IL SALARIO MINIMO NON PASSERA’, MA SCHLEIN STAVOLTA HA FATTO CENTRO, PER DUE MOTIVI
OCCORRE RAFFORZARE LA PARTE PIU’ DEBOLE
Nonostante la maggioranza si appresti a respingere in Parlamento la proposta di salario minimo a 9 euro, l’azione delle opposizioni – ed in particolare del PD che è riuscito ad intestarselo politicamente – ha fatto centro.
Ha fatto centro per due ordini di motivi: uno di natura politica e uno di sostanza.
Da un punto di vista politico, la novità è la capacità delle opposizioni di fare fronte comune su un problema reale che coinvolge i cittadini, ed in particolare, il loro elettorato: alcuni milioni di lavoratori hanno una remunerazione oraria che non garantisce una vita dignitosa.
Chiedere un salario minimo per legge ha fatto breccia sull’elettorato (due terzi dei cittadini sono a favore) e ha trovato l’adesione – non scontata fino a qualche tempo fa – dei sindacati.
Il governo ha accusato il colpo, è stato costretto sulla difensiva, ha tenuto un profilo basso sostenendo che l’istituzione di un salario minimo per legge non sia un buon modo per risolvere la questione dei bassi salari. Non ha avanzato però alcuna proposta alternativa.
Quindi, politicamente 1 a 0 per l’opposizione. La sostanza è quella che più deve interessarci. L’obiettivo è combattere il cosiddetto ‘‘lavoro povero’’, il lavoro non retribuito adeguatamente. Un intervento per legge sul salario minimo può aiutare, anche se non è la bacchetta magica.
Partiamo da un punto che le organizzazioni datoriali e il governo hanno portato contro l’iniziativa: storicamente, la definizione del salario nel nostro paese non è stata affidata ad un intervento legislativo. La ragione è presto detta: il salario orario è solo una parte della retribuzione, ci sono altre componenti molto rilevanti, che possono essere definite soltanto tramite la contrattazione collettiva tra le organizzazioni datoriali e le forze sindacali.
Si tratta del pilastro che sta alla base delle relazioni sociali in Italia dal dopoguerra in avanti. La contrattazione tra le parti sociali rimanda alla divisione del valore generato tramite i fattori produttivi (capitale e lavoro). La loro remunerazione deve essere demandata alla libera contrattazione tra le parti in quanto dipende da tanti fattori, tra cui la produttività. Un intervento normativo (come l’istituzione del salario minimo) potrebbe essere motivato soltanto dalla volontà delle forze politiche di rafforzare/tutelare una delle due parti nel caso in cui la contrattazione non funzioni bene. Bisogna stare attenti, ad esempio, un intervento per legge potrebbe minare la competitività delle imprese se rendesse il costo del lavoro troppo elevato.
Occorre quindi capire se la contrattazione collettiva funzioni bene o male in Italia.
In termini puramente numerici funziona ancora: il 99% dei lavoratori è coperto dalla contrattazione collettiva, un dato ben superiore alla soglia critica individuata dall’Unione Europea (80%).
Ciononostante, il sistema è in crisi, e non da oggi, e sono i lavoratori ad avere la peggio. La crisi trova due ragioni principali.
In primo luogo, la diffusione di forme di lavoro non standard (tempo determinato-indeterminato; part time-tempo pieno). La casistica è molto variegata, la quota di lavoro non standard è oramai pari al 40% con un incremento significativo nel nuovo millennio. Questi lavoratori non rientrano pienamente nell’alveo della contrattazione collettiva. Via via, la giurisprudenza nel mondo del lavoro ha posto in essere una serie di tutele per i lavoratori non standard ma questi si sono rilevati poco efficaci. Il risultato è che circa il 30% dei lavoratori (cinque milioni) ha una bassa retribuzione, inferiore cioè a 12.000 euro annui, il 60% del valore mediano. La gran parte di questi lavoratori si colloca nell’ambito dei servizi di alloggio e ristorazione, supporto alle imprese, supporto alla persona.
Il secondo motivo è il proliferare di contratti stipulati da organizzazioni sindacali diverse da CGIL, CISL e UIL, contratti che spesso vengono etichettati come ‘‘pirata’’ in quanto sono siglati da organizzazioni sindacali non rappresentative. I contratti stipulati dai sindacati confederali (202 a fine 2022) coprono il 96,6% deli lavoratori, ma ci sono ben 687 contratti firmati da altre organizzazioni sindacali. Questi contratti sono poco rappresentativi, coprono meno di mezzo milione di lavoratori ma complicano significativamente il quadro soprattutto in tema di applicazione dei minimi tabellari nei contenziosi nel mondo del lavoro. La questione chiama in causa il nervo scoperto della rappresentanza delle organizzazioni sindacali nel mondo del lavoro e la necessità di individuare i contratti dei diversi settori stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali maggiormente rappresentative. Una questione spinosa che nessun governo ha mai voluto affrontare per la divisione tra le forze sociali stesse.
Le analisi e i commenti della proposta di salario minimo si sono concentrati sugli effetti diretti. Una soglia di 9 euro l’ora aumenterebbe la remunerazione per circa un quinto dei lavoratori (3 milioni) coinvolgendo soprattutto giovani, donne e residenti nelle regioni del sud. La soglia di 9 euro ‘‘morderebbe’’, ci sono valori minimi nelle retribuzioni contrattuali di alcuni settori produttivi che prevedono livelli ben inferiori.
Le forze politiche a sostegno della proposta la fanno facile: si stabilisce 9 euro come salario minimo e il problema scompare. Le cose non stanno così. C’è più di un problema.
In primo luogo ci sono problemi tecnici: quale sarebbe il livello di salario minimo? con quale frequenza e secondo quali regole verrebbe aggiornato in presenza di una inflazione elevata? Coinvolgerebbe solo la remunerazione oraria e non il trattamento economico complessivo che costituisce larga parte della remunerazione? A quali categorie si estenderebbe, anche ai precari?
Ci sono poi due effetti indesiderati. L’aumento dei minimi retributivi porterebbe un effetto trascinamento sulle classi più elevate di retribuzione con un aumento del costo del lavoro. Le imprese potrebbero reagire all’aumento del costo del lavoro riducendo la forza lavoro. In secondo luogo, il salario minimo potrebbe offrire una strada al ribasso per le imprese che potrebbero fuggire dalla contrattazione collettiva, che in alcuni settori industriali è più onerosa di 9 euro. Per ovviare a questo problema le proposte rimandano all’applicazione del contratto nazionale nel caso in cui fornisca una retribuzione superiore. 9 euro rappresenterebbe di fatto una soglia minima per tutti i contratti, il punto è capire se i sindacati avranno sufficiente forza contrattuale per ottenere di più. Non è detto.
I problemi ci sono, l’introduzione del salario minimo richiederebbe gioco forza un attento monitoraggio ma enfatizzarli per mantenere uno status quo, come fa il governo, non è onesto intellettualmente e politicamente. Occorre prendere atto che il mondo del lavoro e della contrattazione è cambiato e che occorre rafforzare la parte più debole (il mondo del lavoro). Dire che il salario minimo non è la soluzione, senza avanzare una proposta alternativa, equivale semplicemente a buttare la palla in tribuna e non ce lo possiamo permettere.
(da Huffingtonpost)
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