I SOVRANISTI, I BALLOTTAGGI E LA REGOLA DI BELZEBU’
MELONI E I SUOI VOGLIONO EVITARE DI PERDERE
Il doppio turno è il Gran Belzebù delle destre almeno dal 2010, da quando Silvio Berlusconi incontrava Nicolas Sarkozy e prometteva l’importazione in Italia dell’elezione diretta del Presidente specificando: copieremo quel modello ma non tutto, noi pensiamo a un turno unico. Adesso che il turno secco viene rilanciato pure per l’elezione dei sindaci da autorevoli fonti – il presidente del Senato Ignazio La Russa, il capo dell’organizzazione di FdI Giovanni Donzelli, il capogruppo leghista Massimiliano Romeo – due sono le linee di analisi possibili. La prima, minimalista: sono dichiarazioni consolatorie per l’elettorato della destra, un modo per attribuire il 7 a 5 nei capoluoghi non all’inefficacia delle candidature, non a una crisi locale di consenso, non a campagne così-così, ma al destino cinico e baro che vincola i sindaci alle regole di Belzebù.
Seconda versione, più politica: ai ballottaggi le coalizioni di destra hanno sempre faticato e adesso che hanno i numeri per farlo vorrebbero togliersi l’impiccio. Senza la regola di Belzebù il 7 a 5 a favore delle sinistre registrato ieri cambierebbe di segno, perché almeno a Campobasso e Potenza i due candidati della destra sarebbero passati già l’8 giugno, visto il loro primo posto e la quota superiore al 40 per cento.
L’opzione consolatoria ha una sua logica. Qualcosa si deve pur dire all’elettorato di destra che a ogni tornata di amministrative si trova a piangere sul latte versato di candidature infruttuose.
È ancora vivo lo choc del 2021, quando la coalizione perse Roma e Milano andando appresso all’ignoto conduttore radiofonico Enrico Michetti e al pediatra con la pistola Luca Bernardo. Il ravvedimento operoso delle classi dirigenti c’è stato – mai più candidati pescati dal cilindro, mai più quisque de populo promossi a protagonisti – ma è percorso lento e impervio.
In un mondo perfetto chi guida il vapore direbbe: dateci tempo, abbiamo cominciato appena adesso a selezionare amministratori potabili al posto degli affabulatori, nelle grandi città è difficilissimo perché la rete degli interessi concreti è complicata. Ma i mondi perfetti non esistono e il Belzebù della legge elettorale torna comodo per giustificare performance deludenti, anche a dispetto di quelli di destra che ce l’hanno fatta e sono controprova del fatto che il candidato giusto fa la differenza, vedi Adriana Poli Bortone: una combattente di antica stirpe, fra le prime donne ministro del nostro Paese, sindaca due volte con risultati plebiscitari e ora di nuovo vincitrice dopo un lungo embargo dovuto alle ruggini con Raffaele Fitto.
Ma ha un concreto fondamento anche l’altra possibilità, e cioè che la destra parli contro il doppio turno per una convinta ostilità ideologica alla formula (e il preciso progetto di cambiarla). Il ballottaggio è territorio d’elezione per le sinistre, sono loro ad averlo sempre cavalcato a livello locale e nazionale. Marciare divisi al primo giro – dove l’arcipelago delle sigle è sempre stato poco assimilabile – e unirsi al più forte (cioè al Pd) nella seconda tornata: un sogno progressista dai tempi di Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani fino a Walter Veltroni e Matteo Renzi. Doppio turno per tutto, per l’eventuale semi-presidenzialismo, per i collegi di Camera e Senato, e pure per le Regioni con ripetute iniziative di legge a livello locale e nazionale. Renzi, con l’Italicum, aveva convinto persino Berlusconi: la Corte Costituzionale poi affondò l’idea, ma non certo lo schema di riferimento. Il turno secco è di destra, il ballottaggio è di sinistra.
Il neo-bipolarismo introdotto dall’ultimo voto europeo, il “noi contro loro” che torna ad affermarsi ovunque rilancia questo tipo di contesa di principio. Semmai stupisce la nuova argomentazione introdotta a sostegno di una riforma che abbassi dal 50 al 40 per cento la soglia per essere eletti al primo turno. Dicono: al ballottaggio sono andati troppo pochi, un sindaco scelto così non rappresenta la volontà della maggioranza, è delegittimato. Ma occhio al ragionamento del diavolo. Il vecchio Belzebù potrebbe domandare: i 12 milioni di voti raccolti alle Politiche del 2022 dal centrodestra su 46 milioni di aventi diritto al voto sono abbastanza per dirsi campioni del popolo sovrano? E semmai arriverà l’elezione diretta del premier, qual è la soglia, il numero, la percentuale, a cui appendere vittoria e premio di maggioranza?
Quanto alla nostalgia dei bei tempi della corsa di massa ai seggi, anche lì un demonietto minore potrebbe sollevare obiezioni sull’incidenza del sistema elettorale. Ci fu un’epoca in cui le sfide nelle principali città furono trampolino di lancio di grandi personaggi e l’adesione popolare volò sull’onda di duelli omerici. Il match Fini-Rutelli del 1993 a Roma (78,7 per cento alle urne), l’Albertini-Fumagalli a Milano (71 per cento), il Guazzaloca-Bartolini a Bologna (78,8 per cento). E tuttavia in anni più recenti le nomenclature di partito hanno cominciato a guardare a quei trampolini come a un rischio: vai a vedere che salta su uno che poi ci leva luce, pretende, insidia i nostri ruoli. Si sono scelti saltatori minori, accettando il rischio dell’effetto camomilla. Con l’ovvio esito di un collasso di partecipazione dietro al quale, più che la coda sferzante del diavolo, si intravede una gran noia.
(da lastampa.it)
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