BERSANI PRONTO AL PASSO INDIETRO: “UN MINUTO DOPO L’ELEZIONE, MI RITIRO DALLA CORSA A PREMIER”
“NON SONO RIUSCITO A FAR PASSARE LA DISTINZIONE TRA ISTITUZIONI E POLITICA”
«Alla prova dei fatti, più che i parlamentari, è la nostra base che mi ha mandato a quel paese». Pier Luigi Bersani è tramortito per l’esito disastroso del voto su Franco Marini.
Stanco, sfiduciato, non vuole farsi vedere così.
Per questo è un fantasma nel Transatlantico affollato da mille grandi elettori e centinaia di giornalisti.
Nessuno lo vede, protetto dai commessi che gli suggeriscono i corridoi laterali per rifugiarsi nella sua stanza al primo piano, alle spalle dell’aula.
Solo i fotografi lo immortalano sorridente nell’emiciclo mentre vota e abbraccia Angelino Alfano.
I nemici per un giorno sono più affidabili degli amici. Eppure c’è ancora da gestire un esercito di grandi elettori completamente fuori controllo, che rischiano di non tenere nemmeno sul nome del fondatore dell’Ulivo Romano Prodi.
Non c’è il tempo per riflettere sulla propria parabola personale, sulla voglia di gettare la spugna.
Ma a un certo punto, nel “bunker” di Montecitorio, 53 giorni dopo la sconfitta elettorale, Bersani prende fiato e confida: «Un minuto dopo l’elezione del presidente della Repubblica, mi ritiro dalla corsa per Palazzo Chigi».
Tradito persino dagli eletti emiliani, dalla sua terra, dalle radici. I suoi, mica i renziani, hanno bocciato Marini.
Alla luce del sole, bombardando le mail di Vasco Errani e Maurizio Migliavacca con lettere di fuoco, minacciando dimissioni in massa dei segretari di circolo.
Il segretario regionale Stefano Bonaccini ha preso atto e comunicato con Roma: «Non reggiamo, Pierluigi. Fermati».
Bersani non rinuncia ma deve chinare il capo. «Non sono riuscito a far passare la distinzione tra le istituzioni e la politica, il governo. L’intesa con Berlusconi, i nostri non la vogliono neanche sulla presidenza della Repubblica ».
È così, non ci si può fare niente. Cede l’Emilia rossa, la cassaforte dei voti del Pci, dove il partito indicava la rotta e le masse seguivano.
«Vedo con i miei occhi che la gente, persino quella che conosco meglio, non lo tiene un accordo con Berlusconi. E non guarda al Quirinale o al governo. Hanno dato uno schiaffo a me e alla larga condivisione».
Bersani spiega che «la crisi politica e quella economica sono profondissime e stanno travolgendo tutte le regole. È un fatto nuovo, ci dobbiamo fare i conti. Non era mai successo nella storia. E in una situazione politica frantumata, è toccata a noi la responsabilità di trovare una strada».
Con il fallimento di Marini sulle spalle, al segretario spetta ora il compito di cercare un altro nome. E la preoccupazione si raddoppia. Non può più sbagliare. Ma gruppi e gruppetti del Pd si muovono in ordine sparso, sulle ipotesi più strampalate.
Dalla mattina alla sera, Bersani è in riunione permanente con i capigruppo Luigi Zanda e Roberto Speranza, Enrico Letta, Errani, Migliavacca, Miro Fiammenghi. Lontano dai suoi parlamentari, lontano dalle voci maligne, lontano dalla fedele scudiera Alessandra Moretti che già dalla sera prima lo ha abbandonato al suo destino, votando per Rodotà .
Il segretario non sente le battute al veleno, ma percepisce il clima d’assedio. E il desiderio crescente di cambiare il timoniere.
Marianna Madia, senza nascondersi, ha annunciato: «Marini non lo voto». Volto angelico, capelli biondi, la giovane deputata è la compagna di Mario Gianani, il produttore della serie tv In Treatment che in ogni puntata racconta una seduta di psicanalisi.
«Presto Bersani diventerà un paziente di Sergio Castellito», dice con sorriso affilato riferendosi all’attore che interpreta il terapeuta. Bersani è solo, a parte il circolo dei fedelissimi.
Matteo Orfini tratta con Vendola per il futuro del Pd, Matteo Renzi piomba a Roma e riunisce i fedelissimi.
Nel frattempo è diventato leader di due partiti, il Pd e Scelta civica.
In effetti, hanno molto in comune: sono entrambi allo sbando.
I dalemiani si muovono con passi felpati e comunque in piena autonomia usando i loro contatti a tutto campo. Orfini si precipita a parlare con Franceschini e gli propone lo scambio: Boldrini al Quirinale e la poltrona della Camera a un ex popolare.
Il premio di consolazione dopo il killeraggio contro Marini.
Tutto passa sopra la testa di Bersani. Che resta chiuso nella sua stanza.
Telefona a D’Alema, a Veltroni, ai “turchi”, a Fioroni, certo. Non a Renzi, con cui fa da ponte Letta.
Sente, ascolta, scruta e si rende conto della difficoltà di reggere un accordo su qualsiasi nome.
Perchè da ieri ognuno segue la sua traiettoria e cerca di salvarsi dal disastro.
C’è la batosta e la necessità di agire. La barca distrutta, che fa acqua da tutte le parti e l’obbligo di condurla in porto.
Sentimenti contrastanti. «Tante volte in questi giorni ho detto che ne avevo viste di peggio. Non è vero. Questa è la peggiore di tutte », ammette Bersani.
Eppoi sorride.
Per un attimo.
Goffredo De Marchis
(da “La Repubblica“)
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