’anno. Per questo chiediamo alle donne della destra di dissociarsi pubblicamente da questi comportamenti e di respingere uno stile che rappresenta il passato, non il futuro. Basta strumentalizzazioni. Basta usare immagini private per denigrare una donna. Se si trattasse di un uomo, non assisteremmo a simili bassezze”.
(da Genova24)
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