I (QUATTRO) GATTI FRETTOLOSI FECERO LA RIFORMA CIECA
LA SPERICOLATA CORSA AL VOTO FERISCE RENZI E GRILLO E SCHIANTA LA LEGISLATURA
La gatta frettolosa fece i gattini ciechi. Il popolare proverbio, usato dalle mamme per controllare le impazienze di generazioni di bambini, stavolta si è elevato anche a norma politica: la legge elettorale frettolosamente messa insieme con un accordone da Santa Alleanza, fra quattro leader diversissimi tra loro, pur di andare alle elezioni, si è schiantata al primo voto in aula.
Schiantata in mezzo a una coreografia — il cartellone che per errore manda in chiaro un voto segreto, accuse reciproche di tradimento fra partiti — che esalta un clima caotico, la mancanza di organizzazione, un’aria da rompete le righe, uno sbando ad alta intensità emotiva. Una scena da sussurri e grida. Insomma aria che parla in tutto di fine legislatura.
La camera ha vissuto così, come nei suoi momenti peggiori, il fallimento di quello che sicuramente possiamo considerare l’ultimo possibile tentativo di fare una legge elettorale. Una sconfitta che condiziona ora il modo di come si chiude la legislatura, ma anche gli equilibri dentro e fra partiti.
Per il Pd e per il suo leader Matteo Renzi, che sono state le forze che più si sono impegnate a portare a casa una legge elettorale, costitusce la seconda battuta d’arresto in pochi mesi. Non è una batosta pubblica come la prima, quella del Referendum, ma rimane una seconda brusca frenata di un progetto mirato a riportare un partito rinnovato (dopo scissione e congresso) e il suo segretario al centro della dinamica politica.
Perchè Matteo Renzi e la sua organizzazione non riescano a “rialzarsi” è forse la parte meno visibile, e più significativa, di questa vicenda.
Moltissimo ha a che fare con la turbolenta relazione fra il Segretario e il Sistema — intendendo per quest’ultimo in questo caso il complesso istituzionale, economico e politico, dato.
Fra le due entità non c’è mai stato idillio, con un giovane fiorentino arrivato brandendo la bandiera della rottamazione e una Roma da tempo, cioè dall’ultimo anno di Silvio Berlusconi nel 2011, in bilico fra richiami europei, crisi economica, scollamento dei partiti, rabbia dei cittadini.
La discesa a Roma del Rinnovatore, applaudita, facilitata, e spesso adulata, si è ben presto però rivelata incline anche a colpi testa, forzature, improvvisazioni. Insomma impresa spesso troppo solitaria ed autoreferenziale, per istituzioni molto consapevoli della fragilità degli equilibri complessivi.
Al netto di discussioni di merito sulle scelte politiche, che pure hanno contato, è proprio il metodo renziano, la forzatura come cardine dell’azione politica, che ha costituito alla fine il peggior nemico del Premier/Segretario.
Questione, questa della forzatura, di non poco conto. Di questo si è trattato infatti per il Referendum: sarebbe stato diverso il percorso se i contenuti politici molto controversi di quella riforma non fossero stati proposti con la tagliola di un si o un no? A questa domanda, nelle ore della sconfitta, lo stesso Renzi sembrava rispondere con un forte dubbio.
La legge elettorale, anticipatrice necessaria di un ritorno anticipato al voto, è stata segnata dalla stessa voglia di forzare i processi, e infatti portata avanti con la stessa fretta.
Incontrando le stesse razionalità , gli stessi dubbi. Nel caso specifico non si è trattato di un processo vasto e popolare come quello del referendum, ma si è trattato comunque di obiezioni pervenute dal mondo istituzionale.
Confindustria, Ministero del Tesoro, Palazzo Chigi, Quirinale, in vari modi, hanno additato il pericolo di un voto anticipato in piena Finanziaria, con nodi irrisolti di debito pubblico, e rapporti incerti con la situazione internazionale.
Ma quel che forse di più ha frenato la corsa sono state una serie di opinioni pesanti uscite dal seno dello stesso partito del Segretario. Alla fine di una settimana in cui si si sono messe in fila sulle pagine dei media dissensi espressi da Veltroni, Bindi, Prodi, Letta, Finocchiaro, e soprattutto Giorgio Napolitano, si può capire come molti nello stesso Pd cominciassero ad avvertire dubbi su quanto costasse questa legge.
Lo stesso dubbio sul costo ha schiantato il Movimento 5 Stelle, attraversato, a differenza del Pd renziano, da una feroce deriva interna di dissenso.
Lo sbarco dei pentastellati fra i quattro firmatari del patto ha avuto in effetti per la organizzazione di Grillo l’impatto di un vero Congresso interno.
Con due ipotesi in campo, entrambe rappresentative del bivio di fronte a cui si trova il movimento: la necessità di diventare sempre più istituzionali a fronte di un potenziale ruolo di governo e la fedeltà ai proprio principi di alterità . Alla fine ha prevalso quest’ultima.
Non è un caso che le accuse reciproche siano alla fine volate fra queste due forze, Pd e M5s. In questo processo erano diventate lo specchio di uno stesso drastico e forzato riadeguamento: il primo nella alleanza con Berlusconi, il secondo nella alleanza con il sistema.
La legge lascia entrambi i gruppi scossi, anche se non feriti. Sia Pd che M5s infatti possono ritirarsi, come già indicano che faranno, sulla più sicura spiaggia della identità separata.
In compenso la spericolata manovra lascia una ferita profonda sulla legislatura.
Messa in discussione, messa da parte come cosa finita dai legislatori aspiranti stregoni, ne esce segnata dalla sua spendibilità .
Il finale caotico del voto, di cui parlavamo all’inizio, è infatti la rappresentazione di tutto quello che in questi ultimi cinque anni è diventata la politica: un instabile cocktail di ambizioni personali, arrembaggi, privatismo, nutritosi della e nella crisi dei partiti.
Non sarà un caso che l’accordo elettorale è stato formulato da Quattro leader nessuno dei quali siede in Parlamento.
Nè è un caso che appena arrivato in Parlamento l’accordo si sia liquefatto, come un gelato al sole di questo inizio di estate romana.
(da “Huffingtonpost“)
Leave a Reply