I GRANDI MARCHI CHIUDONO I NEGOZI IN RUSSIA MA CONTINUANO A PAGARE I DIPENDENTI
ANCHE NEL RESTO DEL MONDO I RUSSI SI SONO RITROVATI CON LE CARTE DI CREDITO BLOCCATE E DA SABATO SCORSO PAYPAL E REVOULT IMPEDISCONO LA CREAZIONE DI NUOVI ACCOUNT ALLA CLIENTELA RUSSA
Il caso più eclatante riguarda il Gruppo LVMH (Louis Vuitton Moët Hennessy) che l’altro giorno ha chiuso 124 negozi in Russia per protestare contro l’invasione dell’Ucraina. Il colosso del lusso francese che da solo controlla 70 marchi del calibro di Dior, Louis Vuitton, Celine e Givenchy, ha dichiarato che i 3500 dipendenti continueranno a ricevere lo stipendio, ma le vendite sono sospese fino a data da destinarsi.
Stessa decisione da parte del Gruppo Kering che ha in portafoglio marchi come Gucci, Saint Laurent, Alexander McQueen, Balenciaga, Boucheron, Brioni e Pomellato, ma continua a retribuire i team locali pur avendo temporaneamente sospeso ogni attività commerchiale dei suoi brand in Russia.
Chiusura totale anche da parte di Richemont che oltre agli orologi più lussuosi del modo (Panerai, Piaget, Vacheron&Constantin e Baume&Mercier) controlla l’alta gioielleria (Cartier, Buccellati e Van Cleef&Arpels) e la moda con marchi di nicchia come Chloe e Azzedine Alaïa.
Paradossale la situazione di Hermés che a Mosca ha «solo» tre negozi ma in ogni punto vendita del mondo girano le leggendarie liste d’attesa piene di nomi di oligarchi che aspettano da mesi l’ennesima Kelly per non parlare delle Birkin in lucertola azzurra che da sole costano quanto un appartamento neanche troppo piccolo.
È difficile che le ordinazioni possano essere onorate. L’effetto domino delle serrande abbassate riguarda anche Chanel che ha 17 negozi nell’ex Unione sovietica, ma fa impressione pensare che il Gruppo Inditex (Zara, Bershka, Massimo Dutti, Oysho, Pull&Bear) in meno di 24 ore ha fatto tirar giù la cler a 502 punti vendita oltre al proprio ricchissimo e commerce. Intanto Asos e Nike hanno sospeso l’export verso la Russia come del resto hanno fatto Volkswagen e Toyota mentre gli account di Netflix e Disney non sono più raggiungibili.
Anche nel resto del mondo i russi non possono comprare la merce griffata di cui sono bulimici perché hanno le carte di credito bloccate e da sabato scorso Paypal e Revoult impediscono la creazione di nuovi account alla clientela russa. Intanto però Prada ha bloccato l’e-commerce per tutti i marchi del Gruppo (oltre a Prada Miu Miu, Car Shoes e Church’ s) e l’Italia della moda sta reagendo con la stessa fermezza e generosità che dimostrano i cugini d’Oltralpe.
«Nel 2021 il nostro export verso la Russia ammontava a 1,4 miliardi di euro l’anno di cui circa la metà nel comparto abbigliamento a cui bisogna aggiungere 250/300 milioni di acquisti nei nostri negozi» spiega Carlo Capasa, presidente di Camera Nazionale della moda che ha lanciato un appello perché i marchi italiani affianchino con le loro donazioni l’UNHCR. Capasa dichiara che hanno aderito tutti: «Stiamo raccogliendo milioni».
I francesi non sono da meno: il Gruppo LVMH ha già donato un milione di euro. Kering solo con Gucci ha dato 500 mila dollari attraverso la campagna Chime for Change. «Le donne in guerra sono colpite in modo sproporzionato» sostiene Marco Bizzarri, presidente e Ceo del marchio delle due G. Erano proprio le donne degli oligarchi le migliori clienti del lusso sulle rive della Moldava. Almeno togliergli le borsette mentre i loro uomini tolgono la vita ai bambini in Ucraina.
(da il Giornale)
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