LE PAURE DI CHI CI GUARDA DA FUORI
COSA SI ASPETTANO DAL NOSTRO PAESE GLI OSSERVATORI INTERNAZIONALI
Come vedranno fuori d’Italia, nel mondo delle cancellerie, dei mercati e degli «influencer» – i leader dell’opinione sul web -, la fine del governo Monti e le nostre prossime elezioni?
A prima vista non ci sarà grande differenza con il 2008.
Allora l’ex premier Berlusconi rappresentava il centrodestra alleato alla Lega Nord di Bossi, contro Veltroni, leader del Partito democratico, il centrista Casini e la sinistra di Bertinotti a chiudere il quadro.
Dopo un lustro di rivolgimenti, la fine del terzo governo Pdl-Lega, la stagione dei tecnici di Monti, le primarie Pd, sarà l’attuale segretario del Pd, Bersani, a candidarsi per il centrosinistra, la destra, per la sesta volta in 18 anni, verrà rappresentata da Berlusconi, Casini prova a rimotivare il centro, mentre la sinistra radicale cerca di rientrare in Parlamento con Vendola.
Nella realtà la fine brusca di Monti, invano esorcizzata dal presidente Napolitano, muta il quadro a fondo.
E chi l’ha favorita, rischia di passare da apprendista stregone.
Ora si rischia infatti che unico elemento di novità appaia il Movimento 5 Stelle. Beppe Grillo, che dopo il successo alle regionali in Sicilia è accreditato, nei sondaggi, di un pacchetto tra 100 e 120 deputati, tutti fedelissimi dell’ex showman.
Le reazioni internazionali alle notizie di ieri sera mostravano già , pure a Borse chiuse, qualche nervosismo.
The Atlantic, la rivista americana, legge nella parabola di Monti e nel mancato rinnovamento del centrodestra la stanchezza italiana, che rischia di far perder interlocutori a Casa Bianca e Unione Europea, nella difficile crisi economica e del debito europeo.
Il giudizio personale su Bersani non è ostile, «un pragmatico» scrive il Financial Times, le perplessità riguardano l’ala sinistra di partito, sindacato e coalizione: riuscirà il segretario, se eletto, a continuare le riforme o i radicali lo trascineranno nelle sabbie mobili come fecero con Prodi nel 1998 e nel 2008?
In Italia, e sarà così anche nella fase conclusiva del governo Monti, il giudizio del mondo suscita due diverse, ed ugualmente errate, reazioni.
Gli «Esterofili» trasformano ogni paragrafo del primo corrispondente di passaggio a Roma in Tavole del Giudizio di condanna apocalittica del nostro Paese, ignorandone successi, cultura, economia, manifattura e ricchezza.
Gli «Esterofobi» dimenticano che il mondo conta, lo spread conta molto, le agenzie di rating saranno pure antipatiche come professoresse arcigne, ma come loro bocciano, e il giudizio dei leader alleati infine regala, o nega, opportunità .
Se l’Italia è giudicata bene nel mondo arrivano fondi ed investimenti, altrimenti no, e non si perde un titolo simpatico sull’Economist, si perde lavoro per gli italiani.
Oltre il provincialismo comune a Esterofili ed Esterofobi, è bene quindi che il «caso Italia 2013», non più garantito dalla credibilità super partes di Mario Monti, sia percepito all’estero con precisione, nella sua forza e nei suoi limiti, con i 1900 miliardi di euro di debito e i 9000 di ricchezza privata, con il 35% dei ragazzi senza lavoro e la seconda manifattura d’Europa, sesta del mondo. Perchè, al di là di quel che appare, il voto 2013 è radicalmente diverso dal 2008, un copione teatrale inedito, malgrado i troppi attori veterani.
Berlusconi 2008 raccolse la vittoria dopo il suicidio degli avversari.
Berlusconi 2013 è reduce dal suicidio del suo governo, e si arrocca con la Lega di Maroni, contando su un 20% dei voti, che — come indicano gli studi elettorali del professor D’Alimonte – può innescare un’impasse al Senato, grazie a Lombardia, Veneto, Piemonte e Sicilia. Sa di non poter vincere, vuol pareggiare e poi trattare.
Anche Bersani conduce una partita diversa da Veltroni cinque anni or sono. Allora il segretario Pd, conscio di non poter prevalere, ottenne un lusinghiero risultato e propose al centrodestra il «dialogo» che i falchi Pdl rifiutarono, pentendosene nei giorni dell’avvento di Monti.
Ora il segretario del Pd è accreditato da sondaggi che gli schiudono chance di vittoria, dopo la brillante campagna di primarie con Matteo Renzi. Il suo problema — davanti al mondo – è provare che, dopo vent’anni di travagli, la sinistra italiana è finalmente capace di vincere e governare per una legislatura senza psicodrammi, completando le riforme.
Non si chiede a Bersani di guidare un Monti bis mascherato, ma di restare il liberalizzatore del 2006.
Anche Casini ha una parte diversa da recitare.
Dopo la scommessa di autonomia dal Pdl, deve mettere insieme tecnocrati e politici, in grado di dare al Pd un interlocutore serio al centro. Non è poco. Non si tratta, se davvero Monti uscirà di scena, di insistere con slogan del Monti bis, si tratta di imporre al Paese la filosofia riformista che, nei giorni migliori, ha animato il governo Monti.
Nessuno, nei centri di studio e potere che contano, dal Council on Foreign Relations al Carnegie Endowment, dalla Casa Biancaall’Eliseo e Downing Street, chiede a Bersani e al Pd — in caso di vittoria – di adottare gli editoriali del Wall Street Journal come linea, nè di indossare gli abiti di Monti.
Si chiede di non ricadere nell’instabilità e restare partner credibili per Obama e Hollande, sulla linea della crescita a bilanciare i conservatori della cancelliera Merkel.
Questo ruolo prezioso il professor Monti ha saputo svolgere, e questo ruolo i suoi eredi riformisti devono continuare a interpretare.
Che l’Italia debba tornare a svilupparsi, che una generazione non debba schiattare di austerità , è chiaro agli alleati: senza però follie fiscali e innovando il Paese.
Quando Bersani ha detto, nel faccia a faccia con Renzi, di non volere raccontare favole e che governare è anche «sorprendere», è sembrato davvero un «pragmatico».
Per vincere le «primarie mondo» deve vaccinare con questa virtù partito e coalizione.
Il centrodestra deve meditare sul suo isolamento: nè i rigoristi alla Merkel, nè i keynesiani alla Hollande-Obama contano sul Pdl come alleato.
La diplomazia muta al mutar del vento, ma per ora il vento va così e non basterà un discorso per riaverlo nelle vele, come quando George W. Bush invitava Berlusconi a parlare al Congresso Usa, raro privilegio per leader amici.
Anche Beppe Grillo ha la sua partita internazionale e, finora, l’ha giocata abilmente.
Il suo consigliere Gianroberto Casaleggio ha incontrato Michael Slaby, Capo dell’innovazione e dei Big Data alla Casa Bianca, durante la sua missione ufficiale in Italia.
Non un endorsement, ma almeno una cortesia per un movimento screziato di antiamericanismo, per esempio sull’Iran. I media internazionali, web o classici, adorano già Grillo, a partire dal primo, raggiante, ritratto del New Yorker.
Piace il 5 Stelle nemico della corruzione, se ne leggono con distratta disinvoltura i programmi, il risultato è bonaria simpatia.
L’Italia ha bisogno del mondo, alleati e investimenti.
Ma il mondo ha bisogno dell’Italia, partner di stabilità nella faticosa uscita dalla crisi finanziaria 2008.
Per questo la nostra scelta 2013 sarà seguita con attenzione in tante capitali, per questo dovremo farla con saggezza, lungimiranza e raziocinio.
Ci sarà tempo per un giudizio storico preciso su Monti e i suoi tecnici. Avrebbero certo potuto essere più calorosi nei giorni delle emergenze del terremoto in Emilia e del naufragio della Concordia.
Avrebbero a volte dovuto spiegare le riforme e le tasse con meno algoritmi e sussiego, con più visione e compassione.
Ma se possiamo guardare alla primavera con preoccupazione e non angoscia si deve alla saggezza di Napolitano e all’aplomb di Monti e dei suoi.
Nessuno può dimenticarlo se non vogliamo che il mondo veda nel 2013 italiano un grottesco festival di demagogia.
Gianni Riotta
(da “La Stampa”)
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