AHMED, IL WIESAENTHAL IVORIANO CHE INSEGUE I TORTURATORI DEI MIGRANTI
NE HA GIA’ FATTI ARRESTARE TRE… DOPO ESSERE STATO MASSACRATO DI BOTTE NEL FAMIGERATO GHETTO DI ALI’, IL CAMPO DI PRIGONIA LIBICO, HA COME OBIETTIVO QUELLO DI CATTURARE I SUOI AGUZZINI
Quando gli hanno mandato la foto nel centro di accoglienza del Nord Italia in cui vive protetto lo ha riconosciuto senza indugi. E Gift Jofi, il carceriere nigeriano del famigerato Ghetto di Alì che tutti conoscevano come Sofi, è finito in manette, scovato dagli agenti della squadra mobile di Agrigento mimetizzato tra i richiedenti asilo del Cara di Isola Capo Rizzuto in Calabria.
E sono tre. La “giustizia” di Hamed corre come un treno, senza pietà .
Neanche per chi, come l’ultimo degli arrestati, è diventato un “torturatore per caso”. Convinto con la forza dai trafficanti a passare dalle fila dei prigionieri a quelle dei carcerieri per assicurarsi così il passaggio gratis su un gommone per l’Italia. Lo avevano proposto anche ad Hamed, ma lui ha sdegnosamente rifiutato. E in quel momento è cominciato un nuovo inferno.
Questo gigante tutto muscoli di 1,95 che piange in aula mentre ripercorre l’incubo vissuto nei tre mesi di prigionia nel Ghetto di Sabha, non aveva alcuna intenzione di venire in Italia.
Lui voleva solo lavorare in Libia per trovare i soldi per continuare gli studi dopo la laurea in giurisprudenza che era riuscito a prendere nel suo paese, la Costa d’Avorio. “La mia famiglia aveva pagato il riscatto, io ero devastato dalle torture, non riuscivo neanche a camminare, così quando mi hanno liberato e sono riuscito a raggiungere Tripoli ho deciso di salire su un barcone per l’Italia per curarmi ma soprattutto per avere giustizia. Ho studiato e so che la tortura è condannata in tutto il mondo. E ora voglio andare fino in fondo”.
La prima cosa che Hamed Bakayoko, 29 anni, ha fatto, appena arrivato a Lampedusa, a marzo scorso, è stata proprio quella di andare a bussare alla porta della polizia, aprendo così la breccia che ha portato poi all’identificazione e all’arresto di tre degli aguzzini del generale Alì, che la Dda di Palermo ha portato sul banco degli imputati per reati da ergastolo, associazione per delinquere, tratta di essere umani, omicidio, violenza sessuale.
Ora trasferito in un centro di accoglienza del Nord Italia, Hamed comincia il suo racconto ringraziando “la polizia italiana, la magistratura e i medici che mi hanno curato”.
“Tornerò in Sicilia tutte le volte che sarà necessario fino a quando non li vedrò condannati”.
La storia di Hamed è emblematica perchè conferma che molti di quanti vengono fatti salire a forza su un barcone non hanno in realtà come obiettivo l’Europa ma vengono rapiti alla frontiera e finiscono nel ghetto di Sabha in balia dei trafficanti.
“Io volevo solo andare a Tripoli a lavorare per mandare i soldi a casa e poter continuare i miei studi. Ma, appena arrivato al confine tra Libia e Niger, ad Agadès, purtroppo mi sono fidato di uno degli autisti che si propongono per attraversare la Libia e invece sono al soldo delle milizie di Alì. Lì è cominciato il mio incubo”.
Che sarebbe potuto durare anche solo pochi giorni perchè i familiari e gli amici di Hamed avevano subito pagato il riscatto di duemila euro su un conto in Niger intestato ad Alagi Iakuba Isa, un prestanome utilizzato da Alì per raccogliere i riscatti.
E’ stato in quel momento che, per paradosso, vista la sua stazza fisica, i carcerieri hanno proposto ad Hamed di diventare uno di loro.
Il suo rifiuto ha scatenato la folle violenza degli aguzzini che adesso vuole vedere condannati all’ergastolo. ” Io chiaramente ho rifiutato e loro sono tornati e hanno cominciato a torturarmi. Mi hanno messo delle manette, mi hanno sbattuto nella sezione più dura in cui si trovava Rambo, lì mi hanno detto che dovevo pagare cinque milioni di franchi”.
Ogni giorno violenze su violenze. “Dormivamo con i piedi sollevati e lui ci colpiva alla pianta dei piedi con una frusta di caucciù. Soprattutto quando era sotto effetto di droghe era così violento che a volte le persone rimanevano inermi, senza mangiare, senza poter fare niente per giorni, quasi in fin di vita. Utilizzava ogni strumento di tortura, dai cavi elettrici all’acqua bollente”.
Dopo sei mesi di torture, Hamed era ridotto come un fantoccio, una gamba spezzata, incapace di reggersi in piedi. “Uno di loro si è impietosito e mi hanno buttato fuori dal campo, non servivo più”. A quel punto il gommone in partenza per l’Italia era l’unica speranza di sopravvivere.
(da “la Repubblica”)
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