L’ESTATE INFAME DI SILVIO E DUDU’
FESTA FINITA, NON CI SONO PIU’ LE ESTATI DI BERLUSCONI
Era il 1960 quando Bruno Martino cantava Odio l’estate. In quei tempi remoti, Silvio Berlusconi aveva 24 anni, si accingeva a fondare la Cantieri Riuniti Spa e a diventare un grande palazzinaro milanese.
Aveva già smesso di suonare sulle navi, di vendere i temi ai suoi compagni di scuola (reparto solventi) e non viveva ancora nel villone di Arcore.
E soprattutto, l’estate non la odiava per niente, anzi.
Ora che è passato mezzo secolo, può essere che Silvio intoni mestamente, accompagnato al pianoforte da qualche salariato impietosito, quel fortunato motivo che — lo diciamo a onore di Bruno Martino — fu suonato anche da Chet Baker e Joao Gilberto. Esatto. L’estate.
E per la precisione l’estate 2013, dove le suggestioni non sono più musicali, ma piuttosto letterarie, dalle parti di quel capolavoro di Garcàa Mà¡rquez che è L’autunno del patriarca, con il vecchio satrapo abbandonato e solo,circondato da pochi fedeli distratti, incapaci di capire che quella fedeltà non sarà più conveniente a breve, a brevissimo.
E così lui, che i retroscena dei giornali descrivono “cupo”, “torvo”, “furibondo”, a seconda degli orientamenti delle varie testate, o peggio ancora “sereno”, come dicono i suoi, ed è una specie di marchio, in un paese in cui si dicono “sereni” tutti, dal duplice omicidio in giù.
Ed è nell’estate del 2013 che la villa di Arcore diventa “bunker”, con ovvi e macabri riferimenti berlinesi, oppure “prigione dorata”.
Un eremo forzato dove Berlusconi Silvio, colpevole di frode fiscale senza se e senza ma, passa il giorno con i suoi avvocati, la fida fidanzata restylizzata in pochi anni dalla mutanda (che alza l’auditèl) ai tailleur stile Jackie O’, il di lei cagnolino Dudù, le visite di Marina Berlusconi che si chiama in realtà Maria Elvira (ma esiste qualcosa di vero, lì dentro?).
E poi le varie badanti, e poi i falchi che lo assediano di qua, e le colombe che gli tirano la giacchetta dall’altra parte, il Colle, l’odiato /amato Colle che dice e non dice, traccheggia, tentenna, lo tiene appeso lì.
Ma non vi prende un moto — anche piccolo, eh! — di umana pietà ?
Ma ve le ricordate le estati di Silvio?
Il re dei moderati che per mostrare la sua moderazione al mondo si costruiva un vulcano finto in giardino per estasiare gli ospiti. E gli ospiti che si estasiavano, ve li ricordate?
Le gare senza esclusione di colpi per affittare le ville circonvicine, il Tarantini che addirittura si svenava per avere un posto a cena accanto al “Presidente”.
Il Silvio meraviglioso della bandana bianca, con lady Blair che faceva i numeri e le contorsioni per non stare a portata di flash insieme a lui.
Mentre Tony, quella specie di Renzi d’antan, che invece ghignava serafico perchè si sa che in vacanza si incontra gente stramba.
Il Silvio miracoloso della “patonza che deve girare”, o quello che accoglieva figli e famigli sul molo della villona sarda in accappatoio bianco, quello stesso accappatoio che raccontò poi la signora D’Addario, tra una doccia ghiacciata e l’altra.
Ah, quelle estati! Che a dire il vero erano cominciate anche prima, magari da quella foto sul veliero, tutti in divisa, con la maglietta a righe orizzontali, sorridenti come squali, ed era ancora di moda Cesare Previti.
Divise, che passione, perchè erano in divisa anche quando marciavano compatti, alle calcagna del capo, Confalonieri e Galliani ed altri, per una seduta di jogging a prova di pancette e fiatoni attempati, tutti in bianco, calzoncini e magliette.
E poi il via vai di barche e barchette per traghettare signorine su è giù per la baia.
E ancora il mirabolante karaoke con Apicella al fianco, e persino i dischi pubblicati a suo nome. E poi — ma non si finisce più! — lo struscio nella piazzetta di Portofino a stringere mani, a benedire bambini, quando ancora i direttori mandavano i loro cronisti a registrare quel culto cafoncello della personalità .
E il gelato a Porto Cervo, e i cactus che cura lui personalmente, il Presidente giardiniere, che il banchiere Gianpiero Fiorani si ferì come un puntaspilli per regalargliene uno.
Va bene, è vero, è chiaro e conclamato. Erano le estati del nostro scontento.
Erano i tempi in cui Silvio pigliatutto rilasciava interviste dense e pensose per dire che al confino si stava benone.
Quello stesso Silvio che poi — alle porte dell’estate , il 25 aprile — si metteva il fazzoletto da partigiano e parlava davanti ai sopravvissuti di Onna, L’Aquila.
E i giornaloni ci cascavano con tutte le scarpe: ah, lo statista rinato, ah, il grande timoniere, uh, che discorso ispirato!
Ed era quella stessa estate che lui giurava solennemente, non ricordo sulla testa di chi, che avrebbe passato le vacanze a L’Aquila, insieme ai volontari.
E poi, chi l’ha visto?
E poi un’altra estate ancora, quella in cui annunciava ai basiti Lampedusani che presto avrebbe abitato a Lampedusa anche lui, isolano tra gli isolani, avendo testè comprato una villa in loco.
Ora che non è più isolano, ma isolato, accudito e blandito e assecondato come i centenari nelle case di riposo per ricchi, le immagini di tutte quelle estati devono sembrargli un’epoca lontana, un infinito rimpianto.
Quando a uno schioccare di dita poteva avere amici, complici, donne a valanga.
E successo incontrastato come barzellettiere.
Una tristezza infinita, un inappellabile game over. Perchè in attesa dell’autunno de patriarca, alla vigilia del suo avvento inesorabile, c’è un’estate del patriarca.
Ugualmente mesta, triste, acuminata come il rimpianto e velenosa come la nostalgia.
Un po’ di pietà , non la sentite?
No? Beh, io ci ho provato.
Alessandro Robecchi
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