GLI HANNO OFFERTO UN MINISTERO PER TACITARLO, FICO RIFIUTA: “IO NON CERCO POLTRONE”
NEL RETROPALCO CONFRONTO TESO DEL DEPUTATO ORTODOSSO CON I VERTICI DEL M5S, MA RESTA IL GELO
Ogni crisi ha la sua scenografia. C’è un palco e un retropalco, un pratone dove mescolarsi alla folla.
Nel momento più importante, ogni personaggio di questa storia occupa uno spazio. Quello spazio, proprio in quell’attimo, cristallizza la crisi e la racconta.
Sono le 19.10, Beppe Grillo sale sul palcoscenico di Rimini, la busta con il candidato premier in mano. Dietro di lui ci sono tanti parlamentari sorridenti. Non c’è Roberto Fico, rimasto nel backstage, senza applaudire, solo con la compagna al suo fianco. Non c’è Carlo Sibilia che con alcune colleghe gira per gli stand. Non c’è Nicola Morra, che uscito dal vespasiano si fionda ad ascoltare Beppe. Da lontano.
La frattura del M5S è un momento di passaggio, tra la storia e il futuro, tra le amicizie di prima e quelle che vengono dopo.
Nel 2013 il deputato Carlo Sibilia, ex membro del direttorio, condivideva il primo appartamento a Roma con Luigi Di Maio.
Oggi dice: «Con il leaderismo c’è un rischio di snaturamento del Movimento. Alle primarie non ci siamo candidati (contro Di Maio, ndr )perchè non era una competizione ad armi pari».
Questi anni in Parlamento e le ambizioni hanno bruciato l’innocenza di un tempo, il senso di fratellanza. Non sarà facile ricucire.
Ci hanno provato, Grillo, Di Maio e Davide Casaleggio, e continueranno a farlo, con Fico. Barricato in hotel fino alle quattro del pomeriggio, il ribelle napoletano rinuncia al bagno pomeridiano tra gli attivisti, alla camminata dell’orgoglio tra i tendoni della festa dove pure era atteso.
Lo farà solo dopo l’incoronazione di Di Maio. Prima, insiste a non parlare in pubblico e accetta l’offerta di momentanea tregua da parte di Grillo e del collega candidato a premier. Ma si rifiuta di salire sul palco.
«Luigi vuole coinvolgerlo, anche nel governo, gli dirà che non può fare a meno di lui» fanno sapere dallo staff vicino a Di Maio.
L’offerta che gli verrà formalizzata è di un ministero, quello che naturalmente lo veste meglio, e potrebbe essere alle Telecomunicazioni. Fico però ai suoi dice: «Chi dice che io stia facendo delle contrattazioni, sbaglia. Io non voglio poltrone, chi mi conosce lo sa».
Tra i movimentisti, chiamati ortodossi, c’è Giuseppe Brescia. È conosciuto come il grillino dei migranti, convinto che il M5S non debba sbandare dalle posizioni di solidarietà verso i profughi: «Quello che chiediamo è semplice — spiega — le decisioni si prendono assieme. A me va bene che Luigi faccia il capo come una sorta di coordinatore tra noi parlamentari, perchè almeno non direte più che siamo eterodiretti da Genova e da Milano. Ma il punto è che le scelte vanno discusse, su tutto, sugli uomini di cui ci circondiamo, anche sulla squadra di governo. Altrimenti ci dicano che il M5S è cambiato e a chi non sta più bene se ne va».
«Condivisione su ogni decisione» è quanto chiede anche Sibilia.
Di Maio di carattere è un pragmatico e sa fare abbondante uso delle sue doti di diplomazia. Non vuole certo affrontare una campagna elettorale indebolito da altre faide interne, zavorrato dalle critiche di Fico.
«Il mio sarà il governo di tutti noi, del Movimento, questo te lo assicuro, Roberto».
Di Maio non lo ha persuaso fino in fondo, ma ci ha provato in un faccia a faccia dietro il palco, dove più che altro però ha ascoltato lo sfogo del rivale, l’esigenza di mantenere un Movimento orizzontale, che sia una comunità non ridotta a un fortino di fedelissimi.
Di Maio ha i suoi uomini e li vuole con sè per Palazzo Chigi. Il consigliere politico, l’inseparabile Vincenzo Spadafora, i due deputati più vicini, Riccardo Fraccaro e Alfonso Bonafede, in lizza per due ministeri, il consigliere lombardo Stefano Buffagni, che lo affiancherà già a partire da domani nella campagna per conquistare il cuore del Nord, il fronte più ostico per i grillini.
Fico guarda dal retropalco il trionfo di coriandoli che bagna l’investitura di Di Maio. Aspetta che finisca, poi si va a prendere la sua fetta di amore da parte degli attivisti.
A chi gli chiede di non mollare risponde: «Io non mollo mai».
Assicura che «le correnti non ci sono» ma aggiunge: «Non si sostengono le persone, si sostiene il M5S, quindi tutti i candidati, perchè i portavoce vanno accompagnati». Ecco, lui continua a preferire la parola «portavoce» a «candidato».
E forse è questa differenza che misura l’incolmabile distanza con Di Maio.
(da “La Stampa”)
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